Il 4 novembre scorso, il ministro dell’Interno del Pakistan, Ijaz Ahmed Shah, e il ministro della Sicurezza della Bosnia-Erzegovina, Selmo Cikotic hanno siglato a Islamabad un accordo e un protocollo di accompagnamento per consentire il rimpatrio dei migranti nel loro paese d’origine.
Con l’accordo, il Pakistan si è impegnato ad accettare il ritorno dei suoi cittadini che attualmente vivono illegalmente in Bosnia e viceversa. Secondo l’accordo, le autorità competenti per la ricezione, la presentazione e il trattamento delle richieste di riammissione, nonché di quelle per il transito, saranno il Ministero della Sicurezza bosniaco e il ministero degli Interni per il Pakistan. La riammissione e l’accoglienza dei cittadini dei due Paesi e il transito degli stranieri avverrà attraverso gli aeroporti internazionali di Sarajevo e Islamabad.
Gli ultimi dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) calcolano che siano non meno di 10mila i migranti nel territorio della Bosnia-Erzegovina, una parte significativa dei quali sono pakistani. Motivo che, in passato, aveva creato una forte tensione tra i due paesi.
L’ex ministro della Sicurezza della federazione nata dalla dissoluzione della ex-Jugoslavia, Fahrudin Radoncic, aveva accusato il governo pakistano di non collaborare al rimpatrio dei loro connazionali arrivati in Bosnia-Erzegovina illegalmente e dopo viaggi massacranti.
La disputa era iniziata quando Radoncic aveva ordinato al Centro per gli stranieri SPS (Služba za poslove sa strancima) il censimento di circa 9mila-10mila migranti illegali da deportare, esclusi i rifugiati dalla Siria dilaniata dalla guerra. Radoncic affermava che tra questi, almeno 3mila persone arrivavano dal Pakistan e che l’ambasciata pakistana non voleva cooperare per identificarli. Radoncic si era spinto a chiedere che l’ambasciatore pakistano a Sarajevo fosse dichiarato persona non grata. Nessuno nel governo lo aveva assecondato e si era dimesso a giugno.
A Radoncic non è stata perdonata la forzatura diplomatica con Islamabad, ma mesi fa anche Slobodan Ujić, capo del SPS, aveva dichiarato che da anni la mancata cooperazione delle ambasciate dei Paesi di origine dei migranti complicava le procedure di identificazione.
Ora arriva questo accordo, in un contesto sempre più complesso per i migranti nella regione, in particolare in Bosnia-Erzegovina. Il confine con la Croazia, per i migranti, è uno dei più pericolosi al mondo per le violenze della polizia croata. Dopo una incessante attività della rete internazionale di attivisti e della società civile, come il lavoro in Italia della rete RiVolti ai Balcani, il Mediatore europeo (carica adibita a ricevere le denunce su casi di cattiva amministrazione delle istituzioni UE) ha avviato un’indagine su una denuncia di Amnesty International contro la Commissione europea.
La mediatrice europea, Emily O’Reilly, come annunciato l’11 novembre scorso, si concentrerà sul modo in cui la Commissione cerca di garantire che le autorità croate rispettino i diritti fondamentali nel contesto delle operazioni di gestione delle frontiere.
In generale, però, anche il ‘fronte’ interno in Bosnia-Erzegovina diventa sempre più preoccupante. La tensione verso i migranti è palpabile e, sempre di più, anche operatori e attivisti finiscono nel mirino di proteste e pressioni.
Lo scorso 5 novembre, Mary Lawlor (special rapporteur delle Nazioni Unite per i difensori dei diritti umani) e Felipe Gonzàles Morales (special rapporteur Onu per i diritti dei migranti) sono intervenuti pubblicamente in sostegno di Zehida Bihorac, insegnante di scuola elementare e attivista, che lavora nel nord-ovest della Bosnia-Erzegovina, nel cantone di Una-Sana, al confine con la Croazia. I rappresentanti delle Nazioni Unite hanno chiesto al governo bosniaco di indagare sulla campagna diffamatoria e sulle minacce di morte contro Bihorac, che si batte per il rispetto dei diritti umani e che lavora nel paese per i diritti di rifugiati e migranti.
La signora Bihorac, mentre distribuiva cibo e vestiti ai rifugiati, tentando di aiutarli ad accedere a cure mediche, è stata filmata, seguita e aggredita verbalmente. Ha anche presentato regolare denuncia alla polizia locale, ma finora non è stata intrapresa alcuna azione ufficiale dalle autorità.
I casi sono tanti e una delle comunità più criminalizzate, in modo diretto da i gruppi anti-migranti e in modo indiretto da alcune forze politiche in Bosnia-Erzegovina, sono proprio i pakistani.
Il 17 novembre, nei sobborghi di Sarajevo, un cittadino bosniaco è morto e altri due sono rimasti feriti in uno scontro dalla dinamica ancora tutta da chiarire. Secondo fonti non confermate, un gruppo di migranti stava creando problemi in un caffè, con i cittadini locali che cercavano di cacciarli dal negozio. Nella rissa che ne è seguita, una persona è rimasta uccisa.
Ancora non si sa realmente nulla di quanto è accaduto, ma è già partita una campagna d’odio.
Tutto questo, nonostante dall’inizio del 2020 la Bosnia-Erzegovina ha registrato un calo degli ingressi. Sono stati registrati, infatti, dal ministero della Sicurezza, al 30 ottobre, 13.683 ingressi di immigrati irregolari, quasi la metà dei 25.000 arrivi del 2019. Secondo i dati forniti dalle organizzazioni umanitarie, 6.377 migranti sono attualmente ospitati nei centri intorno a Sarajevo e nel cantone di Una-Sana (Bihac). Migranti provenienti in maggioranza da Pakistan, Afghanistan e Marocco. Le autorità locali stanno cercando di ridurre la pressione sui centri urbani, soprattutto nel nord-ovest del Paese: il campo ”Bira” è stato chiuso nel centro di Bihac e un altro campo sarà chiuso a Velika Kladusa. I migranti saranno trasferiti nel villaggio di ”Lipa”, a circa 20 chilometri di distanza, anche se la struttura è una tendopoli e quindi non è adatta per i rigidi mesi invernali.