Fino al 2016, l’idea di aprire il mercato del lavoro ai profughi siriani sfollati nei paesi confinanti era un tabù. Come altri paesi della regione, la Giordania non ha mai siglato la Convenzione di Ginevra, non garantendo di fatto a 1,3 milioni di siriani presenti nel paese né l’accesso alle cure né l’accesso al mercato del lavoro, considerandoli piuttosto come ospiti temporanei. Con il Jordan Compact il regno hashemita si è invece impegnato, in cambio di investimenti e di aiuti economici, a rilasciare 200 mila permessi di lavoro ai siriani, aprendo loro almeno in parte il mercato del lavoro, e a garantire l’inserimento scolastico a tutti i minori siriani Più del dettaglio, l’Unione europea e la Banca mondiale si sono impegnate a concedere aiuti e umanitari e allo sviluppo, attraverso sovvenzioni pluriennali e prestiti agevolati, pari a 700 milioni di dollari all’anno, per tre anni, e prestiti agevolati fino 1,9 miliardi. L’Ue si è inoltre impegnata a facilitare gli scambi commerciali e incentivare le esportazioni dei prodotto giordani.
Permessi di lavoro, o posti di lavoro?
Di fatto la valutazione del Jordan Compact si è concentrata proprio sul numero di permessi concessi: ad oggi, secondo i numeri ufficiali diffusi dal ministero del Lavoro sono in tutto 142,520 (di cui 23,378 nel settore delle costruzioni e 51,209 in quello agricolo, i due settori in cui è appunto più facile ottenere un permesso. Obiettivo quindi quasi raggiunto. O no? “La realtà è diversa. I permessi attualmente validi sono solo 45 mila”, taglia corto Linda Al Kalash della ong giordana Tamkeen. Il dato, che il ministero del Lavoro ha confermato ad Open Migration, si spiega con il fatto che i numeri del ministero contano come nuovi permessi, anche i rinnovi oppure i permessi modificati per cambio del datore di lavoro e non sottraggono dal totale i permessi che nel frattempo sono scaduti.
Un’analisi dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo), indica che i siriani con un permesso di lavoro sarebbero solo il 13%: gli ostacoli burocratici, i costi relativamente elevati per ottenerlo, e in generale i pochi vantaggi che ne derivano, scoraggiano sia i siriani che i loro datori di lavoro giordani dal cercare di regolarizzarsi.
“L’obiettivo dei 200mila permessi, su cui all’inizio ci si è focalizzati un po’ troppo, è riduttivo e fuorviante: non incentiva un lavoro dignitoso, ma semplicemente l’emissione dei permessi. E spesso le due cose non corrispondono”, spiega Jason Andrews del Norwegian Refugee Council (Nrc). Andrews si occupa di tutti gli aspetti tecnici legati agli interventi a lungo termine per garantire ai rifugiati siriani un sostentamento e condizioni di vita dignitose: “Quello giordano, è un mercato del lavoro basato sull’informalità: un fattore che non è tenuto adeguatamente in considerazione e su cui non si è intervenuto – continua -. Il Compact è partito da premesse condivisibili, ma alla base c’è un problema di aspettative. Si pensava che si sarebbero creati nuovi posti di lavoro: una promessa difficile da mantenere”. E difatti non mantenuta. In questi anni, il tasso di disoccupazione è addirittura aumentato: dal 14,8% del luglio 2016 al 19% del gennaio 2019, mentre il tasso di partecipazione alla forza lavoro è diminuito dal 40,6% del 2017 all’attuale 35,8%.
Come sottolinea un’analisi pubblicata dal Cairo Review of Global Affairs, con il Compact ci si è limitatati a formalizzare posti di lavoro che già esistevano. Con un ulteriore paradosso: molti siriani che hanno ottenuto un permesso di lavoro in agricoltura o nelle costruzioni, lavorano in realtà in altri ambiti chiusi ai non giordani, come i servizi e la ristorazione, e sono quindi comunque tecnicamente irregolari.
Sintesi di un fallimento: il settore tessile
“Il problema principale”, sintetizza Andrews, “è che i bisogni e gli interessi dei rifugiati non sono stati presi in considerazione, e sono quindi da subito passati in secondo piano. Ci si è convinti che i siriani avrebbero accettato qualunque lavoro. Ma non è così”.
Un esempio lampante è il settore tessile. L’idea dei firmatari del Compact era semplice quanto allettante: incoraggiare l’occupazione nelle Zone economiche speciali, che oltre ad essere fortemente sotto-utilizzate hanno il vantaggio di trovarsi in zone isolate non lontano dai campi profughi di Azraq e Zaatari, dove c’è un surplus di forza lavoro a basso costo.
Nel 2016, in un primo tentativo di coinvolgere soprattuto la forza-lavoro femminile, l’Ilo ha organizzato sei fiere del lavoro nel campo profughi di Zaatari, coinvolgendo in tutto 213 donne. 82 di loro si sono iscritte per un colloquio e una alla visita allo stabilimento. Ma il giorno della visita si sono presentate solo in 24, e nessuna di loro alla fine ha accettato il lavoro. La distanza dal campo, l’impossibilità di lasciare i figli da soli per un’intera giornata e il costo dei trasporti le hanno spinte a desistere. A tre anni di distanza, l’Ilo ha supportato circa 1800 persone a trovare un impiego nel settore tessile, tra cui 347 siriani, in maggioranza donne che vivono nel campo di Zaatari. Il piano è di arrivare al doppio entro il 2019: un risultato comunque ben lontano dalle aspettative iniziali.
“Il punto è che per 220 dinari (circa 250 euro, in un paese in cui il costo della vita è quasi pari a quello dell’Italia, ndr) non ne vale la pena”, afferma Andrews. “Il settore tessile, così come quello agricolo ed edile, sono settori che tradizionalmente danno lavoro ai migranti egiziani: non rispondono affatto alle esigenze di una famiglia che si deve mantenere in Giordania nel lungo periodo”.
In generale ad oggi il coinvolgimento delle donne resta molto basso: i permessi di lavoro rilasciati alle donne siriane sono appena il 4,5 %. Un tentativo più recente è stato fatto facilitando la regolamentazione e le registrazione per le imprese casalinghe: alle donne siriane è ad esempio finalmente consentito creare prodotti artigianali o dolci fatti in casa e avviare così una piccola attività. Queste micro-imprese sono state in molti casi favorite da Ong, che offrono training in questo senso e a volte sono in grado di offrire un supporto all’acquisto dei materiali per avviare l’attività.
“Ma manca troppo spesso tutto quello che viene dopo – sottolinea Al Kalash – spesso non c’è un’analisi di marketing e creare un prodotto non significa che poi ci sia una domanda”, sottolinea Al Kalash a spiegazione del perché nel lungo periodo queste attività non siano sostenibili. Inoltre, nonostante le procedure per la registrazione siano state facilitate, molti siriani semplicemente non hanno alcun interesse nel formalizzare l’attività. Se infatti fino a due anni fa i siriani avevano un certo interesse nell’ottenere un permesso di lavoro perché correvano seriamente il rischio di essere riportati nei campi profughi di Azraq o di Zaatari, ora non è più così.
Dina Safarini, di Tamkeen, ha incontrato in questi anni diverse donne, sia siriane che giordane, durante incontri di formazione sui loro diritti e su come ottenere i permessi. “La risposta che ho avuto da un gruppo di donne siriane che aveva avviato un attività di ristorazione è stata ‘Perché dovremmo?’. Se non ci registriamo non dobbiamo pagare le tasse e possiamo avere orari più flessibili”. E in ogni caso il mancato rispetto dei diritti dei lavoratori accomuna sia giordani che siriani: “Recentemente, una donna giordana che lavorava in un asilo per 70 dinari al mese (circa 90 euro, ndr) – racconta Safarini – dopo aver appreso in una delle nostre sessioni che il salario minimo è di 220 dinari, è andata dal datore di lavoro a chiedere un aumento. È stata licenziata”.
Dalla forma, ai diritti
“Se la questione è come si riduce il livello di economia informale, è una domanda da un milione di dollari. E il governo giordano in primis vorrebbe avere una risposta”, afferma Anthony Pursatory, coordinatore del progetto Match dell’International Rescue Commitee (Irc). “Il settore informale produce circa il 50% dei prodotti giordani – continua – e assorbe tra il 60 e il 70% degli occupati: è una fetta enorme dell’economia. Come Ong, quello che possiamo e dobbiamo fare è spingere perché ci sia una certa protezione sociale anche per chi lavora nel settore informale”.
A maggior ragione, considerando che spesso la multa che i datori di lavoro sono tenuti a pagare se assumono in nero o se non hanno registrato la propria attività, è spesso inferiore alle spese di registrazione complessive, come aggiunge Paola Barsanti, dell’unità di supporto legale del Nrc: “Il punto è che al permesso di lavoro non corrispondono garanzie minime di protezione o di salario: bisogna cambiare prospettiva e dare priorità ai diritti del lavoro, piuttosto che all’ottenimento del permesso e alla formalizzazione”.
La legge sul Lavoro giordana prevede una certa tutela dei diritti, ma nella pratica questi spesso non sono rispettati: “L’obiettivo che come Nrc ci siamo posti – conclude Barsanti – è fare in modo che i diritti dei lavoratori vulnerabili, sia rifugiati (siriani e di varie nazionalità) migranti, che giordani, siano rispettati, indipendentemente dall’esistenza di un permesso o di un contratto di lavoro”.
Un cambio di prospettiva urgente viso che il Jordan Compact, o comunque un accordo simile, dovrebbe essere rinnovato a partire dall’anno prossimo. E nel frattempo è stato preso a modello anche in Etiopia.
Immagine di copertina: La vista su un quartiere della zona ovest di Amman, in Giordania. I rifugiati siriani registrati dall’UNHCR nella sola Amman sono 196mila, a cui si aggiungono migliaia di siriani non registrati. (foto di Daniela Sala come tutte quelle presenti nell’articolo)