Sono passati due anni dal lancio dell’Eu Emergency Trust Fund (Eutf) for Africa – questo il nome ufficiale del Fondo fiduciario per l’Africa. Era stato presentato dall’Unione europea al vertice sulle migrazioni della Valletta nel novembre 2015, alla presenza dei capi di stato e di governo dei paesi dell’Unione europea e dei principali paesi africani coinvolti nei flussi migratori. Nato con l’obiettivo di contrastare “le cause profonde dell’immigrazione irregolare e dello sfollamento di persone in Africa promuovendo opportunità economiche e rafforzando la sicurezza”, il Fondo fiduciario è diventato in questi 24 mesi uno strumento chiave della politica europea in Africa. I 24 paesi africani beneficiari, cioè tre in più rispetto a quando il fondo venne lanciato, sono 13 nella regione del Sahel e Lago Ciad (Burkina Faso, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria e Senegal), nove in Corno d’Africa (Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Tanzania e Uganda), e cinque in Nordafrica (Algeria, Egitto, Libia, Marocco e Tunisia).
“La Commissione europea e l’European External Action Service hanno voluto creare uno strumento che potesse essere flessibile e permettesse di rispondere in maniera più rapida ed efficace alle esigenze del momento. Perché non dobbiamo dimenticare che il processo decisionale dietro ai programmi del Fondo europeo per lo sviluppo era spesso lento e non sempre efficace”, ci dice Volker Hauck, che è alla guida del programma Security and resilience dell’Ecdpm, un centro di ricerca con sedi a Maastricht e Bruxelles.
Adottato nell’Agenda europea per le migrazioni, il Trust Fund è oggi il braccio operativo con cui l’Unione europea sta cercando di promuovere il nuovo sistema di accordi – i cosiddetti “compact” – introdotti dalla Commissione guidata da Jean Claude Juncker con il New migration partnership framework del giugno 2016. Lanciati da principio con un primo gruppo di sette paesi considerati prioritari in Medio Oriente (Giordania e Libano) e Africa (Nigeria, Senegal, Niger, Mali ed Etiopia), l’Unione sta cercando di estenderli ad altre nazioni ritenute strategiche lungo la rotta del Mediterraneo centrale (Libia in primis) e verso Oriente (Pakistan, Bangladesh e Afghanistan).
L’obiettivo è ottenere maggior collaborazione da parte dei governi locali nel controllo dei flussi migratori attraverso il finanziamento di programmi di sviluppo (sia nei paesi di origine che di transito) e mediante il rafforzamento delle forze di polizia lungo tutti gli stati toccati dalle rotte che portano in Europa. E, a guardare i dati, per il momento la strategia europea si sta dimostrando efficace: nel 2017 il numero di ingressi irregolari in Europa è diminuito del 67 per cento.
Il vertice di Abidjan
Risultati non privi di conseguenze, però, come hanno dimostrato le recenti immagini della vendita di schiavi in Libia diffuse dalla Cnn e la denuncia degli osservatori delle Nazioni Unite che hanno criticato apertamente l’accordo italiano con Tripoli. E proprio la Libia è stata al centro dell’attenzione del 5° Summit dei capi di stato e di governo di Europa ed Africa che si è tenuto ad Abidjan il 29 e 30 novembre.
Alla vigilia, sia il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, che Federica Mogherini, Alto rappresentante europeo per la Politica Estera e di Sicurezza, avevano auspicato che il summit segnasse un “nuovo inizio” nelle relazioni tra i due continenti, mentre sul fronte africano erano arrivati inviti a concentrarsi sul tema del lavoro e dell’occupazione in un continente dove il 60 per cento della popolazione ha meno di 25 anni. Ma il dibattito, com’era prevedibile, è stato ancora una volta monopolizzato dall’agenda migratoria, e in particolare dalla volontà europea di contenere i flussi, costi quel che costi.
A margine di una delle sessioni ufficiali, il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, e Federica Mogherini insieme al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e al presidente della Commissione dell’Unione africana Moussa Faki Mahamat, hanno annunciato la costituzione di una task force Eu-Au-Un con lo scopo di attuare, in accordo con le autorità locali, programmi di protezione dei migranti e favorire i ritorni volontari nei paesi di origine. Un’azione che ha già ricevuto l’appoggio del presidente nigeriano Buhari, pronto a velocizzare le procedure per il rientro in patria dei connazionali bloccati in Libia. La task force – si legge nella dichiarazione – permetterà di espandere e accelerare i ritorni volontari dalla Libia, che da gennaio 2017 sono stati già 13 mila.
Ma da dove viene il denaro per finanziare questa iniziativa? In parte dai 90 milioni di euro che l’Unione europea ha destinato al paese proprio attraverso il Fondo fiduciario. Ed è probabile, anche se non ci sono indicazioni ufficiali a riguardo, che anche la nuova task force attinga alla finestra Nordafrica del Trust Fund, rendendo necessario il reperimento di nuove risorse.
Quali fondi per il Fondo?
Al 27 novembre la disponibilità del fondo ammontava a 3.189 miliardi di euro. Di questi, 1.931,5 sono già stati allocati nei 26 paesi beneficiari, all’interno di 117 programmi. È sufficiente uno sguardo al portale informativo dell’Eutf per rendersi conto di quanto sono eterogenei i progetti approvati all’interno dei quattro settori di intervento previsti: programmi economici, resilienza, gestione delle migrazioni, governance e sicurezza. Campi molto ampi che permettono di finanziare, all’interno della stessa cornice legale, iniziative a favore dei giovani pescatori delle zone costiere della Mauritania così come il sostegno alla polizia locale nigerina, progetti educativi in Sud Sudan ma anche i ritorni volontari verso i paesi di origine.
Le finestre attraverso cui vengono gestite le risorse sono tre: la parte più consistente è stata destinata alla regione del Sahel e del Lago Ciad (988,9 milioni di euro). Segue il Corno d’Africa (665 milioni) e il Nord Africa (255,4 milioni). A questi si aggiungono 21,6 milioni destinati a progetti trasversali. Complessivamente, in questi due anni sono stati siglati 190 contratti (84 nel Sahel/Lago Ciad, 68 nel Corno d’Africa, 15 in Nord Africa e 23 trasversali) per un totale di 1,3 miliardi già impiegati e un totale di 488,3 milioni pagati.
Numeri importanti, ma che non bastano per stare al passo con gli impegni presenti e futuri. A lanciare l’allarme era stato alcuni mesi fa lo stesso presidente Juncker. “Gli stati membri non stanno facendo abbastanza rispetto alle loro promesse di contributi”, aveva dichiarato a margine di una riunione a Bruxelles. A rischio non c’è solo la credibilità politica delle Istituzioni europee, di fronte alla controparte africane alla propria opinione pubblica, ma anche l’efficacia stessa dei programmi già approvati. Nel novembre 2015 a La Valletta i vertici della Ue avevano chiesto agli stati membri di raddoppiare le risorse messe a disposizione dalla Commissione (1,8 miliardi) portando la cifra totale a 3,6 miliardi. Ma ad oggi il contributo totale di tutti gli stati membri dell’Ue (a cui si aggiungono anche Norvegia e Svizzera) è fermo a 260 milioni di euro, di cui solo 199 già nelle disponibilità del Trust Fund.
L’Italia, con 102 milioni di euro, è il primo contribuente a livello europeo, seguita da Germania (54 milioni) e Olanda (26 milioni). Slovenia, Bulgaria, Lettonia e Lituania hanno versato solo 50 mila euro, mentre la maggior parte dei governi, come quello francese, ha scelto di versare 3 milioni di euro, la cifra minima per poter sedere nel Trust Fund Board che definisce le linee generali per l’assegnazione dei contributi. Proprio l’impossibilità di contare su risorse autonome rischia di compromettere il senso stesso di questo strumento che era nato per essere “complementare alla cooperazione allo sviluppo della Ue, già attiva nella regione”, ma che rischia di sostituirsi ad essa: il 95 per cento delle risorse del fondo fiduciario provengono infatti dal Fondo Europeo per lo Sviluppo (80 per cento) e da altre voci del bilancio comunitario, tra cui la Cooperazione allo sviluppo (Devco), le politiche di vicinato (DG NEAR), e gli affari interni (DG Home). L’utilizzo di questi fondi per finanziare programmi legati al controllo delle frontiere e alla gestione delle migrazioni ha destato pesanti critiche, perché vengono considerati parte di un processo, in corso ormai da alcuni anni, di “esternazionalizzazione” delle frontiere dell’Unione europea che vede nell’accordo Ue-Turchia un altro caposaldo. Sono stati molti i rapporti e le denunce giornalistiche che hanno puntato il dito contro questo utilizzo improprio dei fondi europei, fra le prime l’inchiesta “Diverted Aid”, ma anche rapporti di Ong come Global Health Advocates e, più recentemente, Concord e Cini.
La posizione cruciale del Niger
Sul Niger, che è uno dei paesi più interessati dalla nuova strategia europea, il rapporto di Concord e Cini “evidenzia nuovamente una partnership squilibrata a causa delle condizionalità legate al controllo del fenomeno migratorio, alla lotta alla tratta e al traffico di esseri umani. Quasi la metà dei finanziamenti Eutf sono allocati alle autorità locali per ridurre il transito dei migranti. I progetti rimanenti realizzano attività di sviluppo e di protezione, ma tali progetti, a detta degli attori locali, hanno un impatto limitato”.
A queste critiche aveva indirettamente risposto il direttore della Cooperazione allo sviluppo (Devco) Stefano Manservisi in un’intervista alla rivista Nigrizia alla vigilia del Summit di Abidjan: “Il contesto in cui vengono usati i fondi è quello definito proprio al vertice maltese, con tre obiettivi principali: rafforzare le capacità degli stati in modo democratico, combattere le cause profonde della migrazione (a questo è destinato oltre il 60 per cento delle risorse) e aiutare i migranti che rientrano a casa loro a reintegrarsi”.
“Rafforzare la capacità di un poliziotto nigerino di sorvegliare la frontiera e, al tempo stesso, rispettare i diritti umani”, aveva aggiunto Manservisi, “è contemporaneamente un’operazione di capacity building, ma anche di più democrazia. Nonostante il grande flusso di migranti, in Niger non ci sono stati fenomeni di rigetto xenofobo. Ma se non fossimo intervenuti e avessimo lasciato sole le forze di polizia locali, sarebbe diventata una questione di ordine pubblico”.
Il processo decisionale
Il rapporto Concord Cini punta anche il dito contro le procedure di selezione e monitoraggio “non trasparenti e i processi di valutazione privi di coerenza”. Il processo decisionale dietro al Trust Fund è infatti diverso da quello utilizzato per l’allocazione delle risorse tramite il Fondo europeo per lo sviluppo (Fes).
“Il livello di coinvolgimento dei paesi africani nelle decisioni che riguardano i singoli progetti”, spiega Volker Hauck dell’Ecdpm, è inferiore nel Trust fund rispetto a quanto avviene all’interno del board del Fes. Nel primo caso i rappresentanti dei paesi ACP [gruppo Africa, Caraibi e Pacifico] hanno diritto di voto e sono chiamati ad approvare le diverse decisioni, nel Trust fund invece i delegati dei governi africani e degli organismi continentali hanno solo potere consultivo. Questo, ovviamente, espone al rischio di decisioni che siano prese da una prospettiva europea”. All’interno della Commissione operativa che è chiamata ad approvare i singoli progetti – così come per il board – i delegati dei paesi beneficiari e i rappresentanti delle comunità economiche regionali siedono in qualità di semplici osservatori. “Sono due le questioni aperte per quanto riguarda il Trust fund”, conclude l’analista politico: “in primo luogo il finanziamento di regimi o leader discutibili per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. Penso ad esempio al Sudan del presidente Bashir. Il fatto che i soldi europei non vadano direttamente al governo per progetti relativi alla sicurezza non significa che questo non permetta allo stesso governo di liberare risorse proprio per quegli scopi, potendo contare sul sostegno europeo in altri settori”. L’altro punto è quello relativo alle attività finanziate dal Trust fund: guardando al report annuale [Annual EU TF Report] si evidenzia la vastità del portfolio dei progetti approvati, e questo rappresenta certamente un elemento di forza, ma rende anche necessario un controllo per valutare se si tratta sempre di operazioni in linea con quanto stabilito” dall’European Consensus on Development, ovvero gli impegni presi dell’Ue e dagli stati membri all’interno dell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile che guiderà la cooperazione allo sviluppo europea nei prossimi anni.
La sensazione è che, proclami a parte, gli stati europei vogliano continuare a perseguire i propri interessi di breve periodo, puntando sul contenimento dei flussi e sui rimpatri (o, ancor meglio, sui ritorni volontari) e che il Trust fund sia lo strumento più funzionale a questo scopo. Una posizione che contraddice quella volontà di istituire una relazione tra pari che era stata più volte espressa dai leader europei proprio alla vigilia del Summit di Abidjan e che doveva segnare l’inizio di un nuovo capitolo nelle relazioni euro-africane.
In copertina: la Cancelliera tedesca Angela Merkel parla con il Presidente della Costa d’Avorio Alassane Ouattara e con il presidente dell’Unione Africana Alpha Condé al vertice di Abidjan il 29 novembre 2017
(Foto: Dominick Reuter/AFP Services for the European Council)