Il 13 novembre scorso, con un ritardo di 24 ore su quanto inizialmente previsto, si è conclusa con un accordo sottoscritto dai 197 Paesi presenti la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Glasgow, comunemente nota come Cop26. Marta Foresti, direttrice per l’Europa a Odi, ha seguito da vicino i lavori della conferenza. Le abbiamo fatto alcune domande su migrazioni e cambiamenti climatici, ecco cosa ci ha risposto.
1. Quale giudizio dai alla Cop26 e in che modo si è affrontata la questione delle migrazioni legate ai cambiamenti climatici?
Non sono un’esperta e dunque osservo. Leggo vari giudizi che vanno da chi parla di successo totale a chi dice che è stato un totale fallimento, mi sembra abbastanza chiaro che la verità stia nel mezzo e ci sono delle cose che sono andate meglio di altre. Tra quelle che sono andate meno bene, sottolinerei la difficoltà a superare le dicotomie tra Paesi ricchi e Paesi poveri. C’è una spinta da parte di Paesi che hanno beneficiato dei combustibili fossili e hanno creato fiorenti economie su questo, che ora chiedano a Paesi che hanno delle economie meno sviluppate o che sono emergenti di prendersi responsabilità che definirei non realistiche.
Questa è una questione su cui c’è un problema collettivo e c’è una responsabilità collettiva che non è stata affrontata dal punto di vista della quantità di climate finance necessaria per poter supportare in maniera che sia equa e non solo ecologica quei paesi che sono più toccati da cambiamenti climatici.
Per quanto riguarda il tema delle migrazioni, c’è da dire che tra le mille cose di cui si è discusso alla Cop, le migrazioni non sono state un tema centrale, come d’altronde prevedibile. Però come spesso accade se n’è discusso con delle finalità per lo più politiche.
Abbiamo osservato quello che purtroppo osserviamo sulle politiche migratorie da molti anni, sicuramente dal 2015, cioè la scandalizzazione e la manipolazione dei fatti. Usare la minaccia dei flussi migratori per creare timore, per creare un senso di emergenza da parte dei Paesi. Anche se a volte le intenzioni e le finalità sono buone, di fatto si fa del danno, spesso irreparabile.
E soprattutto si ignora e sottovaluta quello che invece sappiamo sulla migrazione climatica e cosa sarebbe utile fare: primo che la migrazione legata ai cambiamenti climatici è una realtà attuale e non è solo uno scenario apocalittico a cui prepararci nel futuro. Dunque la priorità deve essere un’azione concreta oggi, non domani. La seconda cosa, raccontarla come una catastrofe, una crisi, una minaccia. Una crisi che poi diventa magari per alcuni crisi umanitaria su cui attivarsi per aiutare, ma dall’altro lato crea e alimenta il fuoco dell’allarmismo, del nazionalismo e della discriminazione.
Al margine della Conferenza di queste realtà si è parlato e spero che aiuti un po’ di chiarezza, nella preparazione di Cop27 al Cairo.
2. In che modo?
Innanzitutto si è ricordato che già adesso le persone si muovano o non possono farlo per via dei cambiamenti climatici. Già adesso ci sono molte persone che si spostano, a volte volontariamente a volte costrette, per via dei fenomeni climatici che ad esempio possono colpire stagionalmente e creare problemi all’agricoltura. Ai margini della Cop si è ricordata la realtà che la migrazione è un fenomeno che fa parte dello sviluppo umano e che quindi va di pari passo con il cambiamento climatico. Come spesso accade, le migrazioni sono per lo più fenomeni temporanei e locali per cui la maggior parte delle persone che si spostano a causa di cambiamenti climatici lo fanno all’interno dei territori nazionali e lo fanno magari lasciando le zone agricole e andando in città, magari a causa di cattivi raccolti. Da qui l’idea di curarsi molto di più su come supportare le migrazioni attuali che sono legate a dei fenomeni climatici. Infine si è cercato di considerare la migrazione e lo spostamento in combinazione con altri fenomeni come la povertà o comunque imperativi di tipo economico. Su questo si è fatta un po’ di chiarezza, ma come sempre arriviamo un po’ in ritardo.
Second: climatic shocks events may increase but also reduce (yes) migration and this can be good or bad for those affected. Like most other forms of migration, climate driven movements are local and short term.
The key is to focus on the most vulnerable, whether they move or not pic.twitter.com/v5a3NyO2vs
— Marta Foresti (@martaforesti) October 29, 2021
3. Potrebbero essere temi più centrali già nei prossimi incontri sul clima?
Sì! Per chi si occupa di migrazioni e clima è evidente che questa è la prima volta in cui c’è stato almeno un dibattito sulla questione.
Già dalla Cop27 che sarà in Egitto, questo sarà più evidente. Lì saranno più evidenti delle logiche, degli interessi legati alle economie dei Paesi più emergenti in cui la migrazione verso altre parti del mondo, ma anche le migrazioni interne sono un fattore fondamentale dell’economia e dell’adattamento al climate change. Questo è un punto di partenza fondamentale per poter agire, supportando i migranti, ma anche altrettanto importante, coloro che sono costretti a restare nei luoghi colpiti dal cambiamento climatico.
Si dovrà discutere anche di maladaptation, casi cioè in cui i programmi che vengono messi a punto con lo scopo di rispondere al cambiamento climatico hanno invece degli effetti contrari in termini migratori.
Spero che si arriverà alla Cop27 più consapevoli di queste tematiche e secondo me dovremmo anche un po’ organizzarci affinché anche noi possiamo essere più reattivi. Finora si è pensato molto all’adaptation e poco alla mitigation che secondo me è altrettanto interessante.
La low carbon transition dal punto di vista delle transizioni economiche-industriali richiede un ripensamento di forza lavoro e nuovi ruoli. Persone che dovranno spostarsi perché non ci sarà più bisogno di forza lavoro impegnata nelle miniere di carbone, e che dovranno trovare altre occupazioni. Oppure il fatto che in campo tecnologico le skills richieste per nuovi settori magari non esisteranno in loco, si pensi ad esempio a quanto è stata importante per lo sviluppo del settore tecnologico negli Stati Uniti il supporto di lavoratori dall’India. Dovrebbe esserci più quest’idea di pensare in maniera più proattiva alla migrazione come strategia per le generazioni per una transizione ecologica e il contributo futuro di lavoratori e quindi non ripetere l’errore che abbiamo fatto per così tanti anni, cioè ignorare la realtà migratoria come uno strumento, una strategia di sviluppo economico sostenibile.
Pensare cioè che spostarsi da un posto all’altro sia un fattore che può essere una variabile a sostegno della transizione ecologica e investire in questo.
4. Quando parliamo di migrazioni, infatti, c’è sempre questa tendenza ad appiattire il fenomeno e a volerlo raccontare come qualcosa di omogeneo. Con le migrazioni legate al clima stiamo commettendo lo stesso errore?
In parte sì. Innanzitutto si tende a raccontarla come una “crisi”, in questo caso ci si concentra come ho già in parte detto su chi sarà costretto a partire perché colpito dai fenomeni climatici e non su chi lo farà per altre ragioni legate magari anche alla transizione stessa.
Già l’idea di discuterne come “crisi”, con tutto il corollario legato all’ “invasione” che ne consegue, dovrebbe farci riflettere visto anche il ruolo che questa narrazione ha avuto su scelte come quelle della Brexit. Ci si sofferma poi sui numeri, sugli scenari futuri e sulla relazione causa effetto tra cambiamenti climatici-migrazione, ma questo secondo me non è il punto.
Third: with so much urgency about the #ClimateCrisis, on this we must take the long term view as much of what can happen is uncertain.
This is because it all depends on what we will DO: not to stop or prevent migration, but to make it safe so that it can help adapt and mitigate. pic.twitter.com/AzLBbFpPV3
— Marta Foresti (@martaforesti) October 29, 2021
5. Ci sono molte stime. Secondo te i numeri che circolano sono attendibili?
Sono stime che ovviamente dipendono da una serie di fattori che sono variabili. In realtà ci sono anche fenomeni che sono difficili da prevedere come ad esempio il Covid che ha ridotto drasticamente la possibilità di muoversi. La cosa più importante secondo me, l’abbiamo visto già nel Mediterraneo nel 2015, è che comunque questo gioco alla stima dei possibili flussi migratori alla fine sposta l’attenzione rispetto a quello che è l’attuale fenomeno migratorio. La cosa più problematica del dibattito sul clima è che tutto questo focalizzarsi sulle catastrofi future, su quello che succederà se non interveniamo nel clima, sta in parte togliendo attenzione a quello che sta già succedendo. Aridità, inondazioni hanno già un impatto molto diretto sulle persone, si dovrebbe quindi pensare a cosa si può fare per supportarle.
Non è una questione banale perché porre tutta questa attenzione sulle stime dei flussi del futuro porta inevitabilmente a quanto già visto in Europa a livello politico, cioè a chiedersi a come fare per fermare i migranti, a come impegnare le risorse per limitare o fermare i flussi migratori. Si dovrebbe invece investire nel creare delle opportunità che siano anche di mutuo beneficio, laddove le persone che hanno le capacità, le aspirazioni e le competenze per spostarsi da un posto all’altro possano essere di aiuto anche alle comunità che le accolgono. In particolare dopo l’emergenza legata al Covid, dovremmo essere tutti consapevoli, e grati, del ruolo che i migranti hanno nelle nostre società.