Capitano, presidente, eroe. Ecco tre appellativi che potrebbero stare a pennello a Chamseddine Bourassine, presidente della Rete Nazionale della Pesca Artigianale nonché dell’associazione di Zarzis “Le Pêcheur” pour le Développement et l’Environnement, nominata al Premio Nobel per la Pace 2018 per il continuo impegno nel salvare vite nel Mediterraneo. I pescatori di Zarzis infatti, lavorando nel mare aperto tra la Libia e la Sicilia, si trovano da più di quindici anni in prima linea nei soccorsi a causa della graduale chiusura ermetica delle vie legali per l’Europa, che ha avuto come conseguenza l’inizio di traversate con mezzi sempre più di fortuna.
I frutti della rivoluzione
Sebbene la legge del mare abbia sempre prevalso per Chamseddine e i pescatori di Zarzis, prima della rivoluzione tunisina del 2011 i pescatori venivano continuamente minacciati dalla polizia del regime di Ben Ali, stretto collaboratore sia dell’Italia che dell’Unione europea in materia di controlli alle frontiere. “Ci dicevano di lasciarli in mare e che ci avrebbero messo tutti in prigione”, spiegava Bourassine, “ma un uomo in mare è un uomo morto, e alla polizia abbiamo sempre risposto che piuttosto saremmo andati in prigione”. In prigione finivano anche i cittadini tunisini che tentavano la traversata e che venivano duramente puniti dal loro stesso governo.
Tutto è cambiato con la rivoluzione. Oltre 25.000 tunisini si erano imbarcati verso l’Italia, di cui tanti proprio dalle coste di Zarzis. “Non c’erano più né stato né polizia, era il caos assoluto” ricorda Anis Souei, segretario generale dell’Associazione. Alcuni pescatori non lasciavano le barche nemmeno di notte perché avevano paura che venissero rubate, i più indebitati invece tentavano di venderle, mentre alcuni abitanti di Zarzis, approfittando del vuoto di potere, si improvvisavano ‘agenti di viaggi’, cercando di fare affari sulle spalle degli harraga – parola nel dialetto arabo nord africano per le persone che ‘bruciano’ passaporti e frontiera attraversando il Mediterraneo. Chamseddine Bourassine e i suoi colleghi, invece, hanno stretto un patto morale, stabilendo di non vendere le proprie barche per la harga. Si sono rimboccati le maniche e hanno fondato un’associazione per migliorare le condizioni di lavoro del settore, per sensibilizzare sulla preservazione dell’ambiente – condizione imprescindibile per la pesca – e dare una possibilità di futuro ai giovani.
E proprio verso i più giovani, quelli che più continuano a soffrire dell’alto tasso di disoccupazione, l’associazione ha dedicato diverse campagne di sensibilizzazione. “Andiamo nelle scuole per raccontare quello che vediamo e mostriamo ai ragazzi le foto dei corpi che troviamo in mare, perché si rendano conto del reale pericolo della traversata”, racconta Anis. Inoltre hanno organizzato formazioni di meccanica, riparazione delle reti e pesca subacquea, collaborando anche con diversi progetti internazionali, come NEMO, organizzato dal CIHEAM-Bari e finanziato dalla Cooperazione Italiana. Proprio all’interno di questo progetto è nato il museo di Zarzis della pesca artigianale, dove tra nodi e anforette per la pesca del polipo, c’è una mostra fotografica dei salvataggi in mare intitolata “Gli eroi anonimi di Zarzis”.
La guerra civile libica
Con l’inasprirsi della guerra civile libica e l’inizio di veri e propri traffici di esseri umani, le frontiere marittime si sono trasformate in zone al di fuori della legge.
“I pescatori tunisini vengono regolarmente rapiti dalle milizie o dalle autorità libiche” diceva Bourassine. Queste, una volta sequestrata la barca e rubato il materiale tecnico, chiedevano alle autorità tunisine un riscatto per il rilascio, cosa peraltro successa anche a pescatori siciliani. Sebbene le acque di fronte alla Libia siano le più ricche, soprattutto per il gambero rosso, e per anni siano state zone di pesca per siciliani, tunisini, libici e anche egiziani, ad oggi i pescatori di Zarzis si sono visti obbligati a lasciare l’eldorado dei tonni rossi e dei gamberi rossi, per andare più a ovest.
“Io pesco nelle zone della rotta delle migrazioni, quindi è possibile che veda migranti ogni volta che esco” diceva Bourassine, indicando sul monitor della sala comandi del suo peschereccio l’est di Lampedusa, durante le riprese del film.
Con scarso sostegno delle guardie costiere tunisine, a cui non era permesso operare oltre le proprie acque territoriali, i pescatori per anni si sono barcamenati tra il lavoro e la responsabilità di soccorrere le persone in difficoltà che, con l’avanzare del conflitto in Libia, partivano su imbarcazioni sempre più pericolose.
“Ma quando in mare vedi 100 o 120 persone cosa fai?” si chiede Slaheddine Mcharek, anche lui membro dell’Associazione, “pensi solo a salvare loro la vita, ma non è facile”. Chi ha visto un’operazione di soccorso in mare infatti può immaginare i pericoli di organizzare un trasbordo su un piccolo peschereccio che non metta a repentaglio la stabilità della barca, soprattutto quando ci sono persone che non sanno nuotare. Allo stesso tempo non pescare significa non lavorare e perdere soldi sia per il capitano che per l’equipaggio.
ONG e salvataggio
Quando nell’estate del 2015 le navi di ricerca e soccorso delle ONG hanno cominciato ad operare nel Mediterraneo, Chamseddine e tutti i pescatori si sono sentiti sollevati, perché le loro barche non erano attrezzate per centinaia di persone e le autorità tunisine post-rivoluzionarie non avevano i mezzi per aiutarli. Quell’estate, l’allora direttore di Medici Senza Frontiere Foued Gammoudi organizzò una formazione di primo soccorso in mare per sostenere i pescatori. Dopo questa formazione MSF fornì all’associazione kit di pronto soccorso, giubbotti e zattere di salvataggio per poter assistere meglio i rifugiati in mare. L’ONG ha anche dato ai pescatori le traduzioni in italiano e inglese dei messaggi di soccorso e di tutti i numeri collegati al Centro di coordinamento per il soccorso marittimo (MRCC) a Roma, che coordina i salvataggi tra le imbarcazioni nei paraggi pronte ad intervenire, fossero mercantili, navi delle ONG, imbarcazioni militari o della guardia costiera, e quelle dei pescatori di entrambe le sponde del mare. Da quel momento i pescatori potevano coordinarsi a livello internazionale e aspettare che le navi più grandi arrivassero, per poi riprendere il loro lavoro. Solo una settimana dopo la formazione, Gammoudi andò a congratularsi con Chamseddine al porto di Zarzis per aver collaborato con la nave Bourbon-Argos di MSF nel salvataggio di 550 persone.
Oltre al primo soccorso, MSF ha offerto ai membri dell’associazione una formazione sulla gestione dei cadaveri, fornendo sacchi mortuari, disinfettanti e guanti. C’è stato un periodo durato vari mesi, prima dell’arrivo delle ONG, in cui i pescatori avevano quasi la certezza di vedere dei morti in mare. Nell’assenza di altre imbarcazioni in prossimità della Libia, pronte ad aiutare barche in difficoltà, i naufragi non facevano che aumentare. Proprio come sta succedendo in queste settimane, durante le quali il tasso di mortalità in proporzione agli arrivi in Italia è cresciuto del 5,6%. Dal 26 agosto, nessuna ONG ha operato in SAR libica, e questo a causa delle politiche anti-migranti di Salvini e dei suoi omologhi europei.
Criminalizzazione della solidarietà
La situazione però è peggiorata di nuovo nell’estate del 2017, quando l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti stringeva accordi con le milizie e la guardia costiera libica per bloccare i rifugiati nei centri di detenzione in Libia, mentre approvava leggi che criminalizzano e limitano l’attività delle ONG in Italia.
Le campagne di diffamazione contro atti di solidarietà e contro le ONG non hanno fatto altro che versare ancora più benzina sui sentimenti anti-immigrazione che infiammano l’Europa. Nel bel mezzo di questo clima, il 6 agosto 2017, i pescatori di Zarzis si erano trovati in un faccia a faccia con la nave noleggiata da Generazione Identitaria, la C-Star, che attraversava il Mediterraneo per ostacolare le operazioni di soccorso e riportare i migranti in Africa.
Armati di pennarelli rossi, neri e blu, hanno appeso striscioni sulle barche in una mescolanza di arabo, italiano, francese e inglese: “No Racists!”, “Dégage!”, “C-Star: No gasolio? No acqua? No mangiaro?“.
Chamseddine Bourassine, con pesanti occhiaie da cinque giorni di lavoro in mare, appena appresa la notizia ha organizzato un sit-in con tanto di media internazionali al porto di Zarzis. I loro sforzi erano stati incoraggiati dalle reti antirazziste in Sicilia, che a loro volta avevano impedito alla C-Star di attraccare nel porto di Catania solo un paio di giorni prima.
La reazione tunisina dopo l’arresto di Bourassine
Non c’è quindi da sorprendersi se dopo l’arresto di Chamseddine, Salem, Farhat, Lotfi, Ammar e Bachir l’associazione, le famiglie, gli amici e i colleghi hanno riempito tre pullman da Zarzis per protestare davanti all’ambasciata italiana di Tunisi. La Terre Pour Tous, associazione di famiglie di tunisini dispersi, e il Forum economico e sociale (FTDES) si sono uniti alla protesta per chiedere l’immediato rilascio dei pescatori. Una protesta gemella è stata organizzata anche dalla diaspora di Zarzis davanti all’ambasciata italiana a Parigi, mentre reti di pescatori provenienti dal Marocco e dalla Mauritania hanno rilasciato dichiarazioni di sostegno. Il Segretario di Stato tunisino per l’immigrazione, Adel Jarboui, ha esortato le autorità italiane a liberare i pescatori.
Nel frattempo Bourassine racconta dalla prigione al fratello: “stavo solo aiutando delle persone in difficoltà in mare. Lo rifarei”.
In copertina: barca usata per le migrazioni dalla Libia, trascinata dalle correnti alla deriva nel golfo di Zarzis (fotografia di Giulia Bertoluzzi, come tutte le immagini di questo articolo)