“Fino a un mese e mezzo fa lavoravo in una scuola elementare privata a Chernihiv e progettavo di cambiare casa entro il prossimo anno. Insomma avevo una vita normale con la mia famiglia. Già dalla fine di dicembre si parlava delle truppe russe che si stavano ammassando lungo i confini ucraini ma nessuno avrebbe mai pensato a un’invasione del nostro territorio. Si pensava a un’azione dimostrativa, di forza, fatta per spaventare, ma nessuno immaginava che avremmo avuto la guerra a casa nostra.”
Invece il 24 febbraio è cambiato tutto
Il 24 febbraio doveva essere una giornata come le altre, con i bambini da preparare per la scuola, per poi andare al lavoro. Noi di solito ci alziamo alle sette ma quella mattina il telefono ha squillato prima: ho risposto ed era un’amica che continuava a urlare, diceva che bisognava prepararsi a scappare perché i russi stavano entrando in Ucraina, insomma la guerra era iniziata. Io non riuscivo a crederci e allora le ho detto che avrei chiamato un mio amico militare per chiedere a lui, ma nel frattempo le notizie sulla guerra viaggiavano in rete persino su Viber, nella chat della scuola di mio figlio. Tre minuti dopo è suonata la sirena antiaerea, la prima che abbia mai sentito in vita mia: non so nemmeno descrivere cosa ho provato, ero terrorizzata, all’improvviso bisognava trovare riparo sottoterra. Il problema è che a Chernihiv non esistono dei veri bunker, ci sono solo gli scantinati dei palazzi, e non è certo che siano una reale protezione se cade una bomba sull’edificio.
Cosa hai fatto a quel punto?
Prima ho chiamato mia madre e mia sorella, che vivono in due zone diverse della città, e abbiamo deciso che la mamma sarebbe venuta a stare da me, per essere insieme qualunque decisione fosse stata presa. Le ho detto di mettere insieme lo stretto necessario e di lasciare casa, ma gli autobus non passavano più, e lei è stata costretta a camminare a piedi per otto chilometri sotto il suono delle sirene. Intanto gli amici al telefono e via chat dicevano che bisognava andarsene, ma molti non avevano un mezzo. E comunque io continuavo a non credere che fosse cominciata davvero la guerra, la mia mente lo rifiutava. Non ho mai pensato che i russi potessero colpire la popolazione civile, al massimo qualche obiettivo militare e nulla di più.
Quando è arrivata mia madre abbiamo cercato di capire cosa fosse meglio fare, se dovessimo comprare del cibo, fare delle scorte. Era una follia, la gente era terrorizzata e non sapeva come comportarsi. All’inizio noi siamo rimaste calme perché avevamo da mangiare, dopo un paio di giorni i viveri hanno cominciato a scarseggiare; i supermercati si svuotavano e non venivano più riforniti. Allora mi è preso il panico.
Quando hai deciso di “trasferirti” nello scantinato?
Il primo giorno è trascorso nell’indecisione totale, ma dal secondo i russi hanno cominciato a bersagliare la città, inizialmente con i mezzi di terra, e dal terzo giorno anche con gli aerei. Non avevamo altra scelta che scendere nello scantinato, anche se lo stabile era vecchio e lì sotto le condizioni erano pessime, fra muffa e polvere. Il mio quartiere è stato il primo ad essere attaccato, perché si trova alla periferia nord. Dopo i primi bombardamenti sono cominciati anche i combattimenti per strada, e la cosa che mi ha fatto più male è che i bambini in poco tempo avevano imparato a distinguere i suoni di quei colpi, la loro provenienza e il mezzo che li provocava.
Quando dovevamo cucinare o prendere qualcosa da casa, io e mia madre facevamo a turno in modo che i miei figli potessero restare sempre al sicuro in cantina con me o con lei. Per cucinare ci potevano volere anche cinque, sei ore, perché ogni volta che suonava l’allarme bisognava spegnere i fornelli, lasciare tutto e tornare giù. Solo ogni due, tre giorni riportavo su i miei figli per poterli lavare, cercando di fare il più in fretta possibile. Questo all’inizio, quando avevamo ancora il gas e l’acqua.
Poi cosa è successo?
Il sindaco ha fatto sapere che nessuna abitazione, nemmeno ai piani bassi, poteva essere un luogo sicuro, perché stavano intensificando gli attacchi. Dalle finestrelle della cantina potevamo vedere i carri armati ucraini che rispondevano al fuoco nemico, e questo ci faceva capire che i russi erano molto vicini alla città. La prima volta che hanno colpito il palazzo di fianco al mio con una bomba io ero in casa, al quinto piano, e le vibrazioni sono state talmente forti che ho pensato che sarebbe crollato tutto. Ho imparato a capire che dal rumore dell’aereo all’esplosione della bomba passano circa dieci secondi: è questo il tempo che hai per prendere qualunque decisione, senza sapere se sarà quella che salverà la vita dei tuoi figli.
All’inizio c’erano persone che nonostante la sirena restavano in fila davanti ai supermercati, o alla farmacia. Molti sono morti così, in attesa di comprare un po’ di cibo o medicine.
Quando avete cominciato a pianificare di lasciare Chernihiv?
I combattimenti per strada duravano 24 ore al giorno, non c’erano tregue, tranne una mattina, dopo diversi giorni, in cui c’è stato nuovamente il silenzio. È stato allora che mia madre si è ricordata che aveva dimenticato i suoi documenti a casa, quando era venuta da me in tutta fretta il primo giorno di guerra. E quindi dovevamo trovare il modo di recuperarli il prima possibile. Non so come ma abbiamo trovato un taxi che lavorava ancora, che è riuscito a portarla non proprio fino a casa, ma a metà strada, e le ha comunque risparmiato quattro chilometri. Quello stesso giorno sono arrivati quattro aerei insieme e hanno cominciato a sganciare bombe su tutta la città. Ma il giorno dopo ho ricevuto la telefonata di mia sorella che mi diceva di aver trovato un mezzo per andare via, e che aveva un solo posto libero in più: ho deciso che mia madre doveva andarsene con lei, ma non c’era modo di convincerla, piangeva perché non poteva pensare di lasciare me e i suoi nipoti sotto le bombe mentre lei tentava di salvarsi. Allora le ho detto che più persone sarebbero rimaste insieme e meno possibilità avremmo avuto di scappare. Alla fine si è convinta, e mentre usciva da casa mia, un aereo russo è stato abbattuto dalle forze ucraine ed è precipitato sul garage dove l’auto che li avrebbe portati via era parcheggiata fino a pochi minuti prima. È successo tutto davanti ai miei occhi.
Sono riuscite a partire alla fine?
Si, anche se hanno dovuto aspettare molte ore. Prima che i russi lo facessero saltare, a Chernihiv c’era un ponte da attraversare per uscire dal centro abitato, e tutti quelli che cercavano di andarsene dovevano oltrepassarlo, ma spesso restava chiuso a causa degli intensi combattimenti. Anche mia madre e mia sorella lo hanno trovato chiuso e hanno atteso in una strada poco lontana che i nostri militari dessero nuovamente il via libera alle auto. Ci siamo sentite quando sono arrivate a Kyiv, era il 7 marzo. Mia sorella, che ha una bimba di sei mesi, mi ha detto che per tutto il viaggio ha pensato che non ce l’avrebbero fatta, perché da Chernihiv non è mai stato aperto un vero corridoio umanitario per tutto il mese di assedio, e ogni tentativo di evacuazione è sempre stato un rischio enorme. Molti sono stati ammazzati mentre provavano ad andare via, anche quelli che scrivevano “bambini” sulle auto.
Sei rimasta sola con i tuoi bimbi, ora toccava a te tentare di andare via
Tramite Instagram ho trovato una persona che aveva due o tre minivan e voleva metterli a disposizione per evacuare la gente, ma bisognava arrivare nel punto concordato entro trenta, quaranta minuti al massimo. Chi era incinta aveva la precedenza, poi sarebbero salite le donne con i bimbi più piccoli e infine gli altri, finché c’erano posti. Quindi nessuno, ammesso che riuscisse ad arrivare in tempo, sapeva se sarebbe effettivamente partito.
Per arrivare al posto dell’appuntamento bisognava percorrere quattro chilometri a piedi, in mezzo agli spari e con il rischio di nuovi bombardamenti, così ho deciso che non potevo portare i bambini a morire. Mi sembrava più sicuro rimanere sottoterra, ma era come se stessi scegliendo quello che poteva diventare il nostro cimitero.
Chiedere aiuto diventava sempre più difficile perché eravamo quasi sempre senza corrente e senza connessione, il telefono si scaricava e non sempre era possibile ricaricarlo. Un giorno sono riuscita a sentire un amico di Kyiv che evacuava i civili da Irpin, e quando gli ho spiegato la situazione, mi ha detto che sarebbe venuto a prendermi a Chernihiv. Aveva otto, al massimo nove posti, e allora ho chiamato alcune amiche per dirgli di questa possibilità, ma alcune di loro non volevano lasciare i mariti. Alla fine ne ho convinte due. L’appuntamento con lui era dopo il ponte, perché in città non lo facevano entrare, così quella mattina abbiamo cominciato a camminare. Quando siamo arrivati al posto di blocco i militari mi hanno detto che dovevamo tornare indietro perché era in corso un attacco molto forte. È stato orribile perché dovevamo ripercorrere quella strada pericolosa mentre dall’altra parte c’era il mio amico che aspettava, e io non avevo connessione né batteria per avvisarlo. La speranza di andarsene era svanita. Sono rimata insieme alla mia amica Svetlana perché abbiamo deciso che avremmo riprovato l’indomani, se lui ci avesse aspettato, e siamo andate a casa sua che era più vicina. Era l’8 marzo, la festa della donna, ma certo noi non ci pensavamo, anche se è una ricorrenza molto sentita. Invece ad un posto di blocco un soldato ucraino ci ha fatto gli auguri.
Da Svetlana abbiamo dormito in casa per la prima volta dall’inizio della guerra, e dopo tutti quei giorni è stata una sensazione bellissima. Quella sera sono riuscita a mettermi in contatto con il mio amico di Kyiv: era vivo ma era tornato indietro di un’ottantina di km dal ponte perché gli scontri erano molto forti, aveva trovato un posto dove dormire e la mattina dopo si sarebbe riavvicinato alla città. Come il giorno prima, abbiamo cominciato a camminare fino al ponte, ma i militari ci hanno detto che la situazione era la stessa, e non potevano farci passare perché saremmo morti tutti, noi e i bambini. Questa volta il mio amico non aveva il carburante sufficiente per rifare un terzo tentativo, altrimenti non sarebbe riuscito a tornare a Kyiev. Per noi non c’erano più speranze, non riesco a descrivere quello che ho provato, e pensare che una persona era arrivata fin lì per salvarci, e doveva tornare indietro senza di noi. Ho guardato i bambini e non sapevo quanto saremmo rimasti ancora in vita.
Cosa è successo dopo?
Quella notte sono rimasta da Svetlana, ma il giorno dopo sono tornata a casa perché da lei c’erano 13 persone e lo spazio era davvero poco. Siamo rientrati nel sotterraneo ma c’era troppa polvere, muffa, i bambini non smettevano di tossire e così ho deciso di dormire in casa, fra le pareti portanti, sul pavimento e lontano dalle finestre. La sera per quattro, cinque ore c’è stata una calma insolita che spaventava ancora di più, poi verso mezzanotte ho cominciato a sentire gli aerei: ho svegliato i bambini il più veloce possibile e gli ho gridato di scendere giù per le scale fino allo scantinato. Io sono rimasta in casa ancora un attimo per prendere qualcosa da mangiare, dei vestiti, delle coperte, ma dopo pochi secondi hanno cominciato a bombardare e noi eravamo ancora per le scale e non sapevamo se saremmo riusciti a metterci in salvo. Poi ho saputo che la mattina dopo sarebbero arrivati dei minivan per evacuare dei civili, e allora ho richiamato Svetlana che a quel punto non voleva più partire, perché era terrorizzata al pensiero di riattraversare la città. Alla fine il fratello si è offerto di accompagnarla in macchina, mentre io sono riuscita a trovare un taxi. Al punto di incontro ci saranno state più di 150 persone, ma ci hanno detto che sarebbero arrivati solo tre minivan. Le unità di difesa territoriale ci dicevano che era una pazzia tentare di uscire, perché i russi ci avrebbero certamente colpiti. Mentre aspettavamo ha cominciato a nevicare e circa la metà delle persone hanno deciso di tornare a casa. Poi finalmente questi volontari con i mezzi sono arrivati, e hanno detto che chi era rimasto ad aspettare sarebbe salito. Eravamo uno sull’altro, ma nessuno è rimasto a terra.
Con la macchina da Chernihiv a Kyiv ci vuole normalmente un’ora e mezza, noi ci abbiamo messo più di cinque ore perché abbiamo evitato le strade principali più rischiose e ci siamo addentrati in mezzo ai boschi. Nella capitale ci hanno fatto scendere in stazione, dove c’erano altri volontari che si prendevano cura dei bambini, che ci chiedevano dove volessimo andare e ci davano le indicazioni per i treni. Io ho detto che volevo raggiungere Lviv. Sono salita sul treno con i bambini e la gente era ovunque, anche per terra, ma non ci importava perché eravamo salvi.
Hai lasciato dei parenti a Chernihiv?
Mio padre è rimasto lì, e mi ha detto che due giorni dopo che siamo andati via la situazione è peggiorata ulteriormente. Sono rimasti senza più luce, acqua, riscaldamento. La città è distrutta. Le persone uccise sono state seppellite nei cortili delle case e dei palazzi, perché persino il cimitero era diventato un bersaglio. Ora che i russi sono stati respinti il servizio comunale riesce a far arrivare l’acqua a domicilio con le taniche, dieci litri a persona. Dopo il nostro viaggio ho saputo che un convoglio di civili è stato preso di mira e ci sono state altre vittime.
Come vivi oggi in una città che non è la tua, ma in maggiori condizioni di sicurezza?
La paura resta, e anche la sensazione di spaesamento, di tensione perenne come se dovessi affrontare una nuova crisi da un momento all’altro. Qui a Lviv, la prima volta che sono entrata in un negozio, mi è sembrato incredibile trovare gli scaffali pieni e l’istinto di fare provviste, scorte di latte, uova, è stata molto forte, perché sono ancora terrorizzata dal fatto che i miei figli restino senza mangiare. Ma lasciare la mia casa è stato difficile, e anche se qui sono stata accolta, mi sento sempre un’ospite. Ancora peggio sarebbe stato lasciare l’Ucraina. Svetlana l’ha fatto, ora si trova in Belgio e i suoi bambini hanno già ricominciato la scuola. Mia mamma e mia sorella invece sono in campagna, vicino a Ivano-Frankivsk. Un giorno non lontano saremo di nuovo tutti nella nostra Chernihiv.
Immagine di copertina via Twitter/Chora Media