Lo scorso 26 giugno il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha presentato al Parlamento la sua Relazione 2020, che ripercorre le attività condotte nel corso del 2019. Un appuntamento, questo, che è stato necessariamente modificato rispetto agli anni passati, anche nella sua data e nel suo formato, a causa delle peculiarità e delle restrizioni che stiamo attualmente vivendo. Come in passato, però, il Garante Nazionale Mauro Palma ci ha mostrato una fotografia dei luoghi di privazione della libertà personale – compresi quei luoghi dove si è trattenuti non perché colpevoli di un reato, ma perché migranti in Italia.
Nel corso del 2019 il numero dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) operativi è aumentato, passando da 7 a 9. A seguito del progetto di ampliamento della rete dei Cpr lanciato con il decreto-legge n. 131/2017, infatti, abbiamo assistito alla riapertura della sezione maschile del centro di Roma-Ponte Galeria, alla riattivazione del rinnovato Centro di Gradisca d’Isonzo (Go) e all’apertura di un Centro a Macomer (Nu). Accanto a questi centri hanno continuato ad essere operativi quelli di Torino, Caltanissetta, Trapani, Bari, Brindisi-Restinco e Palazzo San Gervasio (Potenza). Nella loro struttura tuttavia i nuovi centri, così come quelli precedentemente esistenti, continuano ad apparire come semplici strutture di mero confinamento, inadeguate a fronteggiare la complessità delle dinamiche che una permanenza prolungata in questi luoghi determina. Nella sua Relazione il Garante definisce questi luoghi come “non pensati, ma meramente strumentali a contenere persone fino a raggiungimento dell’obiettivo ultimo e unico del rimpatrio”.
Mentre aumentava la capienza dei Cpr, il 2019 ha anche registrato un incremento di circa il 51% di persone trattenute rispetto al 2018 (6172 nel 2019, 4092 nell’anno precedente), aumento che però non ha portato a nessun passo avanti in termini di garanzie per le persone trattenute in questi luoghi. A luglio 2020, infatti, non si è registrato alcun progresso nell’auspicato processo di definizione con una normativa di rango primario di un quadro organico di regole per la detenzione amministrativa, anche conosciuta come ‘detenzione senza reato’. Le persone che vengono trattenute nei Cpr non devono infatti scontare una pena – anzi, in numerosi casi arrivano in questi luoghi dopo aver già scontato una pena in carcere – ma si vedono privati della propria libertà personale perché irregolarmente presenti sul territorio italiano o perché ritenuti socialmente pericolosi in seguito alla commissione di un reato. In seguito all’entrata in vigore del decreto-legge n. 113/2018 (c.d. Decreto sicurezza I), il termine massimo di trattenimento nei Cpr è passato da 90 a 180 giorni, periodo durante il quale lo straniero destinatario di un provvedimento di rimpatrio può essere trattenuto per essere identificato e successivamente rimpatriato.
E se proprio in considerazione del recente aumento dei termini massimi per la detenzione amministrativa appare ancor più urgente che questa materia sia regolata da una norma primaria frutto di un intervento parlamentare, questo attualmente non sembra l’obiettivo delle autorità competenti, che sarebbero invece orientate verso una revisione, almeno per il momento a porte chiuse, del Regolamento unico Cie da parte degli Uffici del Ministero dell’interno. Nell’esercizio di revisione del Regolamento, tre sono le aree in relazione alle quali il Garante intende fornire il proprio contributo: salute e assistenza medica, innanzitutto con il rafforzamento del diritto all’accesso alle informazioni sul proprio stato di salute da parte delle persone durante il loro trattenimento; libertà di corrispondenza telefonica, attraverso la rimozione di ogni impedimento che ne ostacoli o comunque ne limiti il pieno esercizio; regolamentazione dell’accesso ai Centri, in relazione al quale il Garante auspica “una sempre più ampia partecipazione della società civile organizzata alla vita dei Centri” per far sì che l’apporto che la comunità esterna può fornire all’interno dei centri venga riconosciuto e valorizzato.
Ma il trattenimento degli stranieri destinatari di un provvedimento di rimpatrio non avviene solo nei Cpr. Ad oggi – e anche in questo caso il “responsabile” è il c.d. Decreto Sicurezza I – è possibile che questa privazione della libertà, in attesa della definizione del procedimento di convalida, avvenga anche all’interno di cosiddetti ‘locali idonei’ nella disponibilità dell’Autorità di Pubblica Sicurezza, per un massimo di 4 giorni che possono diventare 6 nel caso di ‘appositi locali di frontiera’ previa autorizzazione di un giudice. E se il trattenimento nei Cpr non è disciplinato da un quadro normativo soddisfacente, ancora più lacunosa è la cornice nella quale si trovano quelle persone che subiscono l’applicazione di misure restrittive all’interno di queste «strutture idonee» o «locali idonei». In assenza di un’iniziativa regolativa che preveda almeno che l’elenco completo dei locali individuati all’esito del giudizio di idoneità sia reso pubblico, nel 2019 questi locali idonei sono stati i locali e le camere di sicurezza presso le Questure, nonché i locali in uso alle forze di Polizia presso i valichi di frontiera.
Sono numerosi gli interrogativi che sorgono davanti alla tendenziale moltiplicazione dei luoghi del detenere e l’aumento delle tipologie di persone trattenute. Nel caso dei migranti sottoposti a detenzione amministrativa, la domanda è se queste persone verranno rimpatriate. Dei 6172 stranieri transitati nei Cpr italiani nel corso del 2019, infatti, solo 2992 (49%) sono stati effettivamente rimpatriati. Nel 28% dei casi (1755 stranieri) invece il trattenimento non è stato convalidato o prorogato dall’Autorità giudiziaria, mentre nell’8% dei casi le persone trattenute (515) sono state dimesse perché allo scadere dei termini non erano state ancora identificate nonostante il trascorrere dei 180 giorni di trattenimento. Giorni che, in quest’ultimo caso, il Garante definisce “di mera sottrazione del proprio tempo vitale”.
L’essere ‘migranti’, al giorno d’oggi, “può significare che gli articoli 3, 13, 27 della Costituzione e in particolare l’articolo 32, che garantisce la tutela della salute indistintamente a tutti i cittadini, siano meno esigibili”. Prova ne è l’esempio di un cittadino straniero dimesso dal Cpr di Caltanissetta lo scorso novembre senza ricevere documenti né informazioni su dove poter pernottare, in un territorio che non è stato in grado di preordinare risposte adeguate a tali situazioni. O l’esempio dei trattenuti nei Cpr ai tempi dell’emergenza sanitaria. Al di là del paradosso di una privazione della libertà personale finalizzata al rimpatrio in un momento in cui i rimpatri non potevano materialmente effettuarsi per la chiusura della maggior parte delle frontiere, gli stranieri nei Cpr inizialmente non disponevano di informazioni tempestive sulla situazione nel mondo “esterno”, di dispositivi di protezione individuale e di contatti con i congiunti che non potevano più recarsi presso i centri. La peculiarità della Relazione del Garante presentata quest’anno è infatti quella di aver rivolto lo sguardo anche ai primi mesi del 2020 – precisamente al periodo dal 1 gennaio al 15 aprile – monitorando la situazione e la gestione della pandemia all’interno dei luoghi di privazione della libertà personale. Nel periodo indicato 1152 stranieri hanno transitato nei Cpr, 378 dei quali sono stati rimpatriati.
Nello stesso periodo 2480 persone sono approdate presso gli hotspot, i luoghi dove i migranti dovrebbero trascorrere il tempo strettamente necessario per essere identificati all’arrivo in Italia. Luoghi che di questi tempi sono stati utilizzati anche per una quarantena che ha spesso rischiato di prolungarsi indefinitamente in tutti quei casi – riscontrati dal Garante – in cui il periodo di isolamento precauzionale di fatto ricominciava ogni volta che nella struttura di quarantena si aggiungevano nuove persone arrivate. Anche gli hotspot sono strutture spesso inidonee all’obiettivo che si prefiggono, ovvero quello accogliere gruppi di persone, spesso vulnerabili, che hanno attraversato il Mediterraneo. Si tratta in alcuni casi di strutture con solo due bagni per 40 persone, materassi all’aria aperta, camere condivise, molto fredde o molto calde, con persone di altri Paesi che, in quanto ‘migranti’ anch’esse, “hanno un po’ meno diritto a un alloggio temporaneo nel quale le norme igienico-sanitarie minime vengano rispettate”. Ed è comune che in queste condizioni i migranti restino per tempi lunghi, ben più lunghi di quanto stabilito dalle norme. Se secondo le procedure hotspot il tempo massimo da spendere in questi luoghi è di 48 ore, nel 2019 la permanenza media nell’hotspot di Messina è stata di 42 giorni.
Nel corso del 2019 i numeri degli hotspot non si sono discostati in maniera considerevole da quelli degli stranieri transitati nei Cpr. 7757 persone, tra cui 1609 minori, hanno fatto ingresso in questi luoghi, in netto calo rispetto ai 13777 del 2018, i 31287 del 2017 e i 45376 del 2016.
Anche nel 2019, dunque, per la ‘detenzione senza reato’ sono mancati dei provvedimenti in linea con il principio, troppo spesso dimenticato, che la privazione della libertà dovrebbe essere misura estrema, l’ultima a cui ricorrere – e non quella da adottare di default – mentre gli hotspot hanno continuato ad essere luoghi di «limbo di tutela giuridica» in cui non sono garantite condizioni di trattenimento che assicurino l’assoluto rispetto della dignità della persona.
In copertina: il CPR di Torino. Foto via Twitter