Tre cucchiai di cous cous, un mestolo di zuppa con carote, ceci, patate e carne di agnello. Rabia, seduta in un angolo, prepara con cura i piatti, mentre Butania, sua figlia, 22 anni, li porta in tavola insieme a una pentola con lo stufato di piselli, una manciata di datteri, insalata, olive. Tra poco meno di dieci minuti il sole tramonta e si può interrompere, con il pasto serale, il digiuno del mese di Ramadan. “Mangiate con noi? Per favore, mia madre ne sarebbe felice”.
Ci stringiamo al tavolo, dividiamo il poco cibo a disposizione con tutta la famiglia: madre, padre e tre figli. Ci raccontano che sette mesi fa sono partiti da Sfax, in Tunisia e sono arrivati a Lampedusa, con uno di quegli sbarchi definiti “fantasma” perché non vengono intercettati dalla Guardia costiera italiana. Trasferiti subito a Palermo, dopo un percorso di accoglienza finito in fretta, hanno lasciato l’isola per spostarsi a Roma, ma da due mesi la loro casa è una tenda dietro la stazione Tiburtina. Nelle ultime settimane i numeri del campo informale di piazzale Maslax, gestito dagli attivisti di Baobab Experience, sono tornati a crescere. Oggi ci vivono circa 350 persone, sistemate in 120 tende: eritrei, sudanesi, gambiani in maggioranza, ma anche nordafricani, curdi, libici e per la prima volta nell’ultimo mese, alcuni italiani in difficoltà economica.
La storia di Baobab Experience
Un’umanità variegata, che arriva qui col passaparola di amici e parenti. Transitanti, “dublinati”, persone fuoriuscite dal sistema di accoglienza, senza fissa dimora. Tutti sanno di trovare in questo presidio, diventato un punto di riferimento a Roma, un rifugio, un pasto caldo, assistenza sociosanitaria e legale. Nei primi giorni di giugno l’associazione degli attivisti, nata nell’ex centro culturale Baobab dopo la crisi dell’accoglienza, festeggia il terzo anno di attività. Fu nella primavera del 2015, infatti, che per la prima volta nella capitale i cittadini si attivarono per portare solidarietà alle centinaia di persone che dormivano accampate in via Cupa, dopo lo sgombero della baraccopoli di Ponte Mammolo e la chiusura temporanea delle frontiere per il G7, che aveva interrotto il percorso migratorio di tanti transitanti. Ne nacque una delle esperienze più importanti di accoglienza dal basso in Italia, che ha resistito a ben 22 sgomberi e a un rapporto tumultuoso con le amministrazioni capitoline che si sono succedute negli anni.
All’inizio la crisi era sembrata risolversi in pochi giorni, e la giunta Marino aveva annunciato l’apertura di un centro per transitanti nella zona della stazione Tiburtina, sul modello di Milano. Il posto scelto era l’ex albergo per ferrovieri Ferrhotel, fornito in comodato d’uso gratuito da Ferrovie dello Stato. I lavori però non iniziarono mai, per un errore di calcolo sui costi dell’operazione. Nonostante questo, quell’idea è stata ripresa sia dall’amministrazione del Commissario straordinario per Roma, Paolo Tronca, che poi dalla giunta Raggi. Nella realtà, a occuparsi dell’accoglienza sono stati nel tempo gli attivisti e i volontari, coadiuvati in strada da tante organizzazioni come Medici senza frontiere, Medici per i diritti umani, A buon diritto, Alterego, Cir e Radicali Roma.
“In questi anni nonostante siano cambiate diverse giunte qui non è cambiato niente, tutti continuano a promettere un punto di accoglienza per i migranti in transito, ma poi nella pratica non si realizza”, spiega Andrea Costa, coordinatore di Baobab Experience. “Noi chiediamo da tre anni che a Roma ci sia un centro di prima accoglienza, gestito dalle istituzioni e aperto 24 ore su 24. Quest’anno abbiamo registrato un flusso continuo, anche in inverno abbiamo avuto numeri record per Roma, circa 150 migranti che dormivano sotto la neve nell’indifferenza generale. Oggi ci sono 350 persone, ma nelle prossime settimane ci aspettiamo un aumento, perché solo in questo weekend in Italia sono arrivati duemila migranti”, continua Costa. “Inoltre abbiamo anche le persone che erano accolte a Roma con l’emergenza freddo in alcuni centri, come quello di via Ramazzini, e che si sono ritrovate per strada dopo la chiusura del progetto. Ci sono migranti, ci sono stranieri che vivono da anni a Roma e si trovano in condizione di povertà, ci sono anche alcuni italiani. Insomma, abbiamo uno spaccato degli estromessi della società”.
Un’isola in un clima ostile
La maggior parte degli ospiti sono maschi, ma ci sono anche alcune donne (soprattutto eritree) che durante la notte trovano rifugio per dormire in alcuni centri del Comune di Roma. Lo stesso vale per i minori non accompagnati. A preoccupare in questo periodo è il clima politico, poco favorevole all’accoglienza dei migranti: “abbiamo paura, abbiamo subito già molti sgomberi. I volontari con questi numeri fanno un lavoro sempre più duro, la situazione è difficile”, continua Costa, “non abbiamo né acqua né elettricità. In realtà potrei dire che peggio di così non può andare. C’è un clima, a cui hanno contribuito tutti i partiti, che spaventa molto”. Anche a livello locale si guarda con attenzione alla stretta sugli spazi occupati da parte dell’amministrazione di Roma: dal tentativo di sgombero del centro culturale Angelo Mai alla Casa internazionale delle donne. Infine, a mettere in allerta gli attivisti è anche il nuovo piano sgomberi del Comune: una lista resa nota nelle scorse settimane parla di sei immobili occupati, tra cui l’ex fabbrica della Penicillina, che dovrebbero essere evacuati a breve.
Mentre parliamo, un gruppo di ragazzi sudanesi improvvisa una partita a calcio approfittando dell’ultimo spiraglio di luce. “Non ci sono bagni, lavarsi è difficile ma almeno possiamo stare insieme”, dice Butania. “Certo quando abbiamo deciso di venire in Italia non pensavamo di ritrovarci così”. Il viaggio da Sfax lei e la sua famiglia lo hanno pagato 5 mila dinari. “Eravamo cinquanta sul gommone, c’erano anche due bambini di pochi mesi”, racconta, muovendo le mani coperte dai tatuaggi all’henné. “Ho avuto paura di cadere in mare, ma per fortuna siamo arrivati tutti sani e salvi”.
Gli sbarchi dei tunisini in Italia sono in aumento nonostante il calo generale degli arrivi, dovuto alla chiusura della rotta libica. In totale sono arrivate in Italia, dall’inizio dell’anno, 12.105 persone (di cui 7.899 provenienti dalla Libia) cioè l’80 per cento in meno rispetto al 2017 secondo i dati del ministero dell’Interno aggiornati al 28 maggio 2018; quella tunisina è la prima nazionalità fra chi arriva: 2.715 persone dall’inizio dell’anno; seguono eritrei, nigeriani e ivoriani. Butania e i suoi vorrebbero restare nel nostro paese, ma per ora ottenere i documenti è difficile, così come trovare un lavoro. L’unico della famiglia a parlare italiano è Tarek, 12 anni, perché nel periodo dell’accoglienza è andato a scuola. A Roma conoscono alcuni connazionali, che sperano possano dargli una mano.
Una specie di casa
Youness, 35 anni, che viene dal Marocco, ha perso ogni speranza quando a febbraio, dopo aver passato il confine con la Francia dal Monginevro, è stato rimandato indietro secondo il Regolamento Dublino. “Vivevo in Libia, con la mia famiglia, stavamo bene”, racconta, “poi in poco tempo tutto è precipitato. Abbiamo chiuso il ristorante, perché nel paese regnava il caos, e io ho deciso di partire. Volevo andare in Francia, per provare a ricostruirmi una vita, e invece ora sono bloccato in Italia”. Poco lontano dalla sua tenda, Anis sta cuocendo un po’ di carne in un pentolino appoggiato su un fornello da campeggio. Antonella, 47 anni, italiana, da qualche mese vive a piazzale Maslax con lui. Hanno messo su una piccola baracca: due letti, un tavolo e una candela che illumina la stanza. “Ci siamo incontrati mentre chiedevo l’elemosina per strada: hai 20 centesimi? gli ho gridato, lui si è fermato e non ci siamo più lasciati”, racconta con lo sguardo che si apre felice dietro le rughe di un viso segnato dalla sofferenza. “Ho avuto un periodo difficile, sono finita in carcere per rapina, mia madre non ne ha voluto più sapere di me. Da 18 anni vivevo per strada, da sola. Negli ultimi mesi avevo trovato un posto in un centro per l’emergenza freddo, ma quando ha chiuso sono venuta qui. A me basta che stiamo insieme, dove va Anis vado io, con lui sto bene dappertutto”.
Anche Roberto, 45 anni, vive al Baobab da quando il centro di via Ramazzini ha chiuso il progetto per l’emergenza freddo, nonostante gli appelli alla sindaca Raggi. “Non ho famiglia, sono cresciuto in un istituto”, spiega. “Nella vita mi sono sempre dato da fare, ma da quando ho perso il lavoro non so dove andare”. In cambio dell’accoglienza, Roberto dà una mano agli attivisti nella gestione del campo. Infilati i guanti, comincia a tagliare i pomodori nell’area sotto il tendone dove si prepara il pasto comunitario.
Da qualche mese ad aiutare i volontari sono arrivati anche alcuni ragazzi spagnoli della No name Kitchen. Il progetto è nato a febbraio 2017 a Belgrado per portare ristoro ai ragazzi accampati nei locali dell’ex stazione degli autobus. Una volta sgomberato lo stabile, nella primavera dello scorso anno, gli spagnoli hanno proseguito l’attività a Sid, al confine tra Serbia e Croazia, dove centinaia di persone erano rimaste bloccate nel tentativo di passare il confine. Da circa un mese sono a Roma. “Andiamo dove c’è bisogno”, spiega Rafael, operatore sociale. Insieme a Sara, operatrice sociale anche lei, ha preso un mese di ferie per venire a portare supporto ai ragazzi del Baobab. “Facciamo tutto quello che serve: per esempio con il nostro furgone andiamo a prendere ogni giorno l’acqua dalle fontanelle pubbliche, per permettere alle persone di lavarsi, bere, cucinare”. Nel corso della giornata preparano i pasti che vanno a integrare il cibo portato dai volontari: “stasera abbiamo fatto un’insalata, perché inizia a fare caldo e può aiutare a dare sollievo. Cuciniamo quello che abbiamo, stiamo andando in giro per mercati rionali a chiedere di darci la verdura che avanza a fine giornata. Per gli ambulanti è uno spreco, noi possiamo utilizzarla qui”.
La fatica della burocrazia
“Da quando ci siamo trasferiti da via Cupa alla stazione Tiburtina il numero delle persone che portano solidarietà è diminuito, qui siamo meno visibili”, spiega Sonia Manzi, una delle volontarie storiche del Baobab. “Il gruppo base degli attivisti rimane però solido, siamo circa una trentina, alcuni di noi sono qui ogni sera”. La pagina Facebook di Baobab Experience scandisce un calendario delle attività: dalle uscite nei musei alla giornata di distribuzione dei vestiti donati, fino alla lista dei beni necessari. A questo si sono aggiunte nel tempo le attività di presidio e monitoraggio delle situazioni critiche nella capitale. “In tre anni di accoglienza dal basso e attivismo, siamo stati testimoni dell’operato dell’ufficio immigrazione della questura di Roma. Abbiamo riscontrato una serie di prassi illegittime, procedure differenti a seconda dell’operatore presente, malfunzionamenti, lungaggini e mancanza di competenze”, sottolinea il presidente di Baobab Experience, Roberto Viviani. “Quello che emerge è un ufficio pubblico che non funziona e addirittura vessa i propri utenti. Solo che dentro l’ufficio immigrazione si decide della vita delle persone, il cui futuro dipende dal documento che lì vanno a richiedere. Non è esattamente come un disservizio all’ufficio postale”.
Ogni giorno la fila davanti alla questura si forma già dalla sera prima. Stasera Mohammed è arrivato alle 22, determinato a dormire davanti alla porta di ingresso, per avere la sicurezza di essere tra i primi ricevuti domattina. Viene dal Bangladesh e vuole rinnovare il permesso di soggiorno, ma da giorni non ci riesce. Come lui davanti all’ufficio immigrazione ci sono persone che arrivano da Sri Lanka, Egitto, Mali. “Il carico fisico e psicologico che si accumula sui migranti che affrontano la burocrazia della questura è enorme e non è concessa loro nemmeno la possibilità di alzare la voce, di protestare per tutto questo”, dice Viviani. “Subiscono soprusi difficili da comprendere: è la stessa questura che li lascia in un limbo di illegalità, impedendo a molti di loro di poter lavorare legalmente e cercarsi un’abitazione. Noi continueremo a monitorare l’attività dell’ufficio immigrazione di via Patini e a denunciarne le attività illegittime. Così faranno in tante città italiane altre associazioni e collettivi con cui stiamo lavorando su questo tema. Nessun abuso delle istituzioni può essere più tollerato”.
In copertina: dietro la stazione Tiburtina, in piazzale Maslax, le tende che sono il rifugio di tante persone che non hanno un posto dove dormire (foto: Federica Mameli, come tutte le immagini di questo articolo)