Balzano giù dai letti a castello, si infilano in fretta le scarpe da ginnastica o le infradito e mi mostrano i loro braccialetti, alcuni regalati, alcuni intrecciati e consumati, che sono arrivati con loro dall’Africa e con loro sono sopravvissuti al viaggio. Uno è un masbaha, il filo musulmano da preghiera simile al rosario, fatto di grani bianchi finemente iscritti – sono corsi a prenderlo per farmelo vedere. Ali, Youssef, e Mohammed detto Afifi vengono dall’Egitto, mentre Nouha e Moustapha vengono dal Senegal, e hanno tutti sedici o diciassette anni. Alti, svelti e sorridenti, hanno fatto tutti la traversata per mare, e hanno tutti passato del tempo in Libia, esposti alle atrocità che ho sentito raccontare da tanti adulti.
L’housing sociale temporaneo delle Case Saltatempo
Non credo che pensassero, quando sono partiti, che la vita li avrebbe portati qui, a Brodolini 24, protagonisti di un progetto avanzato di accoglienza dove meno te l’aspetti, nella periferia di Cinisello Balsamo, sul ciglio di Milano nord, a lato di uno stradone industriale più a misura di camion che di uomo. Brodolini 24 è un piccolo residence con 46 posti letto che somiglia a un motel americano, ma molto curato, con un giardino a corte e un enorme glicine all’ingresso che fra pochi giorni comincerà a fiorire. Melchiade Dijedzole, originario del Camerun, ci abita con la sua famiglia. Racconta divertito che sua madre l’anno scorso è venuta a trovarlo, e già che c’era ha dato una mano a sistemare il giardino. Il residence è una delle Case Saltatempo, i progetti di housing sociale temporaneo dell’associazione La Cordata, che da dieci anni sperimenta modi di abitare integrati. Ci convivono, in residenze transitorie a prezzi accessibili, lavoratori temporanei, studenti, genitori monoparentali, abitanti del territorio che stanno attraversando fragilità come separazioni e sfratti, oppure che sono in attesa dell’assegnazione di una casa sociale. La vita delle Case Saltatempo, arricchita da molte attività interne, è pensata proprio per mescolare le esperienze. Il Comune di Cinisello ha affidato a loro alcuni dei minori stranieri non accompagnati che sono sotto la sua tutela legale, e che vanno accompagnati all’autonomia economica prima che perdano, a diciott’anni, le protezioni che l’Italia riserva ai minori. L’appartamento in cui abitano i ragazzi si affaccia su un enorme orto aperto alla cittadinanza, utilizzato da sette o otto GAS, i gruppi locali di acquisto solidale. Un uomo vanga con vigore, affondando la pala nel terreno. La grande serra è colma di insalate, e fuori, i primi asparagi spuntano minuscoli dal terreno.
La logica emergenziale e la discontinuità dei flussi
Di minori e famiglie, Laura Bruson si occupa da molti anni per il servizio di politiche sociali del Comune di Cinisello Balsamo, e lo si capisce dalla passione con cui affianca l’assessora alle politiche sociali Gianfranca Duca nello sforzo di inventare soluzioni di accoglienza per i minori non accompagnati, di concerto con l’assessora ai servizi sociali della vicina Sesto San Giovanni, Roberta Perego. “Il problema principale”, dice Bruson, “è che l’accoglienza per loro non è sistematica, ma sempre vissuta con soluzioni ministeriali di emergenza. Per adesso i minori stranieri non accompagnati restano equiparati ai minori italiani, senza una legislazione specifica che tenga conto che il loro vissuto e le loro necessità sono completamente diversi. Noi cerchiamo di dar loro non solo vitto e alloggio, ma anche di provvedere a un progetto educativo ad hoc per ognuno”.
Un’altra difficoltà sta nel fatto che il flusso di minori stranieri non accompagnati è discontinuo: “non si riesce a prevederlo o a calcolarlo, a volte per un certo periodo non arriva nessuno, poi di colpo arrivano a ondate, spesso non soltanto tutti dagli stessi paesi, ma a volte addirittura dagli stessi villaggi, e magari tutti a Milano, o tutti a Cinisello, o tutti a Sesto”. Oggi i minori stranieri non accompagnati presenti a Cinisello sono dieci, tutti fra i sedici e i diciotto anni: “di piccoli piccoli è un po’ che non ne arrivano. Spesso sono senza documenti, alcuni vogliono raggiungere degli amici e si ostinano a non voler lasciare il progetto iniziale; altri invece si sentono sperduti e si lasciano guidare. Lottiamo anche contro le loro aspettative, e quindi contro le loro delusioni, perché tanti arrivano ancora col sogno di diventare calciatori, e per di più vogliono diventarlo il più in fretta possibile perché devono mandare soldi a casa per mantenere la famiglia”. Non soltanto sono adolescenti come tutti gli altri, ma arrivano in una condizione psicofisica pesantemente influenzata dal viaggio, dalle cose che hanno visto, dalla maturazione improvvisa che hanno subito: “spesso non parlano”, dice Bruson, “non raccontano, non solo perché non si aprono, ma perché dicono e non dicono, o cambiano versione a seconda di quello che nella loro testa, o nei consigli contrastanti che hanno ricevuto, credono li avvantaggi o li ostacoli. A volte mentono anche sulla maggiore età o meno, e questo è un problema. Alcuni sono scappati dai centri del sud, altri non riusciremo mai a sapere con esattezza come sono arrivati. E, inutile negarlo, abbiamo anche casi difficili, ragazzi che non vogliono far parte dei progetti, o che per vari motivi non ci possono stare, che si ribellano a qualunque controllo. In questi casi devi solo sperare che a un certo punto si aggiustino, che non si perdano.”
Chi sono i minori soli che arrivano in Italia?
Secondo il Viminale, nel 2016 sono arrivati in Italia, soltanto via mare, 25.846 minori stranieri non accompagnati, il doppio rispetto al 2014 e 2015. Soltanto il 40% fa richiesta d’asilo in Italia. Alcuni minori non accompagnati, dopo che ne viene registrato l’arrivo, scompaiono nelle pieghe del sistema di accoglienza o nelle mani delle reti criminali. Nel 2015, ne sono scomparsi soltanto in Italia 6.135, più della metà di quelli scomparsi in tutta Europa. Al 31 dicembre 2016, i minorenni stranieri che risultavano irreperibili nelle strutture di accoglienza censite dal ministero erano 6561. Come ha raccontato un’inchiesta dell’Observer paragonando i dati dell’Italia con quelli dei paesi dove i minori stranieri non scompaiono, molti in realtà fuggono per sottrarsi a un sistema che li delude, li ostacola o limita la loro libertà di movimento.
Una delle principali differenze fra loro e i minori italiani è che il fatto che arrivino da soli non significa necessariamente che siano davvero soli, che siano stati abbandonati o che non abbiano una famiglia. Sono sempre tutti maschi – “non abbiamo mai avuto una bambina”, dice Bruson, e la soverchiante maggioranza arriva a Cinisello dall’Egitto, un paese considerato così “sicuro” (nonostante una terribile povertà e un regime dittatoriale) che gli adulti non hanno diritto a chiedere asilo in Italia. “Su questi minori, la famiglia ha fatto un investimento, e la loro missione è arrivare qui per lavorare. Alcuni non hanno nemmeno molti fratelli, vengono da famiglie dignitose, non da condizioni di estrema povertà, e di recente alcuni sono venuti addirittura per studiare – un dato che ci allarma”.
Il lungo e complicato percorso verso l’autonomia
La missione del Comune di accompagnarli verso l’autonomia entro la maggiore età è una lotta contro il tempo. “Per questo è così importante capire quali sono le loro inclinazioni, e sostenerle per avviarli in un percorso; c’è il ragazzo analfabeta e quello che viene da un percorso di studio regolare nel suo paese, c’è quello con problemi psicologici e quello equilibrato. Cerchiamo di fare in modo che il loro progetto migratorio diventi realistico. A volte riusciamo a contattare le famiglie, per capire meglio la loro situazione; a volte i consolati ci sono stati di qualche aiuto sulle questioni anagrafiche, ma è difficile. A volte contattare la famiglia ci aiuta a unire gli sforzi, per esempio, per mantenerli saldi in un progetto di tirocinio o di apprendistato”. Un’altra idea è quella di accostarsi alle comunità di provenienza che sono già rappresentate in città, in modo da distribuire il sostegno secondo un concetto di villaggio. E poi, a Cinisello molte buone pratiche arrivano dall’esperienza trasversale del Tavolo sulla Povertà, che riunisce le associazioni per lavorare sui bisogni legati alla crisi. Adesso, Gianfranca Duca e Laura Bruson aspettano con trepidazione l’arrivo – annunciato – di linee guida del governo che saranno figlie della nuova legge sui minori non accompagnati. Sperano che lo stato terrà conto delle esperienze dei Comuni sul territorio con l’associazionismo e il terzo settore, cioè “che succeda per i minori la stessa cosa che è successa con l’accoglienza degli adulti e richiedenti asilo, che ha creato protocolli basati sull’esperienza”.
Silvia Bartellini, presidente de La Cordata, e Paola Pagano, coordinatrice di Brodolini 24, spiegano come la residenza integri esperienze educative e di accoglienza, e la condivisione di spazi e servizi, in una sorta di villaggio sostenibile, solidale ma anche aperto verso l’esterno. “Se fosse per noi”, dice Bartellini, “tutte le persone in difficoltà andrebbero accolte così. Magari esistesse un Residence Brodolini in ogni quartiere.” Naturalmente è un’esperienza faticosa, e come molti progetti dall’effetto durevole, richiede a tutti di mettersi in discussione. “I conflitti esistono, non si negano, i problemi vanno rielaborati insieme alle persone”. Con altre residenze e appartamenti nelle zone di Porta Romana e viale Padova a Milano, l’esperienza delle Case Saltatempo – compresa quella nell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati – ha ormai dieci anni. La Cordata aveva in comunità dieci adolescenti difficili, italiani, alcuni che venivano anche dal sistema penale, quando nel 2007 si sono presentati i primi casi di minori stranieri, durante la storica ondata di arrivi dall’Albania. “Abbiamo finito per chiudere il centro”, ricordano. “Un ragazzo albanese, Zef, ci disse chiaramente, io cosa c’entro qui? Io una mamma e un papà ce li ho, sono qui per lavorare”.
La comunità provvede a tutti i bisogni previsti dalla legge – assistenza sociale, assistenza materiale, assistenza con la burocrazia e i permessi di soggiorno; dà loro alcune regole di base, e pian piano li rende autonomi nell’andare alla ASL o all’ufficio postale, dà un supporto specialistico a chi viene da una situazione di trauma, e offre loro anche una varietà di esperienze di integrazione quotidiana, con i vicini di casa, gli scout, l’oratorio, le escursioni in montagna col CAI, la boxe. “Una delle cose che valorizziamo subito è l’esperienza del viaggio che hanno fatto”, dice Anna Ghezzi, coordinatrice dell’equipe educativa, “che è una parte fondamentale del loro percorso. E poi li aiutiamo a costruire un book di esperienze e referenze”. Con la maggiore età, i ragazzi perdono, insieme alle tutele, anche il permesso di soggiorno, e nel limbo che segue, per via di tempi burocratici lunghi, a volte perdono l’impiego che avevano trovato. “Solo in casi di particolari fragilità”, dice Ghezzi, “si può chiedere un’estensione dello stato di minorità fino al ventunesimo anno, ma è raro che venga concesso. A meno che non abbiano tre anni di presenza continuativa sul territorio, di cui due di percorso di integrazione – e quasi nessuno di questi ragazzi ce l’ha – dovranno fare continui permessi di soggiorno per motivi di lavoro; noi gli insegniamo a compilare il kit, cioè il bustone che va compilato con tutti i loro dettagli anagrafici e va spedito in questura. Con quello si ottiene un numero che serve a monitorare sul sito della questura il progresso della propria pratica e del proprio status”.
Per l’assessora Duca, soprattutto nel clima politico di oggi, non basta che gli enti locali ci mettano solo parole e buone intenzioni: “il Comune investe in questa esperienza 30 mila euro l’anno, più il tempo del personale dedicato. Altrimenti non avrebbe senso”, dice.”Noi facciamo un investimento, in modo serio, e siamo convinti che ne valga la pena. Se non ci mettessimo tutto il nostro peso, non avrebbe senso. L’ente locale deve rischiare, e quando fa da incubatore e collettore di progetti, mettersi in gioco per primo. Ci sono modelli molto riusciti di fare rete per l’accoglienza, ma vanno assolutamente sostenuti coi fatti”.
Dopo aver cominciato la loro vita indipendente, molti ragazzi restano legati alla comunità di accoglienza per diversi anni. “Alcuni di loro vanno ad abitare insieme”, dice Anna Ghezzi, “alcuni litigano e non si parlano più, altri restano amici. Anche qui al residence si crea ogni volta una chimica diversa, basta che cambi uno solo dei ragazzi e cambia tutto l’equilibrio”. Per adesso, al Residence Brodolini tutti sono concentrati sul futuro di Ali, Nouha, Afifi, Moustapha e Youssef, che hanno famiglie affettuose che li sostengono da lontano e a cui sono molto legati. Ali vorrebbe fare il pizzaiolo, “ed è un’attività che si può avviare”, dice Anna Ghezzi. “Ha contatti con dei connazionali, ma almeno all’inizio, proprio per favorire una maggiore integrazione, vorremmo aiutarlo a fare esperienza in una rete italiana. Nouha e Moustapha studiano italiano con grande cura, li trovi in camera da soli chini sul libro senza che nessuno gliel’abbia chiesto, e sono fra i più attivi nel partecipare al nostro laboratorio linguistico”. Youssef, che sente il padre e la sorella ogni giorno, vorrebbe continuare a studiare, anche se sempre con l’urgenza di rendersi autonomo entro i diciotto anni. “È talmente intelligente che se vuole, potrà tranquillamente fare la terza media e poi andare al liceo. La cosa più probabile per lui è un percorso scuola-lavoro, anche se è faticoso fare il panettiere di notte e studiare di giorno. Proprio ieri abbiamo saputo che ha passato l’iscrizione al corso di panificazione e che la settimana prossima avrà il colloquio”. Moustapha, invece, vuole fare proprio il panettiere, come faceva in Senegal, e Anna dice che quando parla del suo lavoro “gli brillano gli occhi. Per fortuna qui è una prospettiva molto concreta, a differenza del sogno di Afifi, che non ha più il papà e vorrebbe fare il meccanico, ma non avrà i tre anni che ci vogliono per la scuola apposita”. Infatti, l’esperienza che ha fatto in Egitto non basta. “È difficile farglielo capire, ma una cosa che abbiamo visto con questi giovani è che hanno capacità di adattamento – per cui magari per arrivare all’autonomia entro i diciott’anni si adattano a fare qualcosa che solo in parte è legato a quello che avevano in mente. E poi, non è raro che dopo si mettano a fare la scuola serale mentre lavorano, mettano via un po’ di soldi e addirittura riescano ad aprire una piccola attività in proprio. Hanno risorse pazzesche, straordinarie”.
Foto di copertina: uno dei giovani ospiti della Casa Saltatempo Brodolini 24 a Cinisiello Balsamo.
Tutte le foto nell’articolo sono di Marina Petrillo.