Svezia: “non vado da nessuna parte”
“Dovrei lasciare la Svezia tra una settimana. Ma ho imparato lo svedese: sono qui da due anni ormai. Non me ne vado da nessuna parte”. Mohammed è un richiedente asilo iracheno e vive a Malmö, la città nel sud della Svezia che tra i migranti è nota come “la diciannovesima provincia dell’Iraq”. È un sabato di fine giugno, e Mohammed sta guidando verso la sede locale dell’ufficio immigrazione. Circa 20 iracheni sono accampati qui da maggio per protestare contro i crescenti dinieghi alle loro domande di asilo.
Nota per essere tra i paesi più accoglienti d’Europa, la Svezia ha, almeno in parte, cambiato orientamento: ad aprile 2016, infatti, il Parlamento ha approvato una nuova legge sull’asilo. Oltre a rendere più difficile ottenere le riunificazioni familiari e il permesso di soggiorno, dal giugno 2016 chi ha ricevuto un diniego definitivo non ha più diritto né all’accoglienza né al supporto economico che invece prima era previsto anche per i cosiddetti “diniegati”.
Una decisione motivata da considerazioni finanziarie, ha dichiarato il governo socialdemocratico, ma su cui è difficile pensare che non abbia pesato il clima europeo anti-immigrati. Adesso, insomma, chi riceve un diniego definitivo ha due scelte: lasciare il paese volontariamente, oppure essere rimpatriato. Molti però optano per la terza via: nascondersi.
Quattro anni senza domani
Accampato sotto una tenda di fronte all’ufficio immigrazione di Malmö c’è Marwan. Ha 35 anni ed è un arabo di Kirkuk, nel Kurdistan iracheno. Vive ad Alvesta, una piccola città a un’ora da Malmö: è irregolare da sei anni, da quando la richiesta di asilo che ha presentato nel 2011 è stata respinta. “Quando ho saputo del diniego”, racconta Marwan, “semplicemente non mi sono presentato all’appuntamento successivo con l’ufficio immigrazione. Non ho mai preso in considerazione l’idea di andarmene”. Alcuni amici lo hanno aiutato a trovare un lavoro come meccanico, in nero. Secondo la legge svedese, trascorsi quattro anni è possibile presentare una nuova richiesta di asilo. Ed è quello che Marwan ha fatto: “Ora posso solo aspettare. Ma sono stanco, e di sicuro non sono venuto in Svezia per vivere così: non ho una casa né un contratto, e a volte lavoro per 100 corone al giorno” [circa 10 euro]. “Sono sotto stress, non riesco nemmeno a pensare al domani”.
Per George Joseph, che lavora per Caritas Svezia da circa 30 anni, la storia di Marwan non è sorprendente: “conosco persone”, dice, “che si sono nascoste per 12 anni. Vivono in una sorta di società parallela”. Secondo i dati Eurostat, nel 2016 il numero di nuove richieste di asilo in Svezia è sensibilmente calato: 28.790, rispetto alle 163 mila richieste del 2015. Ma il numero di domande in sospeso – e quindi di dinieghi in arrivo – è alto: stando ai dati dell’Agenzia svedese per le Migrazioni nel 2016 ne sono state processate 111.979 e quelle accolte sono state il 60 per cento. “Il numero di migranti senza documenti”, precisa Joseph, “è sempre stato abbastanza stabile, ma, con l’aumento delle richieste d’asilo e dei dinieghi, è senza dubbio aumentato. Se dovessi fare una stima, direi che in Svezia ci sono tra i 10 e 15 mila irregolari”. Sempre stando ai dati Eurostat, nel 2016 sono state 1200 le persone fermate nel corso di controlli di routine e risultate irregolarmente presenti in Svezia. A dare un’idea di quanti potrebbero essere i cosiddetti “diniegati” che non hanno mai lasciato il paese sono i dati che ci fornisce direttamente la polizia svedese: sono almeno 12.600 le persone che hanno ricevuto un foglio di via, ma che poi si sono rese “irreperibili”. E a peggiorare la situazione dei migranti nel paese, si è aggiunto l’attacco a Stoccolma dell’aprile scorso, quando un richiedente a cui era stato rifiutato l’asilo ha investito e ucciso quattro passanti nel centro città.
Tobias Lohse è membro di Farr, il consiglio svedese dei rifugiati, e attivista con Refugees Welcome: “Fino a un anno fa aiutavamo i rifugiati a entrare in Svezia”, ricorda con un sospiro, “oggi invece li aiutiamo ad andarsene”. Ma non è detto che altrove abbiano più fortuna: “molti ci chiedono aiuto per arrivare in Germania”.
Una questione europea
In realtà, la Svezia non ha fatto che seguire la tendenza europea dettata dalla direttiva rimpatri. Già nel 2015, in una comunicazione alla Commissione europea e al Parlamento sul Piano rimpatri, il Consiglio ribadiva come “il rimpatrio dei migranti che non hanno diritto a restare nella Ue” fosse “essenziale per mantenere la credibilità del sistema di asilo europeo”. Nello stesso documento si notava come il numero dei rimpatri sia volontari che forzati fosse troppo basso. Nel 2016 i fogli di via emessi dagli stati membri dell’Unione Europea sono stati 489.055. Le persone effettivamente rimpatriate sono state circa la metà: 245.275 (il 17 per cento in più rispetto al 2015), di cui 75.815 rimpatriate dalla sola Germania, principalmente verso Albania e Serbia. Cosa succede invece a chi proviene da paesi con cui non esistono accordi bilaterali per il rimpatrio?
“Se lasci che uccidano i tuoi sogni, sei morto anche tu”, dice Valentine, 45 anni, del Camerun, mentre osserva un giovane intento a sistemare alcuni computer . “È per questo che insisto con lui perché continui a fare volontariato”. Valentine appartiene alla minoranza anglofona del Camerun, ed è arrivato in Germania nel 1998. Quando la sua richiesta di asilo è stata rifiutata, ha vissuto per dieci anni da irregolare. È riuscito a ottenere un permesso di soggiorno solo nel 2009, quando è nato suo figlio: “Ero costantemente sotto stress, era un inferno”.
Ci incontriamo nel piccolo ufficio di Refugees Emancipation nella periferia di Berlino est. Il giovane che sta lavorando al computer è David, anche lui del Camerun. È un ingegnere informatico e quattro anni fa ha dovuto lasciare il suo paese: durante la campagna elettorale del 2011 creò un sito che sosteneva il People’s Action Party, il partito d’azione popolare all’opposizione. Non lontano da un seggio, è stato accoltellato: racconta di essersi salvato per miracolo. Ora vive in un centro di accoglienza a Potsdam, ma a maggio ha ricevuto un diniego definitivo. Come Mohammed, non ha dubbi: “Ho il diritto di stare qui. Non vado da nessuna parte”. Con il diniego, gli è stato tolto il permesso di lavoro, ma David – seguendo il consiglio di Valentine – continua a occuparsi come volontario dell’internet point e dei corsi di informatica per richiedenti asilo organizzati dall’associazione. “Comprano i tuoi sogni con 320 euro al mese e poi lentamente uccidono la tua motivazione”, afferma David, riferendosi al sussidio mensile che il governo garantisce a chi ottiene il “Duldung”, ovvero la sospensione temporanea della deportazione.
Germania: l’approccio securitario
Infatti, a differenza della Svezia o dell’Italia, in Germania chi rifiuta il rimpatrio volontario e per qualche motivo non può essere deportato non viene automaticamente allontanato dall’accoglienza, ma ottiene in genere il Duldung. La libertà di movimento è ristretta e la possibilità di lavorare sospesa, ma il migrante non diventa irregolare: in pratica è tollerato. “L’approccio della Germania è securitario”, sintetizza Karl Kopp, direttore degli Affari europei di Pro Asyl, “l’idea è quella di mantenere il controllo della situazione. Allo stesso tempo, però, si cerca di creare un pezzo alla volta un ambiente sempre più ostile”.
Secondo dati ufficiali citati da Der Spiegel, a fine 2016 in Germania le persone passibili di espulsione risultavano essere 207.484, di cui 153 mila “tollerate”, cioè con il Duldung. Complessivamente, stando ai dati Eurostat le persone irregolarmente presenti sarebbero in tutto 370.555.
Come in Svezia e in Italia, anche la legge tedesca sull’asilo è stata modificata di recente. Christoph Tometten, consulente legale del centro per migranti Kub a Berlino, dice di aver perso il conto delle modifiche nell’ultimo anno e mezzo: “è stato lasciato ogni volta pochissimo tempo per la discussione in aula e nella società civile”. L’aspetto più controverso sarebbe, secondo Tometten, l’introduzione per legge di un criterio di categorizzazione dei richiedenti asilo in base alla probabilità che hanno di restare nel paese, in tedesco “Bleibeperspektive”. In pratica – come si legge sul sito dell’Ufficio federale per l’immigrazione – se il tasso di riconoscimento di asilo in base al paese di provenienza è statisticamente superiore al 50 per cento, il richiedente asilo ha accesso a servizi come corsi di integrazione e di orientamento al lavoro che sono invece negati a chi questa “buona prospettiva” non ce l’ha. Una discriminazione che, essendo basata solo sulla provenienza geografica, secondo Tometten sarebbe “in contrasto con la Convenzione di Ginevra”.
Kopp non usa mezzi termini: “è il nuovo ‘selfie’ tedesco: ‘siamo severi’. Il governo vuole mandare un messaggio e far capire che la politica delle porte aperte è finita”. E concorda con Tometten sul fatto che il paese di provenienza sia il discrimine principale: “se sei iracheno rischi la deportazione dalla Svezia, ma non dalla Germania. Se sei afgano è il contrario”. Così i migranti tentano la sorte spostandosi da un paese all’altro.
In Italia: “diniegati”, ma con contratto
“Ad aprile mi hanno semplicemente detto che purtroppo dovevo andarmene”. Sane, 29 anni, viene dalla regione senegalese della Casamance e negli ultimi due anni ha vissuto a Ivrea. Il suo avvocato ha lasciato scadere per errore i termini del ricorso, così, quando la decisione del tribunale di primo grado è diventata definitiva, gli operatori della cooperativa gli hanno spiegato che doveva lasciare l’appartamento. Si è trasferito a pochi isolati, ospite da un amico.
Da giugno 2017, quando lo abbiamo intervistato, lavora a Saluzzo, raccogliendo la frutta in campagna. Nonostante il permesso scaduto, il datore di lavoro gli ha fatto un contratto come stagionale.
Sane ha avuto alcuni lavori, più o meno saltuari, anche mentre era richiedente asilo, ma non esiste la possibilità di convertire il permesso di richiesta di asilo in un permesso per motivi di lavoro. Una limitazione che ha portato un gruppo di operatori dell’accoglienza a costituire la rete Senza Asilo. Come racconta Anna Bertrand, tra i promotori della campagna, “ci siamo ritrovati con diversi richiedenti asilo che nonostante un datore di lavoro pronto ad assumerli anche a tempo indeterminato, si vedevano negare il permesso e diventavano di fatto irregolari”. Dove vadano a finire i cosiddetti “diniegati”, Bertrand non sa dirlo con certezza: “di norma perdiamo i contatti. Fino a qualche tempo fa, alcuni cercavano di entrare in Francia, ma da quando i controlli alla frontiera sono stati intensificati, è sempre più difficile”. Bertrand non si sorprenderebbe di incontrare molti di loro a Saluzzo o a Rosarno.
Nel 2016, nel corso di controlli di routine, la polizia italiana ha fermato circa 38 mila immigrati con i documenti non in regola. Ma i rimpatri effettivi sono stati solo 5.715, anche perché con molti dei paesi di provenienza dei richiedenti asilo non esistono accordi di riammissione. Dall’Italia, a differenza che da Germania e Svezia, i rimpatri volontari sono praticamente inesistenti: i programmi finanziati dal Fami, il Fondo Asilo Migrazione e Integrazione, sono ripartiti nell’estate 2016 dopo un anno di stop. Secondo Iom, da luglio 2016 al 25 agosto 2017 i rimpatri volontari sono stati 493. Destinazioni principali: Nigeria, Bangladesh e Ghana. Come si legge sul sito di Senza Asilo, il rischio è che sempre più richiedenti a cui è stato negato l’asilo asilo si ritrovino a lavorare in nero, esposti a ogni tipo di sfruttamento.
Tra poche settimane, quando la raccolta sarà finita, Sane non sa ancora dove andrà: “Probabilmente in Spagna. Un ragazzo che conosco è andato in Almeria, penso di raggiungerlo”. Di una cosa è certo: “Farò di tutto per impedire che mio fratello minore [che vive in Senegal] passi quello che ho passato io”.
La realizzazione di questo reportage è stata supportata da Hostwriter-Agorà Project.
Foto di copertina: Fotomovimiento (CC BY-NC-ND 2.0).