L’approvazione della legge che permetterà alla Gran Bretagna di deportare in Rwanda i migranti che arrivano sul suo territorio rappresenta l’ultimo atto della tendenza europea a esternalizzare le politiche migratorie. Sempre più le azioni di contrasto all’arrivo dei migranti si concretizzano in accordi fra stati europei ed extraeuropei per demandare la gestione dei flussi di persone che si mettono in viaggio dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia.
Negli ultimi mesi anche l’Italia è stata protagonista di accordi di cooperazione realizzati in funzione di contenimento dell’immigrazione. Con la Legge 14 del 22 febbraio scorso ha rafforzato la collaborazione con l’Albania, che concede delle aree destinate alla realizzazione di strutture per effettuare procedure di frontiera o rimpatrio dei migranti “non aventi diritto all’ingresso e alla permanenza nel territorio italiano”; con la Tunisia ha siglato un accordo la scorsa estate per il supporto nel blocco delle partenze in mare in cambio di un sostegno all’economia e, pochi giorni fa, alla difesa e alle forze armate, nell’ottica di un piano comune di sicurezza da una sponda all’altra del Mediterraneo.
Prima ancora l’Italia si è impegnata con la Libia, nonostante le documentate violazioni dei diritti umani ripetutamente commesse sui migranti subsahariani nei centri di detenzione del paese.
A Est l’Unione Europea ha preso accordi con la Turchia per tenere a bada i flussi migratori e più a nord la Polonia, che ha aperto ai profughi ucraini dopo il 24 febbraio 2022, ha chiuso ai cittadini siriani, iracheni, curdi e afghani illusi dalla nuova rotta che dalla Bielorussia avrebbe dovuto condurli in Europa, e che invece sono stati abbandonati in una terra di mezzo, spinti verso il confine con la forza e respinti indietro con altrettanta violenza al tentativo di varcare il confine dell’Unione.
Politiche migratorie che hanno ampiamente disatteso il principio del paese sicuro per chi fugge da un conflitto, dalla crisi economica, dalle emergenze climatiche, che hanno fatto si che ad ogni muro si aprisse un nuovo varco, un nuovo traffico, una nuova rotta.
Un flusso al contrario
Gli stessi paesi che esternalizzano i rimpatri chiudono le frontiere e ne appaltano all’esterno la gestione, si sono trovati in anni recenti a gestire un fenomeno migratorio ben più allarmante, nato fra le periferie delle città e la rete: quello che ha portato oltre 53 mila persone a seguire il sedicente Stato Islamico, in Siria e in Iraq, fra il 2014 e il 2019.
Accanto a coloro che sono partiti per imbracciare le armi e un’ideologia radicale, si sono mosse le loro famiglie, in alcuni casi consapevolmente, in altri vittime della coercizione. Una parte di queste donne e bambini nati durante il “califfato” si trova ancora nella Siria autonoma del Nord Est, o Rojava, in campi gestiti dalle Forze democratiche siriane, o Sdf, un’alleanza di milizie a guida curda con arabi e assiri, nata nel 2015 durante la guerra civile.
“Sono inglese, e ho commesso il più grande errore della mia vita a venire qui. Ma allora pensavo solo a seguire mio marito, e oggi mio figlio si trova a pagare le mie colpe”. A. cammina con una stampella, indossa un paio di occhiali da sole, un cappellino da baseball e sotto un velo morbido, nero con disegni rossi. Una gonna ampia, lunga fino ai piedi. È entrata nell’ufficio della direzione civile del campo di Al Roj per chiedere di poter ricaricare il cellulare, dato che quel container è l’unico posto rimasto dove la corrente elettrica funziona ancora, da quando le forze militari turche hanno attaccato con i droni le infrastrutture della regione.
“Farei qualsiasi cosa per tornare a casa, in Inghilterra – dice A. con una voce flebile, mentre scandisce le parole lentamente, passando dall’arabo all’inglese – accetterei anche di essere processata, ma almeno mio figlio avrebbe un futuro. Ha sette anni e non sa leggere, non può andare a scuola, non ha mai visto nulla al di fuori di questo campo. Quando sono stata portata qui ero incinta. Spesso viene bullizzato dai bambini iracheni e siriani, lo chiamano terrorista. Ma lui non ha fatto niente”. A. riferisce di essere in contatto con suo fratello nel Regno Unito, ma che nonostante le pressioni non si riesca ad avere una risposta sul suo rimpatrio, e nemmeno dei soldi che lui potrebbe inviarle.
Le persone trattenute in questi campi non possono ricevere denaro né altri regali. Gli spetta solo un sussidio che basta a malapena per comprare frutta e verdura nelle piccole rivendite del posto, e che spesso viene erogato grazie al contributo di Ong straniere.
“Quando è cominciata la guerra in Ucraina i fondi internazionali per questo posto sono stati tagliati del 50% – spiega M., una delle responsabili civili del campo Al Roj – e noi non riusciamo a fare di più, serve l’aiuto della comunità internazionale per procedere con le identificazioni e per stabilire accordi con i paesi di provenienza, perché questo posto è una bomba a orologeria, soprattutto per i bambini”.
Nel campo vivono oltre 1.600 minori, che secondo le autorità della Siria autonoma continuano a radicalizzarsi ogni giorno accanto alle mamme, per la maggior parte ancora legate all’idea dello Stato Islamico. Per provare a costruire per loro un’alternativa, si è deciso di creare un centro di riabilitazione e prevenzione del terrorismo per i bambini, molto criticato all’estero perché prevedeva la totale separazione dalle madri. Questa regola è stata poi rivista, e i minori restano in contatto con le famiglie tramite telefonate e incontri programmati.
Madina è uzbeka, ha 13 figli e uno di loro è stato trasferito nel centro per minori. “Mi manca – dice – non posso vederlo ma ci sentiamo al telefono. Perché sono qui? Sono anni ce lo chiedono, a ognuna di noi. Abbiamo seguito i nostri mariti, non abbiamo avuto scelta. Tornerei nel mio paese oggi stesso, ma nessuno si è fatto vivo per me e per i miei bambini”.
Dall’Europa in Medio Oriente: foreign fighters e foreign terrorist fighters
Da quando gli stranieri hanno iniziato ad affluire in Medio Oriente per unirsi a parti coinvolte in conflitti armati, è nata la definizione di foreign fighters, che nel caso specifico dell’affiliazione all’Isis sono diventati foreign terrorist fighters, intesi come individui che si recano in uno Stato diverso dal proprio per pianificare atti terroristici e ricevere addestramento anche in relazione a un conflitto armato. Distinguere fra le due tipologie di “migrazione” consente come previsto dal Consiglio di sicurezza dell’Onu di trattare in modo specifico coloro che arrivano dall’estero con intenti terroristici, rispetto a coloro che si spostano per combattere.
Mogli e figli
Emigrate con consapevolezza o costrette a seguire il marito, spesso insieme ai figli, le mogli dei foreign terrorist fighters si ritrovano a vivere, da anni, come detenute in un campo profughi in un tempo sospeso, con i bambini al seguito.
Le Forze Democratiche Siriane si sono sempre dichiarate contrarie al processare gli stranieri e continuano a chiedere l’intervento dei paesi di origine e della comunità internazionale a riguardo, non avendo mezzi né possibilità di procedere giuridicamente. Le persone che si trovano nei campi di detenzione, a differenza di quelle che sono state messe in carcere, non hanno ricevuto nessuna accusa formale e nessun reato a loro carico è mai stato accertato. Nel frattempo una nuova generazione ai margini di qualunque società sta crescendo senza istruzione né servizi sanitari adeguati.
I rimpatri
La stessa Europa che delocalizza e firma accordi per demandare il problema dei migranti in ingresso fuori dalla sua fortezza, è quella che nei casi di dubbia cittadinanza, o di diniego al rimpatrio da parte del soggetto, decide sommessamente di non farsene carico. Ogni Stato ha adottato misure eterogenee e a volte contraddittorie nei confronti di questi cittadini considerati fiancheggiatori di un gruppo terroristico. La maggior parte dei paesi ha dichiarato la propria intenzione di abbandonarli alla giustizia locale. Solo Russia, Kosovo, Kazakhstan e Indonesia si sono fatti carico della maggior parte dei rimpatri delle donne e dei bambini, per ragioni umanitarie e al contempo di sicurezza.
Indulgenza per le mogli del “califfato”?
Inizialmente, fra il 2014 e il 2015, è stato adottato un atteggiamento più indulgente nei confronti delle donne, partendo dal presupposto che non svolgessero ruoli operativi nell’organizzazione dello Stato Islamico. In alcuni casi però anche l’idea della donna ai margini e senza capacità decisionali all’interno del Daesh è stata superata da una sempre maggiore complessità di ruoli, spesso anche attivi, scoperta fra le spose jihadiste. Proprio fra il 2015 e il 2018 infatti, all’interno dell’Isis c’è stato un cambio di posizione rispetto alle donne, che ha consentito loro di lavorare nel Califfato, nella propaganda e nel reclutamento di altre donne e ragazze dall’estero. Oggi è stato accertato che alcune di loro hanno ricevuto un addestramento militare, comunque inquadrato in un contesto terroristico-patriarcale dove le decisioni, anche sui compiti da svolgere, sono sempre rimaste una prerogativa degli uomini.
Uno studio dell’Egmont Institute, think tank belga, ha analizzato le politiche sui rimpatri di Belgio, Germania e Paesi Bassi e ha messo in evidenza come la clemenza iniziale sia stata poi messa da parte, attivando indagini penali al pari degli uomini sin dal momento del rientro.
Nel 2022 almeno 3 mila persone di diversi paesi come Albania, Francia, Kosovo, Olanda, Norvegia, Spagna e Slovacchia sono state rimpatriate, e lo stesso è avvenuto nel 2023 per altre 3.500.
Chi resta
“Chi resta ancora oggi nei campi – racconta M., la responsabile civile di Al Roj – rappresenta i casi più controversi, quelli per i quali nessun paese sceglie di impegnarsi. Spesso c’è una doppia cittadinanza, o la provenienza non può essere accertata con sicurezza. Altre volte sono proprio queste donne a non voler tornare a casa, temendo di non essere accolte dalle famiglie ma discriminate come terroriste.”
Il fatto che i campi si trovino in un’area extra statale, controllata da una forza non governativa, come l’Sdf per la Siria del Nord, complica ulteriormente eventuali accordi diplomatici e non garantisce nel tempo una stabilità, qualunque sia la decisione per il futuro di queste persone.
La tendenza è comunque quella a non attivarsi nei casi più complicati, anzi. Emblematica la storia di Shamima Begum, britannica, arrivata in Siria a 15 anni per seguire l’Isis insieme a due compagne di scuola, e nel 2019, appena rintracciata nel campo di Al Roj, privata della cittadinanza, nonostante all’epoca dei fatti fosse minorenne.
Anche in questo caso, il futuro di persone dal passato scomodo passa, con tutte le sue incertezze, da un paese terzo, che non solo non può essere definito sicuro in termini di standard di accoglienza e rispetto dei diritti della persona, ma che non può nemmeno essere considerato uno Stato. Intanto, i respingimenti di massa in nome della sicurezza delle frontiere, potrebbero portare a nuove “ticking time bomb”, favorendo potenzialmente nuovi canali di radicalizzazione altrove, fra coloro che non hanno trovato accoglienza.