“Ricordo ancora quella barca che attraccava mentre i passeggeri, che mi avevano riconosciuta, gridavano il mio nome e chiedevano aiuto”. Zamira Koleçi, ex direttrice di Radio Tirana e oggi docente universitaria di Giornalismo radiofonico, era in Italia per la prima volta nell’estate del 1991. “Non avevo mai lasciato l’Albania se non per seguire da cronista i viaggi istituzionali – ricorda – e ora che il regime comunista era caduto eravamo finalmente usciti dall’isolamento. Ma questa inesplorata libertà aveva portato a galla una grave crisi economica già in atto da anni, a causa della mancanza di riforme efficaci, di uno scarso sistema industriale e di una cattiva gestione delle esportazioni. E ora che le frontiere non erano più invalicabili si poteva sperare di ricominciare all’estero, dall’altra parte dell’Adriatico”.
Era il 7 marzo del 1991 quando cominciò l’esodo degli albanesi sulle coste pugliesi: al porto di Brindisi giunsero navi mercantili e imbarcazioni di ogni tipo, con 27 mila persone in fuga dal loro paese e un’Italia impreparata ad accoglierle. Qualche mese dopo, l’8 agosto, la cargo Vlora proveniente da Durazzo attraccò a Bari dopo essere stata respinta a Brindisi: a bordo c’erano 20 mila persone che avevano letteralmente preso d’assalto l’imbarcazione il giorno prima, durante le operazioni di scarico dello zucchero importato da Cuba, e si erano stipati a bordo in condizioni disumane pur di arrivare dall’altra parte dell’Adriatico.
“Da allora sono cambiate molte cose – dice Zamira – il mio paese resta povero ma sta crescendo, e comunque ci si riesce a vivere. Il grande problema che non abbiamo ancora risolto è la corruzione, a tutti i livelli, che certo frena lo sviluppo e l’equità sociale. Però i giovani di oggi hanno la libertà, che quelli della mia generazione hanno conosciuto troppo tardi”.
La diaspora albanese resta ancora oggi particolarmente numerosa in rapporto alla popolazione residente nel paese, di circa tre milioni: secondo i dati del 2018 di Instat, l’Istituto di Statistica nazionale, oltre un milione di persone vive all’estero, e di queste più di 440 mila si trovano in Italia, senza contare coloro che hanno acquisito la cittadinanza. D’altronde ci sono anche molti emigrati, che nell’ultimo decennio hanno deciso di tornare e provare a costruirsi un futuro nel proprio paese.
Nel decennio compreso fra il 2001 e il 2011 ad esempio, i rientri sono stati quasi 140 mila, con una percentuale più alta di uomini rispetto alle donne, (il 73,7% contro il 26,3%), e motivazioni differenti: la popolazione maschile dei migranti di rientro si è mossa soprattutto per ragioni di lavoro, mentre quella femminile per motivi familiari. Un dato interessante è rappresentato dalla redistribuzione interna degli ex emigrati all’estero che, tornando in Albania, hanno scelto di vivere soprattutto a Tirana, Durres e Vlore, i maggiori centri urbani che offrono standard di vita “europei” e maggiori possibilità occupazionali rispetto alle aree rurali.
L’emigrazione intanto continua a diminuire: nel 2018 sono state 38.703 le persone che hanno lasciato il paese, pari al 3% in meno rispetto al 2017.
“Nell’immaginario collettivo degli europei gli albanesi sono rimasti quelli che scendevano stremati dai barconi, come se non fossero passati quasi trent’anni da allora!”. Così Bledar Kola, ex migrante e oggi chef stellato Michelin alla guida di uno dei ristoranti più noti di Tirana, Mullixhiu, scherza sulla percezione dell’Albania all’estero: “avevo 15 anni quando sono partito per Londra a cercare lavoro, era il 1999 e in quel periodo sopravvivere era davvero difficile per una famiglia. Ho cominciato come lavapiatti, e da lì è partito tutto”.
Tornato a casa nel 2009 con un diploma da cuoco e un’esperienza internazionale, decide di ripartire due anni dopo per un tirocinio al Noma di Copenaghen, e poi un’altra esperienza, questa volta in Svezia, al Faviken Magasinet. Oggi chef Bledar propone piatti della tradizione rivisitati, ha il primo presidio Slow Food della capitale albanese e tutto quello che offre è autoprodotto, persino la farina per pane e pasta. “L’Albania ha un tasso di crescita del 4% – dice – ha una popolazione giovane e risorse naturali incredibili che possiamo valorizzare. Io ho scelto di dare il mio contributo attraverso quello che so fare meglio, e oggi lavoro con mia moglie e poche persone di fiducia: qui cerchiamo di mostrare il vero volto dell’accoglienza albanese, anche in tavola, poiché abbiamo la fortuna di ricevere molti turisti”.
Il ristorante di Bledar si affaccia sul lago artificiale del parco di Farka, un’area verde molto frequentata dagli abitanti di Tirana per praticare sport e far giocare i bambini, ma resta un miraggio per la maggior parte di loro, perché un menù da 15 euro non è certo un prezzo popolare. In Albania lo stipendio medio di un impiegato equivale a circa 300 euro al mese, mentre la paga nel settore agricolo si ferma a 180 euro.
“Uno dei motivi per i quali abbiamo deciso di attivarci fra i lavoratori agricoli è quello di avviare un percorso di sensibilizzazione sui loro diritti – dice Bora Mema, giovane attivista di Organizata Politike, movimento studentesco attivo nel campo dei diritti delle minoranze e protagonista delle manifestazioni degli universitari del dicembre scorso. Nelle zone rurali non esistono giorni di riposo, orari, compensi equi, e chi ne fa le spese sono soprattutto le donne, che pur di lavorare accettano qualsiasi condizione perché non hanno scelta. Il grande problema dell’occupazione femminile, soprattutto nei piccoli centri e nelle campagne, è la mancanza di una reale indipendenza economica. Piuttosto – spiega Bora – si può parlare di una doppia schiavitù, che lega le donne alla terra senza un corrispettivo reale, e le costringe a dipendere comunque dal marito”.
Bora è anche la portavoce dell’Icse, Institute for critique and social emancipation, e si è battuta per la sindacalizzazione dei lavoratori dei call center: la prima organizzazione di settore in Albania, “Solidarietà”, nata a febbraio. “I settori di massimo impiego nel nostro paese sono essenzialmente due – chiarisce la giovane attivista – agricoltura nelle aree rurali e call center in quelle urbane. Se nei campi le condizioni sono durissime, al telefono sono comunque difficili, per motivi diversi. Spesso sono gli studenti a intraprendere questo lavoro per mantenersi all’università e l’approccio temporaneo all’impiego rende ancora più difficile creare una coscienza collettiva”.
Pure nei call center però si può fare carriera: Vesa, 25 anni, ha cominciato al telefono e oggi gestisce i server aziendali. “Ho iniziato a lavorare quattro anni fa e per sei mesi ho fatto i turni di notte al telefono – racconta – poi ho avuto la possibilità di crescere e oggi sono soddisfatta, anche se vorrei fare altre esperienze professionali, data la mia età. Non voglio fermarmi, ho voglia di crescere, ma non lascerei mai il mio paese, se non per un breve periodo”.
Cinque lingue, fra le quali un perfetto italiano imparato davanti alla tv, una laurea in informatica e quattro anni di esperienza lavorativa. Vesa ha un curriculum importante, ma spiega di non essere un’eccezione. “Qui a Tirana la maggior parte dei miei coetanei parla almeno altre due lingue oltre l’albanese – racconta – vuole studiare e costruirsi un futuro. Ma ama anche divertirsi, e non è un caso se negli ultimi anni la capitale e le località di mare attirano sempre più turisti e appassionati di musica, grazie ai festival internazionali che ci siamo inventati. Quello che manca a tanti? La coscienza collettiva! Ma siamo giovani in un paese giovane come noi, e la crescita è appena cominciata per tutti”.
Immagine di copertina: Piazza Scanderberg a Tirana (foto di Ilaria Romano, come tutte quelle presenti nell’articolo)