Guerre e persecuzioni non sono gli unici fattori che stanno dietro alle migrazioni. I disastri ambientali legati al cambiamento climatico sono sempre più frequenti e ciò porta le persone colpite a doversi spostare. A questo proposito, i ricercatori Rahman Momeni, Tuba Bircan e Robert King hanno pubblicato una ricerca dal titolo Environment-induced internal displacement. The case of Somalia, con focus specifico sulla Somalia e le caratteristiche di un Paese di forte emigrazione per via del cambiamento climatico.
L’instabilità della Somalia, spiegano i ricercatori, è alimentata da conflitti in corso, focolai epidemici di lunga durata, sistemi di protezione sociale deboli, condizioni climatiche irregolari e ulteriori problematiche che contribuiscono al danneggiamento delle attività di agricoltura e allevamento fino ai mezzi di sussistenza pastorali e rurali, e quindi alla sicurezza alimentare. “Secondo la Banca Mondiale, la Somalia è uno dei paesi più poveri del mondo, dal momento che quasi il 70% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, guadagnando meno di 2 dollari al giorno”, riportano i ricercatori. Ciò contribuisce a una prolungata crisi umanitaria caratterizzata soprattutto da sfollamenti interni: infatti, questo paese, è caratterizzato da eventi climatici estremi ossia casistiche in cui le condizioni meteorologiche provocano notevoli danni interni.
“Storicamente, la siccità e le inondazioni rappresentano i principali eventi climatici estremi che si verificano con insistenza in Somalia. Periodi di siccità costanti alternati da eventi alluvionali provocano il degrado del suolo […]” andando quindi a rappresentare un grave pericolo per i campi. Ad esempio, si legge nel rapporto “il caso di siccità più estremo in Somalia, nell’ultimo decennio, si è verificato nel 2011, quando quasi 258.000 persone persero la vita. In seguito ci fu una carestia a Bay, Bakool, e altre regioni del Basso e Medio Shebelle, situate nella Somalia centrale e meridionale […]”. Nella ricerca viene riportato, anche un altro caso di siccità, iniziato nel 2015, che ha raggiunto un picco tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017. In questa occasione, più di 800.000 persone somale sono fuggite dalle loro case in cerca di acqua e mezzi di sussistenza. Inoltre, nel 2018, la Somalia è stato il paese africano più colpito, con 167.000 persone sfollate, a causa della siccità tra i mesi di gennaio e giugno. Secondo i dati Unhcr, si legge nella ricerca, dal 2016 più di tre milioni di persone somale sono state costrette a fuggire a causa dei frequenti episodi di siccità e inondazioni. “In aree come la Somalia”, scrivono i ricercatori, “che sono soggette a eventi meteorologici estremi multipli o ricorrenti, le condizioni ambientali possono portare allo sfollamento più volte, contribuendo ad aumentare la vulnerabilità delle persone”.
Con il cambiamento climatico e la crescente frequenza di disastri ambientali, le persone che vivono nelle aree più svantaggiate sono più vulnerabili sia socialmente che economicamente. Tali fattori costringono le persone a lasciare le loro case: la migrazione, volontaria o forzata, internazionale o interna, oltre che essere un diritto umano, è la diretta conseguenza a un contesto che sta diventando sempre più invivibile. Nel caso della Somalia i ricercatori hanno evidenziato alcuni aspetti sulla risposta delle persone ai disastri ambientali. In primo luogo, scrivono i ricercatori, con le inondazioni o le alluvioni le persone iniziano ad andarsene poco prima che queste inizino, tendendo a tornare alle loro case subito dopo. La siccità, invece, “è più progressiva, e l’adattamento a questo cambiamento è più impegnativo. Le persone iniziano a lasciare le loro case con un certo ritardo dall’inizio dell’evento climatico e il numero degli sfollati interni aumenta gradualmente. Inoltre, in questo caso, tornare alle proprie abitazioni richiede molto più tempo”.
Sempre più studiosi e studiose, – secondo quanto riportato dal nuovo articolo scientifico della rivista Frontiers Climate migration research and policy connections: progress since the Foresight Report – iniziano a prediligere il termine “mobilità climatica” a “migrazione climatica”. La ricerca sulla mobilità umana nel contesto del cambiamento climatico riconosce i molteplici modi in cui le persone si muovono: infatti, parlando di mobilità “si evidenzia che la mobilità umana non dovrebbe essere studiata come qualcosa di eccezionale, piuttosto, come qualcosa di normale in un mondo altamente interconnesso, e quindi la ricerca sulla mobilità climatica dovrebbe concentrarsi sul ruolo dei rischi climatici nell’alterare i modelli di mobilità già esistenti”.
Rimettere quindi al centro il diritto alla libertà di movimento, reso ormai impossibile dalla così chiamata “Fortezza Europa” per via di politiche sempre più restrittive e improntate sui respingimenti sistematici, rimane un punto fermo anche e soprattutto in un contesto in cui i cambiamenti climatici stanno costringendo sempre più persone a spostarsi. A ciò è necessario sostituire l’inazione sul clima dei governi dei Paesi più potenti con politiche volte ad arrestare il collasso del pianeta, come ha evidenziato l’Ipcc nel suo ultimo rapporto.
Questo studio è stato prodotto all’interno di Humming Bird. Humming Bird è un progetto Horizon 2020 che mira a migliorare la mappatura e la comprensione dei flussi migratori in evoluzione.
Foto copertina via Twitter/FAO Emergencies