Cronache di contemporanea banalità del male: come anche in Portogallo si muore di detenzione
18 giugno 2021 -È il 10 Marzo 2020 e siamo a Lisbona. Il Covid-19 sta iniziando a dilagare in Europa, partendo dall’Italia per poi estendersi a tutti gli altri paesi. Mentre il tema della pandemia monopolizza la comunicazione pubblica, il panico si diffonde nella popolazione e i vari governi, tra cui quello portoghese, iniziano a discutere ed emanare misure drastiche di confinamento sociale, nell’aeroporto Humberto Delgado di Lisbona il centro di detenzione amministrativa per persone straniere – eufemisticamente denominato EECIT (Espaço Equiparado a Centro de Instalação Temporária) – continua indisturbato a funzionare.
Quella stessa mattina, verso le 11, atterra a Lisbona, nello stesso aeroporto, anche Ihor Homenyuk, un cittadino ucraino il cui nome segnerà, purtroppo e per sempre, la storia del Portogallo. Sospettato di “irregolarità documentale” – ovvero che il visto di turismo di cui é in possesso sia in realtà una scusa per entrare in Portogallo e lavorare, cosa che a detta del funzionario del Serviço de Estrangeiros e Fronteiras (SEF) lo stesso Ihor avrebbe dichiarato nel corso dell’intervista tenutasi poco dopo il suo arrivo in terra lusitana – gli viene rifiutata l’entrata in territorio nazionale.
Da questo momento ha inizio una escalation di eventi che, nel giro di circa 48 ore, culmineranno nella tragica morte di Ihor.
Dopo un primo malore accompagnato da svenimento, per il quale viene condotto in ospedale, tenuto in osservazione tutta la notte e sottoposto a vari esami che ne certificano in ultima istanza lo stato di salute, Ihor viene riportato in aeroporto e trattenuto in attesa di essere rimandato indietro a Istanbul, da dove era arrivato la mattina precedente. Il “respingimento” – o deportazione come le persone colpite dalla violenza della frontera preferiscono definirlo – è previsto per il pomeriggio alle 15:28, ma Ihor rifiuta di imbarcarsi e viene dunque condotto nell’EECIT, ovvero detenuto.
Ihor é “agitato”, a detta dei vigilantes (seguranças) della Prestibel, impresa privata appaltata dal SEF per svolgere funzioni di “vigilanza e sicurezza umana” (come definiti da contratto) nell’EECIT di Lisbona, così come negli altri centri di detenzione del paese. Ed è proprio la costruzione collettiva ed esponenziale della presunta “pericolosità” di quest’uomo – nei fatti solo, confuso e reso estremamente vulnerabile dalla violenza burocratica del regime di frontiera aggravata dall’assenza di un supporto di interpretazione nella sua lingua madre, l’ucraino – che è un elemento cruciale nel determinarne i macabri e inaccettabili risvolti.
Isolamento, somministrazione forzata di calmanti, ammanettamento e costrizione degli arti con nastro adesivo: questo è il trattamento che viene riservato al “passeggero”, come spesso è definito Ihor anche nella stessa sentenza, nelle ore seguenti. Un trattamento, a detta dei vari attori intervenuti – gli ispettori del SEF in turno in aeroporto la notte dell’11 Marzo, ma anche i vigilantes a guardia del centro (l’ispettrice del SEF normalmente responsabile per la sua gestione era malata quel giorno) – necessario per “calmarlo”. Anche gli operatori di emergenza della Croce Rossa in servizio notturno all’interno dell’aeroporto, dietro chiamata, fanno ad un certo punto la loro comparsa nel centro di detenzione: volenterosi di dare il proprio contributo all’impresa di “calmare” l’ormai “fuori controllo” Ihor, gli somministrano un Diazepam contro la sua volontà (sebbene, come rivelato dall’avvocato della famiglia di Ihor, José Gaspar Schawlbach, ciò sia proibito per legge nel caso di persone sottoposte a misura di privazione della libertà personale). Gli stessi soccorritori sono ancora all’interno del centro, peraltro, quando due vigilantes della Prestibel, personale non formato né preparato alla gestione di persone in custodia, legano i polsi e le caviglie di Ihor con del nastro adesivo. Scontato dirlo, anche loro, come tutti gli altri, si conformano a quel copione di banalità del male senza particolare moto di sconcerto né di messa in discussione della situazione.
Questa catena di abusi e violenze culmina infine nell’intervento, la mattina del 12 Marzo, di tre ispettori del SEF – Duarte Laja, Luís Silva e Bruno Sousa – mandati appositamente al centro dai loro superiori per “risolvere il problema”: “un passeggero all’interno dell’EECIT si stava mostrando violento” ed era dunque “necessario un loro intervento per controllarlo”. Questi ultimi, dopo aver intimato ai vigilantes di non scrivere il loro nome sul registro delle entrate, si dirigono nella sala dove Ihor si trova in isolamento dalla notte precedente, la sala normalmente utilizzata dai volontari dei Medicos do Mundo per i controlli medici. In questa sala resteranno per soli 25 minuti, per poi andarsene nuovamente.
Sono proprio questi 25 minuti, tuttavia, che hanno fatto da sfondo ai circa tre mesi di processo penale, iniziato il 2 febbraio e conclusosi il 10 maggio del 2021. Un processo storico per il Portogallo, che, anche a causa della brutalità della violenza inflitta a Ihor – morto la sera del 12 Marzo per asfissia meccanica a seguito della frattura provocatagli agli archi costali e dopo essere stato lasciato per ore in posizione di decubito ventrale, ammanettato con le braccia dietro la schiena – per la prima volta é riuscito a squarciare il velo di silenzio che da sempre circonda il tema della detenzione amministrativa di stranieri nel paese lusitano. Un paese, il Portogallo, spesso lodato a livello Europeo per la disposizione politica all’accoglienza e all’integrazione ma che tuttavia, come sostenuto da alcuni studiosi di migrazione, dietro la sua narrativa autopromozionale di generosità e solidarietà verso le persone migranti e la sua retorica istituzionale delle “buone pratiche”, nasconde violenze sconcertanti. Violenze che, tal come nel caso del sanguinoso passato coloniale, sono completamente rimosse dalla coscienza pubblica.
Cosa é accaduto dunque in quella sala durante quei 25 minuti? Questa é la domanda che i giudici componenti il Tribunal Colectivo do Juizo Central Criminal de Lisboa hanno dovuto affrontare nel giudicare la colpevolezza dei tre ispettori del SEF, D. Laja, L. Silva e B. Sousa, inizialmente accusati dal Pubblico Ministero (PM) di omicidio qualificato (doloso). Un processo che non é stato soltanto legale, ma anche e sopratutto politico.
E difatti la notizia della morte di Ihor per mano dei tre ispettori, arrivata sui canali della televisione pubblica portoghese solo il 29 di Marzo 2020, dopo il tentativo fallito di farlo passare come decesso per cause naturali, ha aperto un importante e altrettanto inaspettato processo di messa in discussione politica e riforma del sistema. Un processo che, dopo aver portato alle dimissioni dei vertici del SEF di Lisbona e a quelle della direttrice nazionale della stessa istituzione, è culminato l’8 Aprile 2021 con l’emanazione della Risoluzione del Consiglio dei Ministri n.º 43/2021 che ha decretato l’estinzione ultima del SEF nonché la separazione tra le funzioni di polizia (trasferite rispettivamente alla Guardia Nazionale Repubblicana e alla Polizia di Pubblica Sicurezza), le funzioni di investigazione criminale (ora competenza riservata alla Polizia Giudiziaria) e le funzioni amministrative associate alla emissione di visti e permessi di soggiorno e all’attribuzione dello status di protezione internazionale, assegnate al nuovo Serviço de Estrangeiros e Asilo (SEA).
Un processo penale che ha visto, almeno temporaneamente, la sua conclusione il 10 Maggio, quando nel tribunale di Campus da Justiça il Presidente del collettivo di giudici, Rui Coelho, ha letto il verdetto finale che ha visto la condanna dei tre imputati a, rispettivamente, nove (Luís Silva), sette (Bruno Sousa) e nove anni (Duarte Laja) di prigione per il reato di offesa all’integrità fisica grave qualificata, aggravata dal risultato della morte della vittima. Sebbene la loro intenzione non fosse quella di ucciderlo, viene affermato nella sentenza, motivo per cui i giudici lasciano cadere l’accusa di omicidio doloso inizialmente avanzata dal PM, i tre ispettori agirono con la consapevolezza, e intenzione, di sottoporre Ihor ad un trattamento disumano e provocargli estrema sofferenza. Volevano, in alter parole, dargli “una lezione” che lo lasciasse “calmo” – ovvero incapace di provocare incomodo ai vigilantes – fino al momento del suo rimpatrio in Turchia nel pomeriggio (in altre parole, “causargli un danno sufficiente da capire che doveva restare calmo, tranquillo, senza infastidire il funzionamento del centro” cit. sentenza). Sapevano inoltre, per la formazione professionale ricevuta nel corpo di polizia del SEF, che lasciandolo poi sdraiato con le braccia ammanettate dietro la schiena durante un tempo prolungato, avrebbero potuto causargli danni gravi, inclusa la morte.
Un altro elemento della sentenza è, poi, degno di nota. Questo è la constatazione, da parte del collettivo dei giudici, del “tono compromettente con il quale hanno deposto tutti coloro che hanno avuto direttamente a che fare con l’andata dei tre imputati all’incontro con Ihor Homeniuk, nonché coloro che prima e dopo (dei tre imputati) sono venuti a diretto contatto con lo stesso (Ihor)”. A tale constatazione, di grande rilievo, segue l’avvertimento che per ognuno di questi protagonisti – vigilantes in turno quei due giorni, ispettori del SEF che hanno assistito all’ “intervento” dei tre imputati, ispettori di grado superiore che hanno ordinato a D. Laja, L. Silva e B. Sousa di “occuparsi” di Ihor senza premurarsi di controllare che gli fosse poi prestata la dovuta assistenza – potranno essere indagate le responsabilità penali in questa tragedia indotta.
In quelle circa 18 ore in cui Ihor è stato torturato e lasciato lentamente e brutalmente morire dentro quella improvvisata e inadeguata sala di isolamento, priva di telecamere al suo interno, un numero elevato di persone sono entrate in contatto con lui, partecipando, piú o meno attivamente, alla crescente violenza e disumanizzazione di cui è stato vittima. Alcune hanno agito, picchiandolo, ammanettandolo, immobilizzandolo o forzandolo ad assumere farmaci contro la sua volontà, altre hanno solo assistito al suo “martirio” (cit. sentenza), omettendo ogni possibile soccorso. Ciò che le accomuna tutte tuttavia, senza sminuire i diversi livelli di responsabilità individuale e gravità delle azioni, è l’essere rimaste fedeli al copione di disumanizzazione iscritto sul corpo di migrante ‘inammissibile’ (termine utilizzato per definire coloro a cui viene rifiutato il diritto di entrata in territorio portoghese) – e dunque “pericoloso”, “problematico” e potenzialmente “violento” – di Ihor.
È altresí significativo notare come in nessun momento i vari attori istituzionali intervenuti si siano preoccupati di trovare un interprete per comunicare con Ihor nella sua lingua madre e provare a comprendere e risolvere, attraverso il dialogo, le ragioni del suo stato di agitazione.
Come nota l’avvocato José Gaspar Schawlbach, che rappresenta la famiglia della vittima, viene da pensare che se nessuno di loro disse o fece nulla di fronte allo svolgimento del dramma di Ihor è perché ciò, almeno nel suo svolgimento iniziale, non era niente di straordinario, ovvero era pratica ordinaria e ricorrente in quel luogo, tenuto lontano dallo sguardo della società civile.
Ma come si arriva a smettere di vedere nell’altro/a un essere umano la cui esistenza ha lo stesso valore della propria? E cosa accade nella psiche di chi si trova all’interno di queste ‘istituzioni del dolore’ e partecipa (nelle varie accezioni sopra menzionate) al copione della banalità del male che ne dirige il funzionamento? È possibile abituarsi ad una grammatica di violenza quotidiana al punto da ritenerla “normale”?
Domande importanti che, seppur esulando in senso stretto dal processo penale volto ad accertare le responsabilità dei tre ispettori dell’(ormai estinto) SEF, riecheggiano al centro di questa tragica storia. Domande a cui tuttavia il verdetto del collettivo dei giudici non è riuscito a dare piena risposta.
In copertina: il Tribunal Colectivo do Juizo Central Criminal de Lisboa. Foto di Francesca Esposito.