L’esito delle elezioni parlamentari e presidenziali in Turchia del 2023 ha ribaltato le previsioni formulate nei mesi precedenti da più parti in ordine alla prosecuzione della parabola politica di Erdogan. Fonti autorevoli ritenevano che la forza del presidente turco avesse subito un significativo declino nel corso degli ultimi anni a causa delle difficoltà economiche che hanno sempre più investito di recente il paese anatolico, con una inversione del percorso di forte crescita caratteristico del periodo precedente, ed in particolare a seguito della evidente inadeguatezza degli apparati pubblici a fronteggiare le tragiche conseguenze del terremoto verificatosi nel mese di febbraio che ha colpito l’area meridionale della Turchia e le regioni settentrionali della Siria. E si riteneva che tale declino non fosse stato efficacemente compensato dalle prove muscolari esibite nei confronti della minoranza curda e neanche dall’indubbio protagonismo assunto dalla Turchia nello scacchiere regionale ed in tanti scenari internazionali.
Per contrastare la rielezione di Erdogan alla presidenza della repubblica turca si era creato un vasto fronte a sostegno di Kemal Kılıçdaroğlu, sulla cui figura sarebbero dovuti confluire i voti della coalizione politica tra i kemalisti ed il partito nazionalista centrista İyi Parti, nonché l’appoggio esterno del partito dei Verdi e di Sinistra (che raccoglieva in particolare i consensi delle forze politiche curde). Già l’esito del primo turno vedeva un sostanziale vantaggio di Erdogan (contrariamente alle previsioni) ed un rafforzamento del suo schieramento (che comprende anche l’MHP, ovvero il partito nazionalista di estrema destra dei Lupi Grigi), pur non raggiungendo il presidente uscente la maggioranza dei suffragi e rendendosi necessario il ballottaggio per l’elezione del Presidente.
Kılıçdaroğlu ha tentato di guadagnare nel secondo turno di consultazioni l’appoggio del candidato della destra nazionalista arrivato terzo, sposando tesi xenofobe (soprattutto nei confronti dei profughi giunti negli anni in Turchia dalla Siria) con toni rudi ed estremi, senza riuscire a capovolgere l’esito elettorale ed anzi perdendo molti consensi nelle zone curde del Sud Est dell’Anatolia (nelle quali si è registrato un significativo aumento dell’astensionismo rispetto a quanto registrato nel primo turno). Nel complesso si può dire che – soprattutto negli ultimi tornanti – la campagna elettorale è stata connotata da slogan diretti contro gli stranieri (profughi e migranti) presenti nel paese.
Erdogan continua a guidare il paese, nonostante le difficoltà e le limitazioni delle libertà democratiche che progressivamente sono aumentate nel corso dei suoi lunghi anni di governo.
Erdogan è anche l’esponente politico e governativo protagonista dell’accordo sulle politiche migratorie del 2016 con l’Unione Europea, accordo firmato allorché decine di migliaia di persone tentavano di raggiungere dalla costa turca le isole greche con imbarcazioni precarie e sovraccariche: percorsi segnati da naufragi e da centinaia di morti. Resta nel ricordo collettivo l’immagine del corpicino senza vita di Aylan Kurdi, un bambino di pochi anni con il volto nella sabbia sulla spiaggia di Bodrum.
Poco dopo la sua morte la repubblica turca e l’Unione Europea siglarono un patto che portò ad una drastica riduzione del numero delle persone che tentavano di raggiungere i territori dell’Unione attraverso la rotta mediterranea orientale, considerando che tra l’estate del 2015 e i primi mesi del 2016, 850.000 migranti avevano rischiato la vita per raggiungere le isole greche e che adesso poche migliaia di persone ogni anno, provenienti dalla Turchia, approdano nell’Unione Europea. In cambio della esternalizzazione dei controlli e delle frontiere, l’Unione ha cominciato ad elargire enormi finanziamenti allo Stato turco. I turchi negli ultimi anni – a partire dalla deflagrazione del conflitto siriano – hanno dato ospitalità a circa quattro milioni di rifugiati, ovvero il triplo delle persone accolte nello stesso arco di tempo nell’intero territorio Ue. L’accordo sino ad ora è stato sempre rinnovato ed appare destinato a rinnovarsi ulteriormente.
La Turchia è anche territorio di passaggio di persone provenienti soprattutto dal Corno d’Africa, dall’Afghanistan e dal Pakistan.
Coloro che riescono – nonostante tutto, e si tratta di migliaia di persone – ad attraversare la Turchia ed a giungere in Grecia si trovano a vivere in una sorta di limbo in attesa di essere riconosciuti come rifugiati, nei campi costruiti nelle isole greche del mare Egeo, che, lungi da potersi definire sistemazioni di emergenza, costringono a vivere tra mura e fili spinati migliaia di persone in condizioni inumane di sovraffollamento e miseria.
Il rapporto tra l’Unione Europea e la Turchia non costituisce un fatto isolato. Le politiche dell’Unione e dei suoi stati membri mirano ad allontanare per quanto possibile la pressione migratoria dalle proprie frontiere, ed uno dei sistemi ritenuti più efficaci è quello degli accordi con i paesi di provenienza e di transito delle persone che si muovono verso l’Europa.
L’esternalizzazione del controllo delle frontiere e del diritto dei rifugiati è l’insieme delle azioni economiche, giuridiche, militari, prevalentemente extraterritoriali, volte ad impedire che i migranti (e, tra essi, i richiedenti asilo) possano entrare nel territorio di uno Stato e quindi di usufruire delle garanzie – anche giurisdizionali – previste. A livello europeo nel corso del tempo sono state articolate proposte riguardanti la creazione di centri di accoglienza al di fuori dei territori degli Stati membri dell’Unione e di zone di protezione temporanea di tipo regionale, in cui verificare la fondatezza delle richieste di protezione internazionale al fine, eventuale e successivo, di permettere l’ingresso nel singolo Paese europeo delle persone considerate ammissibili ad una forma di protezione. Con riferimento alle politiche di esternalizzazione delle frontiere non può non ricordarsi il trattato Italia-Libia siglato a Bengasi nell’agosto 2008, che prevedeva espressamente aiuti e finanziamenti italiani ed europei finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare sul territorio libico, nonché la collaborazione italiana e libica negli Stati di origine degli stranieri per scoraggiare l’emigrazione. Sulla base di questo accordo, e degli accordi siglati successivamente, vengono da anni forniti dall’Italia finanziamenti e appoggi anche alla Guardia costiera libica, nonostante fonti documentate ed autorevoli ne abbiano svelato la contiguità, ed in alcuni casi la complicità, con le terribili e sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate in Libia nei confronti dei migranti.
In seguito al cosiddetto Processo di Khartoum del 2014, si sono previsti contributi economici in favore di alcuni stati africani, camuffati con l’obiettivo di migliorare le vie legali per le persone che necessitano di una protezione internazionale, e si sono incrementate le intese per rendere più efficaci le attività di rimpatrio dei cittadini dei Paesi terzi in condizione irregolare, senza consentire l’apertura di nuovi canali di ingresso regolari.
La situazione post elettorale in Turchia (e la stabilità che ne consegue) ragionevolmente condurrà a una prosecuzione e a un’implementazione delle politiche sinora seguite dagli stati europei in tema di migrazione, proprio nel momento in cui nell’Unione si mira a rafforzare le frontiere e ad incrementare i rimpatri dei migranti giudicati irregolari anche verso i paesi di transito. Il tutto a prescindere dal rispetto dei diritti delle persone nei luoghi verso cui queste sono respinte con un arretramento rispetto ai principi di non respingimento e di protezione internazionale che dovrebbero caratterizzare i moderni stati di diritto.
Foto copertina via Twitter/Sea Watch Italy