“Nessuno ha più voglia di parlare, ora siamo qui, salvi, vivi, e questo è ciò che conta.” Murad si affaccia dalla porta del corridoio e si avvicina all’ingresso, circondato da cinque bambini che continuano a correre in cortile per poi rientrare nell’edificio di Fundacja Dialog, l’associazione cattolica di volontariato che gestisce il centro di accoglienza di Bialystok per famiglie straniere con minori e persone in difficoltà. Ci sono decine di scatole di cartone accatastate lungo la parete, e i più piccoli sono ben presto richiamati dagli operatori per dare una mano a portarle all’interno: contengono beni di prima necessità, prodotti per l’igiene quotidiana, piccoli elettrodomestici, e tengono impegnati i bimbi per qualche minuto.
Ph. Ilaria Romano
Rimasto solo, Murad si ferma in veranda, accende una sigaretta e resta in silenzio per un po’, con il giubbotto pesante addosso e le ciabatte di plastica ai piedi. Il freddo sembra non sentirlo quasi più, o forse ne ha patito talmente tanto nei sette giorni trascorsi nel bosco, al confine con la Bielorussia appena oltrepassato, che oggi che i suoi figli sono al sicuro non ci fa caso.
Viene da Zakho, nel Kurdistan iracheno, ultima cittadina prima del valico di frontiera con la Turchia di Ibrahim Kalil. Insieme ai cinque bambini e alla moglie incinta ha raggiunto Istanbul in autobus, e da lì ha preso l’aereo per Minsk. Ha venduto gran parte di quello che aveva per pagare il biglietto a tutta la famiglia, ma gli avevano assicurato che da lì in poi arrivare in Europa sarebbe stato un percorso in discesa: una macchina li avrebbe portati al confine, che poi si sarebbe potuto attraversare come quello turco, alla volta della Germania.
L’illusione di avercela fatta si è scontrata contro un filo spinato, alla vista di decine di persone come loro con le stesse speranze infrante, spinte dall’esercito bielorusso a forzare i varchi, respinte e rimandate indietro da quello polacco. Bloccate in una terra di mezzo a fine autunno, quando la temperatura comincia già a guadagnare alcuni gradi sotto lo zero. Dopo aver scoperto che dietro a quella barriera non c’è la Germania.
Ph. Ilaria Romano
“Il mio viaggio finisce qui, voglio restare in Polonia dove sono stato salvato – dice Murad – ho trovato persone che mi hanno accolto e ora spero di costruirmi un futuro.”
Il più grande dei suoi cinque figli ha nove anni, il più piccolo due. Il sesto doveva nascere fra tre mesi ma la moglie si è sentita male nella foresta dopo essere caduta in un ruscello nel tentativo di attraversarlo. Quando i medici del gruppo Poland Emergency Medical team li hanno intercettati, la temperatura corporea della donna era scesa sotto i 30 gradi. A distanza di dodici giorni è ancora in grave pericolo di vita, mentre il bimbo che portava in grembo è stato seppellito nel cimitero della comunità tatara di Bohoniki, con una piccola cerimonia officiata dal locale Imam.
“My love – dice Murad quando parla in inglese della moglie mentre si stringe l’anulare che non ha più la fede, persa chissà dove – è ancora in ospedale, ma spero per il meglio. È andata così, poteva andare anche peggio e dobbiamo guardare avanti. Io però mi fermo, basta viaggi. Fra cinque giorni potrò uscire da qui perché i documenti saranno pronti, e magari andare a trovarla.”
Younes invece è appena diventato papà. La moglie è stata soccorsa in tempo per arrivare in sala parto, mentre lui è stato portato nel centro di prima accoglienza e non l’ha ancora rivista dopo la nascita del loro primo figlio. “Non ho più il telefono – spiega – deve essermi caduto nel bosco; così non posso nemmeno chiamarla o ricevere una foto del bambino. Ma so che stanno bene dagli operatori che chiedono di loro per mio conto.”
Anche lui accende una sigaretta in cortile, l’unico spazio all’aperto di cui dispone per una boccata d’aria, pure se qui non patisce il sovraffollamento perché ogni stanza è destinata ad un singolo nucleo familiare, e quindi al momento dorme da solo. Younes è uno degli eroi della guerra contro lo Stato Islamico in Iraq, un peshmerga curdo che nel 2016 ha combattuto per la riconquista della provincia di Ninawa e che da due anni non vede un dinaro di stipendio.
“Sono nato in un piccolo villaggio a metà strada fra Erbil e Mosul – dice – ho frequentato la scuola militare e sono orgoglioso di essere un soldato. Ma il nostro governo si è già dimenticato di noi.”
Younes è uno Zaravani, fa parte della forza d’elite dei soldati curdi, quella impiegata nelle operazioni speciali e nel controllo dei siti sensibili; eppure ha sentito di non avere altra scelta se non quella di andarsene, per avere un futuro.
“Io voglio ancora arrivare in Germania – spiega – anche se non so ancora quando né come.”
Anche Rebaz e Sarwin, marito e moglie di 31 e 26 anni, vogliono raggiungere Berlino, dove hanno una parte della famiglia che li aspetta. Con loro ci sono i due figli, di sei e due anni, il più grande affetto da autismo.
“Siamo partiti da Erbil per lui – spiega Rebaz indicendo il piccolo Ahmed – perché per la sua condizione non esistono nel nostro paese centri specializzati in grado di supportarci per farlo crescere nel modo più normale e inclusivo possibile. Se hai un bambino autistico lo tieni a casa, non ci sono aiuti, né soluzioni per integrarlo. E noi abbiamo deciso di non rassegnarci, anche se il costo è stato forse troppo alto, visto quello che abbiamo patito.”
Dopo sette giorni nei boschi, intercettati dalla polizia, Sarwin e i bambini sono stati indirizzati alle cure della Fondazione Dialog e portati nel centro di accoglienza, ma Rebaz ha trascorso un mese nel Centro di detenzione amministrativa per stranieri di Krosno Odrzańskie, uno dei sei presenti in Polonia, e uno dei tre, insieme a quelli di Bialystok e Lesznowola, dedicati agli uomini soli (quelli di Przemyśl, Biała Podlaska e Kętrzyn sono invece destinati alle donne sole e ai minori non accompagnati).
“La situazione era molto diversa da quella che viviamo qui – ricorda Rebaz mentre avvicina i polsi l’uno all’altro per spiegare che veniva ammanettato – lì sei come un detenuto a tutti gli effetti, ti trattano male, ora invece ci sentiamo accolti.”
Nel frattempo squilla il telefono di Sarwin, uno dei pochi che si è salvato, fra le persone presenti nel centro: è la nonna in videochiamata dal Kurdistan, sorride nel vederli in buona salute, chiede dei pronipoti. Sarwin gira lo schermo e inquadra Ahmad, che incurante del freddo e dei rimproveri del padre continua a saltare in cortile a piedi nudi e con una tuta blu elettrico in pile.
Tra i migranti della rotta bielorussa i curdi iracheni sono la maggioranza, assieme, in misura minore, ad altri iracheni del centro e del sud del paese, siriani, yemeniti e afghani. Nel centro di Fundacja Dialog non ce ne sono più di una cinquantina, al momento.
Ph. Ilaria Romano
Coloro che arrivano a formulare una richiesta di asilo fanno parte della sparuta minoranza che riesce ad attraversare il confine con la Bielorussia, a sfuggire ai pattugliamenti di polizia ed esercito polacchi, a trovare soccorso in tempo prima di morire assiderato e di stenti. Fra queste poche persone e la barriera dove si sta consumando una crisi umanitaria gravissima, c’è una fascia di territorio interdetta alle organizzazioni internazionali, ai media, ai volontari che tentano in maniera semiclandestina di portare comunque un aiuto, rischiando sanzioni in prima persona.
Le persone che arrivano nel centro di Fundacja Dialog sono le più fragili, con problemi evidenti di salute, aggravati anche dagli stenti del viaggio, o con minori a seguito. Poi ci sono tutti gli altri, nella maggior parte dei casi vittime di respingimenti sommari una o più volte, e in alcuni casi di violenze supplementari, come Lous, di Homs, in viaggio con il fratello e quasi morto nel bosco, che si è visto sottrarre e gettare via dai militari non solo la scheda sim dal cellulare, ma anche quel minuscolo carrellino di plastica che la contiene, in modo che il suo telefono diventasse inutilizzabile.
“Posso solo guardarci le vecchie foto – spiega – ma non c’è modo di inserire una nuova scheda, e per il momento nemmeno di comprarne un altro. Ho avvisato la mia famiglia che siamo vivi con una chiamata che ho fatto da qui, alcuni giorni dopo che ci hanno soccorso, appena sono stato in grado di parlare.
Le sue foto avvolto nella coperta isotermica, con gli occhi chiusi e il volto pallidissimo, hanno fatto il giro delle pagine web delle diverse organizzazioni di volontari che coordinano i soccorsi nei boschi al confine. “Ho pensato che saremmo morti entrambi – ricorda – abbiamo camminato non so quante decine di km avanti e indietro, e solo al terzo tentativo siamo riusciti a passare. Il problema di questo freddo è che non dovresti fermarti mai, ma a un certo punto hai bisogno di riposare, soprattutto se sono giorni che non mangi e non bevi. Ma quando ti fermi cominci a tremare, e pian piano non senti più il tuo corpo.”
Lous ha vissuto dieci anni di guerra civile in Siria. “Ora non si muore più sotto le bombe, almeno nella nostra zona – spiega – ma si muore di stenti perché non si trova nulla se non a prezzi esorbitanti. Per il combustibile ti devi affidare al contrabbando e lo paghi cento volte tanto, ma senza non solo non puoi prendere un’auto, ma non puoi nemmeno alimentare un generatore, il che vuol dire niente corrente elettrica né riscaldamento. Gli unici che hanno ancora un reddito sono i dipendenti statali, ma anche per loro si tratta di poche decine di dollari. Immaginate gli altri, quelli che avevano un’attività in proprio, o lavoravano per qualcuno che non ha più nulla. Non c’è futuro in Siria, e nemmeno un presente.”
Lous cammina piano, come se dovesse schivare dei pezzi di vetro. Il cappuccio della felpa gli incornicia il viso scavato e affaticato. Gli operatori del centro gli hanno detto che hanno diritto a un visto umanitario di sei mesi. “Non penso di restare così a lungo – confessa mentre guarda oltre il cortile – dovrò trovare qualcuno che ci porti in Germania. Che questo avvenga legalmente possiamo scordarcelo, con un passaporto siriano siamo condannati, non c’è spazio per noi per le pratiche legali. Ora però voglio recuperare le forze, ho perso più di dieci kg nei giorni scorsi, e nemmeno in guerra ho passato quello che mi sono trovato a vivere qui. Il freddo e la cattiveria umana, entrambi estremi: in mezzo, le nostre vite che non valgono nulla.”
In copertina: foto di Ilaria Romano, come tutte quelle presenti nell’articolo.