Alina è arrivata al centro di prima assistenza di Zaporizhia con la madre, il patrigno e il suo topo che ora respira a fatica per il caldo e la paura, e mentre cerca di farlo bere da un tappo di plastica che ha riempito d’acqua, racconta che arriva da Mariupol, la città sotto assedio ridotta in macerie.
“Ho 14 anni – dice – sono nata e cresciuta a Mariupol, e questa città mi ha dato tutto: i miei amici, i miei genitori, e pure il mio amato topo.”
Cosa ricordi dell’inizio della guerra?
La guerra è cominciata quando nessuno se l’aspettava, in un modo che nessuno poteva immaginare. Qualche giorno prima che iniziasse, a scuola hanno cominciato a dirci che dovevamo sempre essere pronti per un’evacuazione, in caso di pericolo, e che se fosse successo qualcosa avremmo dovuto lasciare la classe e andare nel sotterraneo. Ma noi non prendevamo sul serio quello che sentivamo, anzi ci scherzavamo sopra. Quando poi quella mattina abbiamo sentito prima le sirene e poi le esplosioni, abbiamo capito che non c’era nulla da scherzare. Ma a quel punto nessuno ne aveva più voglia.
I primi giorni continuavamo comunque a pensare che non sarebbe successo niente di grave, in fondo gli spari e i colpi che arrivavano dalla periferia della città si erano sentiti pure nel 2014, ma all’inizio era impossibile credere che di lì a poco la nostra vita sarebbe cambiata completamente e non sarebbe mai più stata quella di prima.
Che cosa è successo dopo i primi giorni? Quando la situazione ha cominciato a peggiorare?
Fino al 2 marzo abbiamo avuto una vita quasi normale, perché c’erano ancora acqua, gas, luce, internet. Poi non abbiamo più avuto la connessione e poco dopo nemmeno la corrente. Così abbiamo cominciato a risparmiare la carica del cellulare, ma riuscivamo ancora a cucinare in casa e la vita non era poi così diversa da quella di prima. Ma la situazione è peggiorata giorno dopo giorno: il 10 marzo hanno staccato il gas, e per cucinare dovevamo uscire fuori in cortile e accendere il fuoco. Le esplosioni si facevano sempre più vicine e più forti, e il giorno dopo sono arrivati i primi razzi anche nel nostro quartiere e nel cortile di casa. Il mio patrigno è rimasto ferito mentre cercava di cucinare qualcosa all’aperto, e anche la nostra vicina è stata colpita al petto da alcuni frammenti. Io ero in casa, nel mio letto, e quando ho sentito il boato sono uscita fuori e ho visto il mio patrigno con il braccio che sanguinava, anche se lo aveva avvolto in una benda; c’erano pezzi di vetro e frammenti ovunque, fili elettrici, le finestre e le porte si erano rotte.
Siete comunque rimasti in casa oppure avete deciso di spostarvi in un posto più “sicuro”?
Fino al 17 marzo abbiamo vissuto a casa nostra. Con mia mamma andavamo alla ricerca di cibo, anche perché non bastava mai, dato che ci eravamo riuniti con i vicini ed eravamo un gruppo di dodici persone. I supermercati ormai erano chiusi, e l’unico modo era quello di raggiungere il punto di raccolta e distribuzione degli aiuti umanitari, ma arrivarci era molto pericoloso. Davano il pane e l’acqua e molta gente ogni giorno si radunava lì e aspettava il suo turno per portare a casa qualcosa da mangiare e da bere. Un giorno il centro è stato colpito da un missile e 120 persone sono rimaste uccise. Il padre di una mia amica era lì e si è salvato, e ha visto a terra i corpi di tante persone, anche bambini piccoli. I cadaveri restano sempre per strada, perché nessuno può andare a prenderli per portarli via e seppellirli perché è troppo pericoloso. Quando i russi hanno occupato la città, sono finiti anche gli aiuti umanitari, perché quelli che ricevevamo arrivavano solo da parte ucraina. Il 15 marzo non avevamo più niente, né acqua, né luce, né gas.
È stato allora che avete deciso di lasciare Mariupol?
Volevamo andare via da Mariupol ma non avevamo una macchina. All’inizio, quando la situazione non era tanto grave non ci pensavamo, quando poi è diventata terribile nessuno voleva più spostarsi perché si rischiava la vita. Alcune persone che conosco sono andate a piedi fino a Melekyne o Manhush, a circa venti chilometri. Un mio amico è arrivato a Manhush insieme alla madre, hanno camminato per quattro giorni.
Per me è cambiato tutto il 17 marzo, quando una bomba ha colpito il palazzo di fianco al nostro e nell’esplosione è morta la mia migliore amica, insieme alla sorella maggiore e al papà, e altri due vicini di casa. La mamma è rimasta ferita ma si è salvata, sono riusciti a portarla in ospedale a Berdyansk dove è stata operata. Da quel giorno ci siamo spostati in uno scantinato. Io mi trovavo nella parte più sicura con altri bambini e la famiglia della mia amica Valeria, che si erano nascosti lì sin dal secondo giorno di guerra. Forse avevano preso la situazione più seriamente di quanto avessimo fatto noi all’inizio. Lì dentro eravamo al buio e l’unica fonte di luce erano le candele, finché non sono finite anche quelle. Siamo rimasti sottoterra fino al 25 aprile.
Poi cosa è successo?
Altri nostri vicini sono rimasti senza casa per l’ennesimo bombardamento, e così hanno deciso di muoversi a piedi verso Yalta, un’altra piccola città che si trova a 25 chilometri di Mariupol: lì hanno trovato il fratello di un’altra donna che abita nel nostro quartiere e hanno deciso insieme di tornare in macchina per portare via anche lei. Così sono arrivati e ci hanno promesso che sarebbero tornati anche per noi, e così è stato. Il 25 aprile ci sono riusciti: hanno preso me, mia madre e il mio patrigno e ci hanno portato a Melekyne. Ci abbiamo impiegato più di un’ora perché la strada era in condizioni disastrose. Prima di uscire dalla città, in periferia, siamo stati fermati dai russi a un posto di blocco: ci hanno chiesto chi fossimo, dove stessimo andando, e gli uomini sono stati obbligati a spogliarsi perché dovevano controllare se avessero tatuaggi o se portassero sulle braccia qualche segno lasciato da un fucile. Poi ci hanno fatto passare, e dopo aver raggiunto Melekyne ci siamo diretti a Melitopol, dove siamo rimasti tre giorni; poi siamo arrivati qui a Zaporizhia, finalmente di nuovo in territorio ucraino.
Cosa farete ora?
Per il momento abbiamo deciso di andare fino a Krasnohrad, fra Charkiv e Poltava, dove vivono i parenti del mio patrigno, sua madre e sua sorella maggiore. Poi l’idea di mia mamma è quella di portarmi all’estero, perché a casa nostra non possiamo più tornare, è impossibile vivere lì, e lei vuole che continui a studiare e che possa avere una vita felice come ogni bambino.
Qual è il ricordo che ti resta della tua città?
Mariupol non c’è più, è una città fantasma. Hanno distrutto persino l’ospedale dove eravamo andati per il mio patrigno, e dove si combatteva per salvare ogni vita umana, anche senza farmaci, senza più posto per mettere le persone che arrivavano continuamente. Tanti sono andati a cercare aiuto lì e hanno trovato la morte. L’odore non si può dimenticare, quello del fumo che non ti fa respirare bene, della plastica bruciata, dei cadaveri. Non si può spiegare. Di Mariupol non c’è un pezzo che sia ancora in piedi, le è rimasto solo il nome e la vita di noi sopravvissuti che la ricordiamo per come era prima della guerra.