“Sono Mojtaba Rezapour Moghaddam e sono nato il 26 febbraio 2023 a Crotone”.
Mojtaba cammina lungo il pontile nel lungomare di Crotone, oggi come un anno fa il mare è molto mosso, il vento soffia forte e i granelli di sabbia sono lame sulla pelle. “Di quella notte ricordo bambini, solo tantissimi bambini. Il 21 febbraio siamo partiti da Izmir, siamo stati 5 giorni in mare, ricordo di aver passato quei giorni a giocare con i figli degli altri. In Iran avevo lasciato i miei, in ogni bambino che stava su quella barca vedevo i miei figli. Durante il viaggio erano tutti felici di arrivare in Italia. Ora quelle persone non ci sono più e dopo un anno le sogno ancora ogni notte”, racconta Mojtaba. Iraniano di 47 anni, è uno degli 81 superstiti al naufragio del caicco Summer Love che nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023 si è arenato in una secca a poche decine di metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro. “Quella notte non so come mi sono salvato, ricordo solo acqua, sale e benzina insieme come colla che ti soffoca. Ricordo che in cinque secondi avevo già l’acqua al collo. Non capivamo dove eravamo, vedevamo solo mare, buio e mare. Allora ho preso un legno, sono andato sott’acqua due o tre volte, pensavo di essere morto. Quando sono arrivato sulla spiaggia ne ero sicuro, ho capito che ero vivo solo quando mi sono reso conto che i corpi accanto a me non parlavano e avevano gli occhi sbarrati”.
Mojtaba è stato costretto a scappare dall’Iran per aver partecipato alle manifestazioni in seguito all’uccisione di Masha Amini nel settembre 2022. Un giorno a lavoro gli dicono che la polizia lo stava cercando per arrestarlo. Essere arrestati in Iran per aver partecipato al movimento delle donne vuol dire rischiare l’esecuzione. Mojtaba scappa in Turchia lasciando a casa la moglie e i suoi due figli, di 9 e 18 anni. “Speravo che sarei tornato presto in Iran, ma quando la polizia iraniana ha cominciato a cercarmi anche in Turchia ho capito che se volevo sopravvivere dovevo fuggire più lontano, in Europa. Non ero felice di questa scelta, sarei voluto tornare dalla mia famiglia, ma non potevo fare altrimenti”. Mojtaba adesso vive a Crotone da un anno, lavora in una gelateria e vive in una casa fornita dal progetto Baobab. “Crotone è la mia citta, il mio paese, è mio padre, è mia madre, è i miei fratelli, le mie sorelle, Crotone per me è Dio”, afferma con voce ferma e sicura. Insieme a lui solo altri nove sopravvissuti al naufragio sono rimasti a Crotone o nelle città vicine, tra loro Mojtaba è l’unico ad aver ottenuto la protezione internazionale. Tutti gli altri, infatti, hanno la protezione speciale che dura solo un anno. “Ho chiesto di far venire qui mia moglie e i miei due figli, come promesso da Giorgia Meloni – continua – il mio unico desiderio è rivederli”.
Era il 16 marzo 2023 quando la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni invitò a Palazzo Chigi i superstiti e i familiari delle vittime del naufragio di Cutro, tra le promesse fatte anche quella di ricongiungimenti familiari immediati (tramite corridoi umanitari) con i parenti delle vittime che stanno nel paese di provenienza.
Zahra Barati, rifugiata afgana, quel giorno era lì. “Un anno fa siamo stati invitati come familiari delle vittime del naufragio di Cutro a Palazzo Chigi per incontrare Giorgia Meloni. In quell’occasione avevamo fatto delle richieste al governo italiano che ci aveva promesso avrebbe mantenuto. Tra queste c’era il ricongiungimento familiare con i nostri parenti. Ci hanno chiesto di fare una lista con i nomi di chi volevamo far arrivare in Europa. Io scrissi quelli di mamma, papà e delle mie due sorelle. E’ passato un anno, ma loro non sono mai arrivati e nessuno ci ha fatto sapere nulla” racconta sotto il tendone del palazzetto dello sport di Crotone. Lo spazio vuoto del PalaMilone fa eco alla sua voce, lo stesso spazio che un anno fa ospitava 68 dei 94 corpi senza vita restituiti dal mare sulla spiaggia di Cutro. Tra quei corpi c’era anche quello di Sajad Barati, 23 anni, avvolto in un sacco di plastica e poi depositato in una delle bare allineate in attesa di essere riconosciute. Era stata Zahra, giunta a Crotone per riconoscerlo e identificarlo a dare un nome a quel corpo, si trattava di suo fratello Sajad.
“Quando è arrivato in Turchia Sajad ci ha fatto sapere il giorno e l’ora in cui sarebbe partito da Izmir. Il 25 febbraio la persona che faceva da intermediario tra le famiglie e chi conduceva la barca, ci aveva avvisati che in poche ore sarebbero arrivati in Italia. Il giorno dopo, però, mio cognato ha saputo di un caicco carico di migranti partito da Izmir che era naufragato vicino alle coste italiane. Così ha avvisato mio marito e lui dopo due giorni di ricerche mi ha detto che anche mio fratello si trovava su quell’imbarcazione. Sono andata subito a Crotone per cercarlo, ma ho potuto solo riconoscerne la salma”.
Zahra oggi vive in Finlandia, dove ha raggiunto il marito due anni fa. E’ qui che è stato seppellito il fratello insieme al sogno di un futuro europeo. “Venti anni fa sono fuggita dall’Afghanistan e sono andata a vivere in Iran con tutta la mia famiglia – continua Zahra – “per noi profughi afgani la vita non è semplice in Iran, non abbiamo nessun diritto. Per questo motivo ho deciso di fuggire, lo stesso motivo che ha spinto mio fratello ad andare in Turchia e imbarcarsi sul Summer Love. Sajad non poteva studiare né lavorare in Iran, sognava di venire in Europa per frequentare la scuola, costruirsi un futuro e aiutare mamma, papà e le mie due sorelle a raggiungerlo qui”. Adesso è di Zahra il compito di far arrivare in Europa la famiglia, per questo, a distanza di un anno dalla morte del fratello la rabbia, in lei, sembra più forte del dolore. “Le mie due sorelle minori, due gemelle di dieci anni, sono ancora in Iran, la loro condizione psicologica è molto grave. Dopo la morte di nostro fratello non si sono più riprese, hanno bisogno di venire a trovarlo, hanno bisogno di pregare sulla sua tomba. La sua bara non è mai stata rimpatriata. Sajad è seppellito in Finlandia, i miei genitori non l’hanno neanche potuto salutare per l’ultima volta” dice indicando il punto in cui si trovava la bara del fratello l’anno scorso. “Le vittime non sono soltanto le persone che hanno perso la vita, ma anche noi che siamo ancora vivi, – continua – le nostre vite sono cambiate moltissimo dopo quella tragedia e vogliamo delle spiegazioni. Perché, nonostante sia passato un anno, ancora non conosciamo la verità? Perché i nostri parenti non sono stati soccorsi? Perché non sono intervenute subito le autorità italiane? Perché le promesse fatte dal governo italiano non sono ancora state mantenute?”
Ali Raza, invece, non era presente quel giorno a Palazzo Chigi. Ali ha 24 anni, viene dal Pakistan e dal 2017 vive in nord Italia dove lavora come operaio in fabbrica. Oggi è tornato a Crotone per ricordare la sorella. Shahida Raza, 28 anni, capitana della nazionale femminile di hockey del Pakistan, era sul caicco Summer Love, fuggita dall’ex marito rimasto in Pakistan con il figlio di tre anni. “Mi aveva detto che aveva bisogno di qualche giorno in Turchia per svagarsi dopo il divorzio, non avevo idea che volesse venire in Europa. Venerdì 24 febbraio mi ha chiamato e mi ha detto che stava per arrivare in Italia, che mi stava raggiungendo qui”, racconta tenendo stretto tra le mani il cellulare con la foto della sorella. “L’indomani ho provato a chiamarla ma non rispondeva, l’ho chiamata tantissime volte fino a quando mi ha risposto ‘quaranta minuti e arrivo in Italia’, sono state le ultime parole che mi ha detto. Da allora non l’ho più sentita. Non sapevo niente fino a quando domenica alle otto e mezzo del mattino non ho letto che una barca era naufragata a Cutro”. Dopo tre giorni dal naufragio le autorità contattano Ali, doveva raggiungere Crotone per riconoscere il corpo della sorella. “All’inizio non ho detto niente alla mia famiglia, come facevo? Quando mi hanno chiesto come stava mia sorella ho risposto soltanto ‘adesso sta bene’”. Ora la madre, il padre e il figlio di Shahida aspettano di raggiungere l’Italia, come promesso dal Governo. “Io non sono potuto andare a Palazzo Chigi, dovevo lavorare e il mio capo non mi ha lasciato andare. Ma so che quel giorno il governo ha promesso di far venire i nostri familiari in Europa. Questa cosa però non è ancora successa”. Una domanda, inoltre, resta ancora senza risposte per Ali: “So che dal caicco avevano chiamato i soccorsi, ma non so perchè non è arrivato subito qualcuno”.
Sciad Hassan Hossaini, giornalista afgano, a quella domanda invece una risposta se l’è già data. “Mia nipote Maheda Hossaini prima di morire aveva mandato un messaggio vocale a sua madre dicendo che stava per raggiungere le coste italiane” racconta Hassan. ‘Penso manchino solo 20 minuti. Ci stiamo avvicinando alla costa, non preoccuparti’, le aveva detto. Poi il silenzio. “Credo che fossero davvero vicini alla costa quando hanno chiesto aiuto alla Guardia Costiera: ‘Per favore, aiutateci. Siamo donne, uomini, anziani e famiglie. Abbiamo bisogno di aiuto’, immagino queste voci dal giorno del naufragio. Le autorità italiane hanno deciso di non aiutarli. Sapevano che il mare era agitato. Sapevano che a pochi chilometri di distanza stava arrivando una barca piena di esseri umani in pericolo e hanno deciso di non aiutarli. Li hanno lasciati morire, hanno deciso di girarsi dall’altra parte di fronte alle persone che laggiù stavano affogando”. Hassan vive ad Amburgo da due anni dove ha ricominciato a lavorare come giornalista, quello stesso mestiere che lo costrinse a fuggire dall’Afghanistan nel 2021. Su quel caicco partito dalla Turchia ha perso sua nipote. Maheda Hossaini aveva 16 anni e il sogno di diventare astronauta. “Maheda voleva lavorare per la NASA, era la sua grande ambizione. In Afghanistan in quanto donna aveva una sola possibilità: sposarsi. E’ scappata per inseguire il suo sogno, per poter studiare, per poter imparare l’inglese. Ho cresciuto mia nipote come fosse una figlia. Prima della ripresa del potere da parte dei talebani la portavo sempre con me in biblioteca o alle feste, per conoscere gente e per avere una percezione positiva della vita”, racconta con le lacrime agli occhi. “E’ difficile per me parlare di Maheda, ricordarmi ciò che facevamo insieme con la consapevolezza che adesso l’abbiamo persa per sempre”. Il corpo di Maheda è stato ritrovato dopo 18 giorni dal naufragio. Galleggiava in mezzo al mare. Hassan non ha avuto il coraggio di guardarla in volto ma l’ha riconosciuta dagli orecchini che indossava, dagli anelli e dal pantalone. Adesso riposa nel cimitero di Bologna, i familiari hanno preferito farla seppellire nel paese in cui è morta nella speranza, però, di poterle dare un ultimo saluto. “Insisto sul fatto che il governo mantenga la promessa di aiutare le famiglie delle vittime a raggiungere i loro parenti in Europa fosse anche solo per vedere la tomba dei loro cari morti nel naufragio. Non chiediamo troppo. Non è una cosa molto costosa per loro. Possono farlo se vogliono. L’anno scorso l’hanno promesso ma dopo un anno, qui non è successo ancora nulla”. La madre, il padre, le sorelle e l’unico fratello di Maheda sono ancora in Iran, dove si sono rifugiati dall’Afghanistan. “Io voglio solo che loro possano venire a salutare Maheda. Non me ne frega niente dei soldi che ci sono stati promessi. Cosa cambiano i soldi? Anche se ci dovessero risarcire mia nipote non tornerà in vita. L’unica cosa che può cambiare le cose e che il governo faccia venire i parenti delle vittime in Europa come promesso, ma soprattutto che si ottenga giustizia. Che le autorità italiane confessino le loro responsabilità, che dicano di aver scelto che mia nipote insieme a tutti gli altri morissero”.
Immagini. In copertina: Zahra Barati. Nell’articolo, in ordine: Mojtaba Rezapour Moghaddam, Ali Raza, Sciad Hassan Hossaini. Tutte le foto sono di Lidia Ginestra Giuffrida.