Sasha ha trascorso la giornata in casa davanti al computer, perché sta seguendo un corso online di programmazione e gestione dei dati personali in ambito sanitario. Vive in un piccolo appartamento di due locali, arredato con gusto, all’interno di uno dei tanti chruščëvka di Almaty, i palazzi popolari con quattro, cinque piani e tanti ingressi uno dopo l’altro, costruiti negli anni Sessanta in tutta l’Unione Sovietica.
Da quando è arrivato in questa città, dato che dovrà superare un nuovo esame di abilitazione per esercitare la sua professione di medico in Kazakhstan, ha scelto di prepararsi anche a un lavoro alternativo, che non lo allontani troppo dal suo settore ma che nel frattempo gli consenta di avere un reddito.
“Sono nato e cresciuto a Murmansk, una città del Circolo Polare Artico da 300 mila abitanti – racconta Sasha nella sua cucina davanti a un caffè – ma ho studiato medicina a Mosca e lì ho cominciato a lavorare quando è scoppiata la pandemia. La mia prima esperienza in ospedale è stata con i malati di Covid nel 2020, poi sono stato assunto in un hospice dove mi sono occupato di malati terminali e cure palliative. Il sistema sanitario in Russia funziona molto bene, ero soddisfatto del mio lavoro, difatti non è questo il motivo che mi ha spinto a lasciare il paese.”
Sei partito anche tu dopo l’annuncio della mobilitazione parziale del 21 settembre, come tanti altri giovani russi
Ovviamente il pensiero di andare a combattere non mi ha mai sfiorato, quindi il motivo principale posso dire che sia stato questo. Come medico sono stato formato per salvare le vite, non per uccidere, quindi non riuscirei a imbracciare un fucile contro nessuno, e penso sia proprio un controsenso mandare un dottore a combattere. Penso anche che la guerra in Ucraina sia inaccettabile, ancora oggi dopo quasi un anno fatico a credere che sia successo e stia succedendo veramente, sotto i nostri occhi.
C’è poi una ragione più personale che mi ha spinto a prendere la decisione definitiva di partire, il pensiero di raggiungere il mio compagno che si era già trasferito qui ad Almaty da alcuni mesi. Purtroppo in Russia essere omosessuali sta diventando sempre più complicato, se si vuole vivere una vita piena, senza doversi nascondere ed essere costretti a mascherare il proprio orientamento sessuale in pubblico. E in questo la narrazione del modello maschile che sottende a quella del conflitto ha contribuito a peggiorare le cose. Molti all’estero non immaginano quale sia davvero il clima nel mio paese.
Pensi che la guerra abbia incrementato la repressione in Russia e la contrazione dei diritti civili? Come si ripercuote questa situazione sulla vita delle persone della comunità Lgbti?
In Russia abbiamo una legge contro la cosiddetta “propaganda gay” dal 2013: fino all’approvazione in Parlamento del nuovo provvedimento, nel novembre scorso, riguardava la presunta tutela dei minorenni dalle campagne che promuovono la conoscenza e la consapevolezza che ci possano essere orientamenti sessuali diversi, e che non esista solo un modello maschile o femminile. Quando c’è stata l’invasione dell’Ucraina, la macchina della propaganda ha cercato di promuovere i concetti di patria e famiglia con valori “tradizionali”, rimarcando l’importanza della natalità, e della necessità di proteggere il paese dalle aggressioni esterne per dare un futuro ai giovani. Un omosessuale o una persona transgender risultano in contrasto con lo stereotipo del soldato, dell’uomo forte che combatte per la patria, pronto a dare a vita per ideali che non sempre condivide, dato che poi è obbligato a partire, e raramente sceglie liberamente di andare a morire in una guerra imposta.
L’impatto di questa campagna è su tutta la popolazione, perché viene a mancare l’informazione e l’ascolto sui questi temi. Dalle biblioteche sono già scomparsi tutti i titoli che fanno riferimento all’omosessualità, e lo stesso è accaduto nel cinema, perché oggi è proibito portare nelle sale un film che abbia un protagonista gay, o una protagonista lesbica, per esempio, o che tratti la diversità di genere. Lo stesso vale per la televisione. Esistono ancora dei siti web dai quali si possono scaricare dei contenuti, ma sono diventati illegali. Il problema più grave è per gli adolescenti che crescono nella cultura della negazione, non hanno un supporto nell’educazione sessuale e sempre più spesso cadono in depressione fino a togliersi la vita. In una grande città si sopravvive comunque, ma nei piccoli comuni si è completamente soli e abbandonati a sé stessi.
La legge del 2013, letteralmente “legge sulla propaganda fra i minori delle relazioni sessuali non tradizionali”, conteneva una serie di emendamenti a diverse leggi già in vigore nella Federazione Russa, e proibiva alla stessa stregua la “promozione” fra i bambini di stupefacenti, pedofilia e omosessualità, e tutto ciò che il Cremlino reputasse non conforme ai valori tradizionali della famiglia, pur non specificati.
La nuova legge del 2022 equipara qualunque informazione su omosessualità e famiglie senza figli alla pornografia, all’istigazione al suicidio, alla violenza e ai comportamenti estremisti, e in più estende i divieti a tutta la popolazione, non più solo ai minori, ed è stata giustificata dal Parlamento come reazione alle moderne concezioni alternative della famiglia, del genere sessuale, della natalità.
Il provvedimento raddoppia anche le sanzioni per chi trasgredisce: le multe sono salite a 400 mila rubli per le persone singole e 5 milioni di rubli per le organizzazioni e le associazioni. Secondo il Russian Lgbt Network, già nel 2021, quindi un anno prima che fosse ratificata la nuova legge, il 78% del campione di una ricerca condotta a livello nazionale, fra le persone con vari orientamenti sessuali e differenze di genere, dichiarava di aver subito episodi di violenza o discriminazione, spesso commessi da gruppi di soggetti omofobi e transfobici.
Perché avete scelto il Kazakhstan per cercare di costruirvi una nuova vita?
Per diverse ragioni: io conoscevo già il paese e in particolare la città di Almaty perché ero già stato qui a trovare il mio compagno. Si tratta di un luogo per noi semplice da raggiungere, perché per oltrepassare il confine basta la carta di identità, non servono visti e non devi giustificare il tuo ingresso. Poi parliamo la stessa lingua, e questo facilita l’inserimento nel mondo del lavoro. Per ultimo, ma non meno importante, il sistema bancario kazako riconosce i nostri conti aperti in Russia e ci consente di operare anche da qui, in altri paesi non avremmo accesso ai nostri risparmi.
Dal punto di vista della qualità della vita non manca nulla, ci sono bei posti da visitare, e si può condurre un’esistenza tranquilla, molto più che in Russia. Ad esempio qui non fanno difficoltà ad affittare un appartamento a una coppia gay, nella mia città sarebbe stato molto più difficile andare a vivere insieme.
Che ricordo hai dell’inizio della guerra in Ucraina?
Il giorno prima che iniziasse, il 23 febbraio, ero andato a vedere un film con gli amici in un posto chiamato Garage. Era una storia ambientata negli anni Ottanta, e all’uscita ci siamo messi a discutere del fatto che la situazione del momento ci stava riportando quasi ai tempi della Guerra Fredda, con le truppe ammassate al confine, minacciose. E il giorno dopo è cominciata l’invasione, e siamo davvero tornati indietro nel tempo. Da allora molti amici se ne sono andati, e con chi restava si cercava di capire cosa fosse meglio fare, e quale fosse il momento giusto.
Quando è arrivato il tuo momento giusto?
L’ultima settimana di settembre, nell’hospice in cui lavoravo, la direzione ha creato una mailing list per comunicare a noi dipendenti, medici e operatori sanitari, che da un momento all’altro sarebbe arrivata la chiamata per andare al fronte. Scrivevano che non avrebbero potuto opporsi, e loro stessi avevano l’obbligo di fare un elenco con i nostri nomi per dare un eventuale ordine ai richiami. Io non ero fra i primi, diciamo che il mio nome compariva nella seconda pagina, ma da lì in poi avrei vissuto con lo stress continuo di non sapere quando sarebbe toccato a me. E poi, conoscendo le disfunzionalità del sistema militare, l’ordine poteva cambiare senza motivo. Insomma, andarsene è diventato anche un fatto di sicurezza personale, oltre che un’azione di dissenso nei confronti delle politiche del nostro governo.
Il mio contatto per lasciare il paese era a Samara, e quindi la prima tappa è stata quella. Lì ho trovato altri amici e conoscenti, e ci siamo dati una mano. A me è andata bene perché avevo comprato con un po’ di anticipo un biglietto del treno, molto più comodo e veloce rispetto all’auto, nei giorni in cui al confine si trascorrevano fino a 72 ore in attesa di attraversare.
Ora spero in un nuovo inizio qui, anche se non sarà semplice a causa del lavoro, perché purtroppo l’abilitazione conseguita in Russia non vale in Kazakhstan, e bisogna sostenere un nuovo esame. Inoltre devo studiare da zero un altro sistema sanitario, ma nel frattempo sto cercando di formarmi dal punto di vista informatico, e quello è il mio piano B. Mi piaceva la mia vita, ma il pensiero di perderla, dopo aver perso le mie libertà, mi fa dire di aver fatto la scelta giusta.
In copertina: stazione di Almaty. Foto di Ilaria Romano.