Al dirigente piace definirci una “scuola di frontiera”. Io non amo le etichette, credo che non sia possibile racchiudere qualcuno o qualcosa in una definizione. Eppure lui non ha torto. Perché nei CPIA (Centro Provinciale Istruzione Adulti), l’utenza è molto variegata. Ci sono quindicenni, sedicenni o persino diciottenni alle prese con il diploma di terza media. Come ci sono adulti di diverse nazionalità che, ad un certo punto della loro vita e per varie circostanze, decidono di rimettersi in gioco sui libri. Un melting pot dinamico e in costante mutamento.
E così ogni giorno, prima di entrare in una delle mie classi del corso serale, io sorridevo. Ero fortunata, ero consapevole di esserlo. Trovavo il mondo lì dentro, ad aspettarmi. Tre continenti insieme, persone dai 16 ai 50 anni, tutti seduti nella stessa aula. Tutti a parlare, a scherzare in un italiano un po’ maccheronico. Ed io, che per oltre dieci anni ho inseguito il sogno di raccontare il mondo, viaggiando da un capo all’altro dell’emisfero beh… non potevo che compiacermi dinanzi al grande privilegio che mi era stato concesso.
E’ da più di un mese, ormai, che la nostra scuola è chiusa, come lo sono quelle di tutta la regione Lombardia. E’ da più di un mese che noi portiamo avanti quella che, gli addetti ai lavori, hanno rinominato DAD, ovvero Didattica a Distanza. Il nostro istituto ha messo in campo tante risorse: usiamo GoogleMeet per videochiamarci, usiamo ClassRoom ricreando classi virtuali, è stato potenziato anche il registro elettronico che, ad oggi, permette di fare videolezioni e tenere videoconferenze. Tutto bello, peccato che ci si sia dimenticati della base: i nostri ragazzi sono sprovvisti di Internet. Tanti di loro vivono in condizioni precarie, alcuni in strutture di accoglienza. Son ben pochi quelli ad avere un computer. L’unico device in loro possesso è lo smartphone, ma i giga a disposizione si contano sulle dita di una mano. E la compagnia telefonica utilizzata dalla maggior parte degli stranieri beh, si è ben guardata dall’offrire servizi gratuiti , aderendo all’iniziativa “Solidarietà Digitale”.
Noi insegnanti continuiamo ad interrogarci, facciamo riunioni su riunioni, cercando di capire come fare per raggiungere tutta l’utenza. Ma a nulla servono i discorsi sulla responsabilizzazione degli studenti, sul far capire loro l’importanza di continuare a studiare. No, non è questo il punto. Perché se si ha solo un giga a disposizione per un mese (questo è il piano tariffario attuale dei miei studenti) beh… di certo si privilegia utilizzarlo per assicurarsi che i propri familiari, in Africa, stiano bene. E chi può dar loro torto? Chi utilizzerebbe quel solo giga in maniera diversa?
Ed allora ci si organizza come si può. Si preparano video lezioni che gli alunni possono scaricare, così da lavorare da remoto. Ci si mantiene aggiornati con WhatsApp. I messaggi vocali, in particolare, sono i più gettonati.
La scuola, per molti studenti, faceva parte della lista “i luoghi del cuore”. Perché il gruppo, la classe, dava un senso di appartenenza. Ed oggi, con i cancelli chiusi, molti non si sentono più parte di niente.
Ce la mettiamo tutta, noi insegnanti, per stare vicino ai nostri studenti. Conosciamo il loro vissuto, riusciamo a percepire le loro paure. Che sono quelli che oggi accomunano tutta la nazione, è vero, ma sono accentuate in chi vede, sgretolarsi, quelle poche certezze che era riuscito a costruirsi. La preoccupazione è tanta. “E’ dal 1 Marzo non vado più a lavoro, che ne sarà di me?”, chiede Hamzan. Un contratto tutela, ma chi ne è sprovvisto ha ben poco da recriminare. E si interroga su come potrà continuare a pagare le bollette. E poi c’è chi un lavoro non l’ha mai avuto, ma non ha mai smesso di cercarlo. “Fino al 3 Aprile non posso più uscire per portare i curriculum nei ristoranti”, racconta Youssof. Dovrebbe essere felice, Youssof oggi, perché dopo due anni è riuscito ad ottenere la protezione sussidiaria. Ma anche il documento, il tanto agognato documento, ha perso tutto d’un tratto il suo valore.
C’è paura per il futuro, per un sistema economico di una nazione intera oggi al collasso, e che avrà bisogno di rialzarsi. Per farlo sarà obbligato a lasciare qualcuno indietro. E loro sanno di essere i primi della lista.
C’è paura per il presente, quando si esce di casa per andare a fare la spesa. Paura di trovarsi alle prese con la burocrazia, con il timore che non sarà troppo paziente con loro. Ogni due giorni cambia il modello di autocertificazione da portare sempre in tasca. Ogni due giorni spiego loro come compilarlo. Nessuno ha la stampante. Bisogna scriverlo a mano.
E di certo non si tratta di un esercizio di scrittura utile, a livello didattico.
Così la settimana scorsa ho assegnato il compito di scrivere delle lettere ai propri familiari. Rabiaa viene dal Marocco, e vive a Lecco da un anno e mezzo, con le sue figlie. Ha indirizzato la lettera a sua madre.
“Siamo fortunate a stare in Italia – scrive – negli ospedali curano tutti, Inshallah torneremo presto a sorridere”.
Josephine, invece, si è rivolta a sua sorella, in Costa d’Avorio: “Stavo facendo il tirocinio ed è stato sospeso. Prima, quando salivo sul treno per andare a lavoro c’era sempre tanta gente, facevo fatica a trovare posto. Nelle ultime settimane, invece, le carrozze erano vuote”. Josephine lo ricorda il clima che si respira oggi, “mi sembra di essere tornata al periodo della guerra in Costa d’Avorio – scrive – quando dalle 6 del mattino alle 4 di sera nessuno poteva uscire, ci obbligavano a stare a casa”.
Anche Lamin ricorda i tempi del coprifuoco. “In Libia uscivo solo per andare a fare la spesa. Quando smettevano di sparare, quando i rimbombi non si sentivano per almeno mezzora, a quel punto uscivo di casa. Correvo al negozio di generi alimentari. Le saracinesche erano sempre mezze chiuse. Mi abbassavo ed entravo. Compravo sacchi di riso e di farina, e tornavo a casa. Ma le bombe le sentivi, questo virus no. Non fa rumore, è ovunque, ma tu non puoi vederlo”.
Omar non ce la fa a scrivere. Prende il telefono e mi chiama. “Il papà di un mio amico è morto – racconta- , l’ho sentito stamattina e mi ha detto che ora anche sua mamma è malata. Io non so cosa fare, sto dentro casa, penso solo a quello, non riesco a concentrarmi su altro”.
La scuola, per molti studenti, rappresentava l’unico momento di aggregazione; un posto sicuro, che oggi viene meno. A chi crede, resta la fede: sugli status WhatsApp degli studenti, in ogni frase che loro scrivono, torna imponente l’invocazione a Dio, di qualsiasi religione esso sia. I ragazzi musulmani, la scorsa settimana, seguendo l’esempio della comunità islamica italiana, hanno osservato un giorno di digiuno.
“Anche in Gambia è arrivato il coronavirus”, racconta Lamin. Il paziente zero sarebbe un pakistano che, vista la chiusura dell’aeroporto di Banjul, ha ben pensato di raggiungere il Gambia via terra, attraversando il Senegal. Si è sentito male due volte, la prima volta è stato portato ad una clinica, ma non gli è stato riscontrato nulla. Poi si è sentito male di nuovo, e la diagnosi è stata chiara: COVID-19. A nulla sono valse le cure, il paziente è morto. Nei giorni precedenti si era mosso parecchio, era andato anche nella moschea più grande della città di Serekunda. “Stanno ricostruendo i suoi spostamenti, stanno verificando chi è entrato in contatto con lui”, continua Lamin. Intanto, in Gambia, le scuole sono chiuse ma, a breve, le lezioni riprenderanno, seppur con una veste insolita: “Si trasmetteranno in tv e sulle stazioni radio – spiega Lamin – ad ogni ora ci sarà una lezione dedicata ai diversi gradi di scuola. Non abbiamo grandi mezzi in Gambia, ma non ci vogliamo arrendere”, dice. La voce però si spezza, davanti alla realtà.
E così facendo apre il vaso di Pandora, dando adito a quella che è la paura più grande di tutti: una pandemia del genere, la maggior parte dei paesi africani, con il loro sistema sanitario, non sarebbe in grado di curarla. Si rischia una mattanza umana, peggio di quello che dittatura, imperialismo e impoverimento hanno scatenato, negli ultimi decenni. Lo sanno i miei studenti, ne sono consapevoli. E’ per questo che, nelle ultime settimane, mettono in guardia i familiari e gli amici nei loro paesi di origine. “Non è un gioco, rimanete a casa, lavatevi le mani, starnutite nella piega del gomito”, ripetono con forza fregandosene dei giga a disposizione. Ma è difficile cambiare la mentalità di un popolo. Difficile predicare la distanza sociale, quando si vive in ambienti piccoli e promiscui. Difficile invocare i comportamenti corretti da seguire, quando le condizioni igieniche sono carenti. Ed ecco che le loro grida risuonano, rimbombano, infrangendosi nell’eco che le restituisce al mittente. Eccoli i miei studenti, profeti inascoltati, Cassandre del ventunesimo secolo, testimoni inermi di una pandemia che rischia di travolgere il loro continente.