Una fotografia della detenzione migrante ai tempi del Covid-19. È quello che si prefissa di fare la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti Civili (CILD) con il rapporto “Detenzione migrante ai tempi del Covid”, nel quale vengono analizzati i dati tra febbraio e giugno 2020 relativi agli arrivi via mare, i trattenimenti presso i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr), gli hotspot, le altre strutture ad hoc e le navi-quarantena. Tra i tanti luoghi di detenzione dei migranti, delle prigioni amministrative, sono queste le strutture dove si è concentrato maggiormente il trattenimento di stranieri nel periodo di emergenza sanitaria, anche a causa della sostanziale chiusura delle frontiere terrestri.
Nel momento in cui veniva ultimata la scrittura del rapporto – 2 luglio – risultavano presenti 451 persone negli hotspot , 332 nei Cpr, 207 sulla nave Moby Zazà e un numero indefinito, per inesistenza di dati al riguardo, di persone trattenute tra strutture ad hoc aperte durante l’emergenza epidemiologica in Sicilia per far espletare la quarantena a chi è approdato sulle coste italiane. Tali strutture, insieme agli hotspot, diventano luoghi temporanei di quarantena e di limitazione della libertà personale, o quantomeno di movimento, in assenza di una decisione giudiziaria e in potenziale contrasto con l’art. 5 della Convenzione EDU per motivi analoghi a quanto stabilito dalla Corte EDU nella nota sentenza Khlaifia c. Italia.
Il rapporto rivolge uno sguardo anche ai Cpr, dove il trattenimento degli stranieri in attesa di rimpatrio può durare fino a 180 giorni (o anche un anno nei casi eccezionali di trattenimento dei richiedenti asilo) e dove continuano a verificarsi nuovi ingressi nonostante il persistere del blocco delle espulsioni.
Un focus è poi dedicato alle navi-quarantena introdotte dopo il cosiddetto Decreto Porti Chiusi del 7 marzo 2020, che ha stabilito che durante tutto il periodo dell’emergenza sanitaria i porti italiani non possano essere considerati Place of Safety per navi battenti bandiera straniera che hanno condotto operazioni fuori dall’area SAR italiana. Sono quindi state individuate due navi, prima la Raffaele Rubattino e poi la Moby Zazà, hotspot galleggianti al largo rispettivamente di Palermo e di Porto Empedocle, che hanno accolto e continuano ad accogliere le persone sbarcate da imbarcazioni battenti bandiera straniera, o arrivate autonomamente sulle coste siciliane.
Ciò che si riscontra nell’analizzare l’evoluzione della situazione in questi luoghi di trattenimento è una serie di mancanze.
Innanzitutto mancanza di informazioni per le persone che dall’interno e dall’esterno cercano di capire cosa succede nelle prigioni amministrative. Mentre infatti è possibile avere un aggiornamento quotidiano sugli arrivi via mare tramite il cruscotto del Ministero dell’Interno, non esiste alcuna pubblicazione ufficiale relativa ai dati delle presenze nei tanti luoghi di detenzione amministrativa degli stranieri. In questo contesto si sono dunque rivelate ancora più preziose le iniziative informative del Garante nazionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che ha pubblicato ben 35 bollettini periodici nella fase di emergenza sanitaria fornendo dati, numeri, informazioni e raccomandazioni relative (anche) alla detenzione amministrativa degli stranieri. Ma nonostante queste iniziative siano fondamentali, nel rapporto CILD sottolinea come sarebbe utile e doveroso poter disporre statistiche con cadenza periodica predeterminata – così come avviene per la detenzione in carcere per mezzo del sito del Ministero della Giustizia – per permettere alla società civile di monitorare effettivamente quello che avviene in tali luoghi.
Si conferma poi la mancanza di un controllo dei giudici sulla legalità della detenzione negli hotspot. Come emerge dal rapporto e da altre fonti autorevoli, infatti, il trattenimento in hotspot, locali idonei e strutture ad hoc continua ad essere attuato in Italia in assenza di una base legale, cioè di un provvedimento di un giudice che disponga o convalidi il trattenimento in questi luoghi di privazione della libertà. Pertanto il Governo italiano risulta ancora inadempiente rispetto a quanto sancito nella sentenza Khlaifia, con la quale la Corte EDU ha condannato l’Italia per la detenzione senza l’intervento di un giudice e senza una base legale subita da alcuni cittadini tunisini nel 2011.
Nel periodo dell’emergenza sanitaria anche la detenzione nei Cpr è da ritenersi priva di basi legali, essendo stata sospesa la mobilità internazionale e dunque la possibilità di effettuare rimpatri. Il rischio, se si continua a privare della libertà personale degli individui che non possono essere rimpatriati, è dimenticare che il trattenimento nei centri di detenzione amministrativa è esclusivamente propedeutico al rimpatrio, così stabilito Direttiva rimpatri e dal Testo Unico Immigrazione (D. lgs. 286/1998). E se il rimpatrio non è possibile, ogni detenzione deve essere ritenuta illegittima. Si tratta di una propedeuticità essenziale di cui sembra essersi dimenticato il governo italiano, che ha scelto di non svuotare completamente i Cpr nonostante il blocco dei rimpatri a cui la detenzione amministrativa dovrebbe essere finalizzata. A riprova dell’inutilità della detenzione in questo periodo si pensi che nel momento in cui il rapporto veniva finalizzato – 2 luglio – non si avevano notizie di rimpatri effettuati né di quando sarebbe stato possibile riprendere tale attività.
A ciò si aggiunge che il recente decreto c.d. rilancio, nell’introdurre le procedure di regolarizzazione, ha disposto la sospensione dei procedimenti di espulsione fino al 15 agosto, data ultima per la presentazione della domanda di regolarizzazione a seguito della proroga disposta con il decreto-legge 16 giugno 2020, n. 52. Ulteriore ragione, questa, per ritenere illegittimo il trattenimento, quanto meno, di chi ha i requisiti per poter accedere alla regolarizzazione.
In definitiva, al di là dell’emergenza, la CILD ritiene giunta l’ora di mettere seriamente in discussione la opportunità della detenzione amministrativa, stante il suo oggettivo sostanziale fallimento in termini di efficacia e di lesione di diritti fondamentali dei trattenuti. Incentivare le misure alternative alla detenzione, come richiesto dall’International Detention Coalition e dalla stessa UE, sembra essere l’unico rimedio per garantire maggiore legalità, sicurezza pubblica e sicurezza dei diritti dei destinatari di misure di allontanamento.
Bisogna poi tener conto della mancanza di garanzie durante l’espletamento della quarantena sulle navi. Se è vero che la necessità di espletare la quarantena per le persone sbarcate in Italia durante la presente emergenza è di evidenza scientifica, tali misure devono tuttavia rispettare il principio di proporzionalità e devono tenere in considerazione il vissuto di chi approda sulle nostre coste dopo un travagliato viaggio, fuggendo da situazioni di torture, grave sfruttamento o grande povertà.
Pur auspicando l’espletamento della quarantena su terra ferma, nelle ipotesi eccezionali di quarantena espletata sulle navi, come osservato anche dal Garante nazionale, andrebbe garantito quanto meno che l’isolamento sanitario sulla nave sia una misura proporzionata, non discriminatoria, né arbitraria; che le condizioni dell’imbarcazione rispettino la dignità umana; e che le persone vulnerabili accolte abbiano la possibilità immediata di essere evacuate e ricevere assistenza in strutture adeguate su terra ferma.
Siamo a quasi un mese dal termine del 14 giugno dell’appalto relativo alla nave Moby Zazà. Visti anche gli ingenti costi dello stesso appalto – circa un milione di euro per un mese – l’auspicio è che la nave quarantena non diventi un hotspot galleggiante a tempo indeterminato e che si adottino su terra ferma le future misure di quarantena per i nuovi arrivi. In caso contrario, il rischio è che si normalizzino delle soluzioni di trattenimento emergenziali trasformandole in prassi. Il rischio che le procedure di espletamento della quarantena sulle navi da eccezione diventino normalità, e quindi prassi discontinua, discriminatoria e ingiustificata, è concreto se solo si tiene conto della proroga in atto relativa alla nave Moby Zazà e di quanto accaduto con gli stessi hotspot, introdotti nel 2015 come eccezione e poi divenuti luogo istituzionale per trattenere chi approda senza un titolo formale di ingresso in Italia.
Da ultimo, l’evolversi della detenzione migranti durante la pandemia dimostra una mancanza di umanità e legalità nel Mediterraneo: la chiusura dei porti italiani e la partecipazione italiana ed europea nella SAR libica in operazioni che sembrano assurgere a respingimenti collettivi verso la Libia sono solo alcuni indizi di questa mancanza. Se corrisponde al vero quanto affermato nel report Remote Control – dove si legge dell’uso di mezzi aerei europei per favorire l’intercettazione e il ritorno nei centri di detenzione in Libia di chi fugge da quegli stessi centri dove non sono rispettati i diritti umani – è chiara la violazione del diritto del mare, che impone lo sbarco in un luogo sicuro, che evidentemente non può essere la Libia.
La società civile deve affermare con nettezza che il principio di non-refoulement va rispettato anche in acque internazionali e le forze militari italiane ed europee, al pari dei contributi italiani ed europei destinati alla cooperazione, non possono essere investite per facilitare azioni contrarie al diritto del mare e al principio di non respingimento.
In definitiva, la crisi epidemiologica che stiamo vivendo deve imporre una riflessione alla società civile, al governo italiano, agli altri paesi europei e all’Unione Europea che parta da una revisione critica delle attuali politiche migratorie che si fondono sul binomio esternalizzazione e detenzione diffusa dei migranti. Il fallimento delle attuali politiche migratorie, in termini di vite umane scomparse nel Mediterraneo o restituite all’inferno libico, di illegalità diffusa della detenzione amministrativa, è sotto gli occhi di tutti e durante l’emergenza sanitaria le criticità dell’approccio securitario sono state solo amplificate. Il ritorno alla normalità, a cui tutti auspichiamo, rischia di restituirci una normalità “minore”, ancora più scevra di diritti e garanzie nello specifico campo della detenzione migrante se non vi sarà un cambio di rotta. Preoccupano infatti gli aumenti esponenziali dei numeri di presenze riscontrati ad inizio luglio nei Cpr e negli hotspot in assenza di base legale. Preoccupa la proliferazione di centri di detenzione che sfuggono da ogni forma di monitoraggio e controllo, il protrarsi delle attività – inizialmente previste come temporanee – delle navi-quarantena, il protrarsi della chiusura dei porti italiani.
Ferma restando l’esigenza di una revisione critica delle attuali politiche migratorie, la detenzione amministrativa, a prescindere dal nome dato alle variegate prigioni amministrative esistenti, va condotta sui binari del riconoscimento positivo dei diritti fondamentali, a partire dall’introduzione di una normativa di fonte primaria che riconosca chiaramente i diritti delle persone trattenute e rimedi giurisdizionali perché tali diritti non siano solo mere enunciazioni, o diritti di carta.
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