“Esistono aziende sane che nella legalità producono eccellenze”. È così che Giovanni Mininni, Segretario Generale della Flai-Cgil Nazionale, ha introdotto la presentazione del V Rapporto Agromafie e Caporalato realizzato a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto lo scorso 16 ottobre, Giornata Mondiale dell’Alimentazione. Un rapporto che è stato concluso in un anno in cui la pandemia di Covid-19 ha messo in crisi le impostazioni fino a quel momento ritenute intangibili della vita collettiva e ha colpito tutti i Paesi del mondo con ripercussioni ancora più gravi per i più deboli. In questo caso si tratta di donne e uomini che lavorano nei campi il più delle volte senza tutele, in condizioni di totale sfruttamento e in assenza di misure preventive di natura sanitaria: le stesse donne e gli stessi uomini che nella stagione dell’emergenza si sono rivelati fondamentali per garantire che non venissero a mancare i beni di prima necessità. Lavoratrici e lavoratori che erano 110.000 nel 2018 e oggi ammontano a 180.000 secondo le stime della Flai-Cgil, record da quando si registrano questi dati. Quest’anno ancor più che in passato è dunque necessario porre il lavoro al centro dell’agenda politica del Paese, come sottolineato nella Prefazione del rapporto da Maurizio Landini, Segretario Generale della Cgil. Quest’anno ancor più che in passato “c’è bisogno di contrastare lo sfruttamento e il caporalato che calpestano proprio i diritti e la dignità del lavoro”, dignità e diritti il cui riconoscimento costituisce la condizione necessaria per uscire da un’emergenza drammatica e prospettare un nuovo modello di sviluppo.
“Esistono tante aziende sane che nella legalità producono eccellenze”. Ma sappiamo quanto anche sia le mafie che il caporalato, se non vengono contrastati, siano pervasivi nel compromettere intere filiere e territori. Accanto alle aziende sane esiste infatti anche un modello economico che si regge sull’illegalità e sulla mortificazione dei lavoratori stranieri e italiani. Più che di un modello economico si tratta di una diseconomia i cui confini geografici si sono estesi nel tempo ben oltre l’area meridionale, arrivando a interessare l’intero territorio nazionale, dalla ricca agricoltura della Franciacorta, alle coltivazioni fruttifere della zona di Livorno, alla viticoltura del veronese.
Il V Rapporto Agromafie e Caporalato, oltre a raccontare storie di persone di sfruttamento ma anche di riscatto, indaga gli aspetti fondamentali del contesto nel quale si verificano questi comportamenti illegali. Vengono approfondite le condizioni dei lavoratori agricoli e le loro vulnerabilità, dedicando particolare attenzione alla condizione delle braccianti donne, che oltre alle condizioni di sfruttamento nei campi sono costrette ad accettare differenze salariali rispetto agli uomini e – elemento ancor più grave – a sottostare a ricatti e abusi sessuali pur di continuare a lavorare.
Il rapporto si sofferma poi sui più ampi temi dell’immigrazione e dell’accoglienza con specifico riguardo alle recenti norme sulla regolarizzazione (art. 103 del Decreto n. 34 del 19 maggio 2020) che hanno aperto la possibilità di regolarizzazione per i lavoratori impegnati nei settori dell’agricoltura, allevamento e pesca, assistenza alla persone e lavoro domestico. Sebbene alla scadenza del termine per presentare le istanze fossero state presentate 207.500 domande, tuttavia, non è facile stabilire quanta parte tra gli occupati in maniera irregolare possa essere emersa – e quanti, grazie a questa procedura, possano essersi sottratti a condizioni di sfruttamento estremo – a seguito di una regolarizzazione circoscritta per settore e per rigidi limiti temporali.
Il rapporto dà poi spazio alle riflessioni sul quadro giuridico attualmente vigente in Italia e sulle possibili strategie di contrasto alle pratiche di sfruttamento. Al centro della cornice normativa che regola questo ambito c’è la legge n. 199/2016, comunemente identificata come “legge contro il caporalato”. Più correttamente questa legge contiene disposizioni “di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”, fornendo strumenti per una lotta ben più ampia di quella contro il “solo” caporalato. La legge n. 199/2016 è sicuramente un ottimo punto di partenza perché riformulando l’art. 603 bis c.p. ha contribuito a potenziare gli strumenti che gli inquirenti hanno a disposizione per contrastare condotte di sfruttamento. Ma la repressione non può sanare un contesto dove non c’è prevenzione: il quadro che emerge dal monitoraggio dei meccanismi di prevenzione del fenomeno e di tutela delle vittime di sfruttamento infatti non è per nulla rassicurante.
Oltre a fornire un quadro generale sul fenomeno dello sfruttamento in Italia, i numerosi approfondimenti inclusi nel rapporto colgono anche le specificità e le diversità del fenomeno del caporalato, analizzando le modalità in cui gli sfruttatori si infilano nelle maglie dell’economia locale e si approfittano dei lavoratori in territori tra loro così diversi come la realtà siciliana di Agrigento e Trapani, la piana del Sele nel salernitano o la zona di Livorno.
Ma quanto di tutto questo è noto ai più? Se le più grandi operazioni di contrasto al caporalato e lo sfruttamento destano l’attenzione delle cronache e dei media, un numero immensamente più alto di casi in cui i lavoratori vedono i propri diritti calpestati rimangono nell’ombra. Nell’estate del 2020, per citarne alcune, è stata resa nota l’operazione Demetra, ovvero il maxi arresto che ha coinvolto 14 aziende e circa 60 persone per i reati di sfruttamento, caporalato e intermediazione illecita di manodopera tra Basilicata e Calabria. Molti ricorderanno anche il caso della start up Straberry, attraverso la quale un imprenditore milanese si serviva di braccianti africani costretti a lavorare per più di 9 ore per 4,50 euro l’ora con totale mancanza di trasparenza delle buste paga e di misure di sicurezza idonee a fronteggiare l’emergenza sanitaria sul posto di lavoro. Ma ci sono tanti, troppi altri casi di lavoratori sfruttati che vivono in condizioni indegne dei quali né le istituzioni né i consumatori conoscono le storie. Le istituzioni non le conoscono innanzitutto perché le organizzazioni criminali che mantengono il controllo del territorio attraverso la sua economia modificano continuamente le proprie vesti e diversificano gli investimenti per sfuggire al radar degli Ispettorati Nazionale e Territoriali del Lavoro, della Guardia di Finanza e di tutte le altre autorità coinvolte nella lotta al caporalato. Ma un’altra delle ragioni per cui le istituzioni non riescono a scovare gli sfruttatori è il calo netto che ha interessato le ispezioni e i controlli negli ultimi anni, a partire dal 2015. I dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro pubblicati nel rapporto mostrano che le ispezioni in agricoltura sono diminuite del 33% nonostante il tasso di irregolarità nelle stesse ispezioni sia risultato il più alto proprio nel 2019, arrivando al 59,34%.
Ma se la cognizione del fenomeno dello sfruttamento da parte delle autorità non è completa, ancor più scarsa è la consapevolezza dei consumatori che quotidianamente, davanti agli scaffali del supermercato, si trovano a fare scelte spesso in maniera superficiale senza sapere che la decisione di comprare questo o quel barattolo di salsa di pomodoro – solo perché più economico – potrebbe avere serie ripercussioni sui lavoratori impegnati nei campi dove si produce la materia prima. In attesa dell’approvazione della legge contro le aste al doppio ribasso, come sottolineato dalla Ministra delle politiche agricole alimentari e forestali Teresa Bellanova, le ripetute vendite sottocosto non devono più essere viste come campagne di promozione dei prodotti: i consumatori devono essere consapevoli che c’è qualcuno che sta pagando il prezzo di quel risparmio e quel qualcuno, il più delle volte, è la lavoratrice o il lavoratore agricolo, anello più debole della filiera su cui si scarica l’abbattimento dei costi.
Il contrasto al caporalato ha dunque bisogno di azioni, con la consapevolezza che l’aspetto repressivo non basta: c’è bisogno di misure che devono rendere sostenibile la produzione di buon cibo e, allo stesso tempo, il rispetto della dignità del lavoro, coniugando sostenibilità ambientale, sostenibilità economica e sostenibilità sociale.
In copertina: lavoratori della filiera No Cap – Foto: Maria Palmieri