È la giornata mondiale del rifugiato, e la prima cosa che vedo appena sveglia è un post su Facebook di un’amica siriana che vive in esilio. Scrive che quasi metà del suo popolo è disperso nel paese e nel mondo. Penso agli amici fuggiti dall’Egitto perché temevano per la propria vita, e all’Italia che lo considera un “paese sicuro”. Penso a un giovane amico del Gambia, che dopo due anni sospeso in un limbo ha ottenuto in appello la protezione internazionale in Italia. E al capofamiglia siriano del film di Marta Cosentino “Portami via”, che chiede com’è, essere il paese dove gli altri cercano rifugio.
Penso a un milione di giovani delle seconde generazioni che parlano toscano e milanese e siciliano e aspettano di diventare cittadini italiani, di avere gli stessi diritti dei loro coetanei, e di poter votare. All’energia travolgente che stanno portando alla nostra bolsa e grigia vita politica – creature duali, abituate a stare sui confini identitari, ricche di lingua e di cultura, loro malgrado esperte di spaesamento, destinate a diventare ambasciatrici di queste dualità nel mondo. Le “storie dei migranti” non c’è nemmeno bisogno di cercarle, perché sono ovunque, intrecciate con la nostra vita nelle città e nei paesi, e costa semmai uno sforzo evitarle. Costa più energie (e, parrebbe, anche più denaro) difendersi dall’epopea dei rifugiati che lasciarsene avvolgere e attraversare. E nel rapporto con loro si scoprono invece energie e alleanze rivelatrici, magari di non facile gestione, ma indispensabili alla nostra sopravvivenza, anche quella morale.
Qui a Open Migration la giornata del rifugiato è ogni giorno. E più lavoro con persone che di questo si occupano, più mi rendo conto di quanto siano vasti i temi che la figura astratta del rifugiato evoca per noi e con cui ci impone di confrontarci. Il professore di relazioni internazionali Alessandro Colombo spiegava l’inverno scorso a Milano che l’Europa ha tentato di tutto per tenere le conseguenze delle guerre, della povertà altrui, dello sfruttamento delle risorse e del deterioramento ambientale il più lontano possibile da casa. Quello che sta accadendo in questi anni è che queste continuano invece a presentarsi alla porta – vengono dove c’è pace, vengono dove c’è in media più prosperità, vengono in cerca di sostegno, e non dovremmo essere sorpresi se venissero anche, consapevolmente o meno, a chiedere il conto. Il fastidio stupito con cui li salutiamo è uno strano modo di vedere le nostre responsabilità nel villaggio globale, dove va bene se un operaio cinese muore per fabbricare il nostro iPhone ma non va bene se una famiglia bombardata da ordigni italiani ci bussa alla porta in cerca di aiuto. Quell’espressione “il nostro stile di vita” non si può più sentire, e ormai non si può nemmeno fingere di non sapere che se per molto tempo ci siamo potuti permettere quello “stile di vita” è stato anche a spese d’altri.
Il rifugiato dentro di noi
Il rifugiato è diverso da noi per molte cose, tutte – compresa la sua libertà di movimento – condizionate da discriminazioni economiche. Allo stesso tempo, il rifugiato è talmente uguale a noi che pure lui può essere razzista, attaccabrighe, anti-femminista, assenteista, o evadere le tasse – anche se non ci piace pensare a questi aspetti di “noi”. E perfino lui può diventare respingente verso i nuovi migranti quando una condizione appena più solida glielo permetterà. Come si vede da certe posizioni che stanno prendendo piede negli Stati Uniti fra vecchi e nuovi immigrati, sembra che basti una quantità sufficiente di tempo a dimenticare di essere stati migranti. Allo stesso tempo, il rifugiato quando arriva ci rammenta anche il sogno del viaggio che abbiamo perduto; una cura per i fragili che da noi si è erosa; una forma di villaggio che ci dava sostegno quando eravamo molto più poveri; o la costruzione di un’identità nazionale attraverso la letteratura e la poesia. E troppo facilmente dimentichiamo che i suoi sono paesi dove siamo stati ospiti, turisti, allievi, commensali.
Che casa è la nostra, se non siamo capaci di condividere quello che abbiamo, di accogliere, di aprire la porta, di arginare la sofferenza, di far accomodare, di proteggere, di consolare e accudire e lasciar ripartire – e anche di restare stupefatti e trasformati dalla nostra esperienza? Che casa è, se non ci guardiamo allo specchio per non scoprire quanto il rifugiato ci somiglia, e quanto di lui o lei è già in noi? Non si tratta solo di resistere con i fatti alle narrazioni inventate, si tratta anche di invitare le persone a spingersi oltre, ad avvicinarsi, a non temere se stesse.
Il profugo è in una condizione per sua natura temporanea; non lo era prima, e nella migliore delle ipotesi, ambisce un giorno a non esserlo più. Il rifugiato è colui o colei che mai avrebbe pensato di essere costretto a lasciare casa propria. Il migrante eravamo noi, e potremmo esserlo di nuovo. Il profugo viene dove riteniamo di non avere “abbastanza” e trova quello che per lui o lei è più che abbastanza. Abbastanza per mangiare, abbastanza per avere un tetto sulla testa, abbastanza se si riesce a lavorare, e soprattutto, abbastanza prospettiva per muoversi, crescere, sognare qualcosa di diverso o di meglio – questo il diritto che più spesso si trascura di concedergli, come se non fosse un bene essenziale.
La semplificazione è impraticabile
La temporaneità della sua condizione, e il meticciato innegabile della nostra, dovrebbero preoccuparci, perché fanno a pugni con la narrazione semplificante, la manipolazione delle paure; se dovessimo dar retta a quelle semplificazioni e seguirle fino alle loro estreme conseguenze, dovremmo sapere che mirano a tagliare corpi sociali che non possono essere tagliati se non con la violenza (come fu nei Balcani, come fu in Ruanda e com’è in quei paesi arabi in cui si rispolverano e manipolano settarismi dimenticati), e che puntano a far immaginare welfare divorati come torte quando invece una società che sa prendersi cura della propria gente sarà anche pronta per accogliere, e viceversa. È una classe politica ben poco all’altezza quella che non trova di meglio che mettere i poveri contro i poveri, gli insicuri contro gli insicuri, e che vuole far credere a tutti di essere inermi e vittime di un’invasione, anziché cittadini attivi e accoglienti e ispirati.
E così, restando in quelle rigide categorie (“casa nostra”, “a casa loro”), rischiamo anche una collisione interiore. Accettare la narrazione dell’invasione di estranei rinnega e uccide la parte araba della nostra cultura, la nostra radice africana, sequestra le nostre parole, i nostri numeri, i gesti con cui sappiamo farci capire in tutto il Mediterraneo, il Dna interculturale del nostro mare (che è per estensione mare europeo), il nostro meticciato di fatto – e mostra l’impraticabilità della purezza, che infatti poi fa mendicare voti in Meridione ai tifosi del Nord. Respingere il rifugiato significa in sostanza respingere un pezzo di noi stessi. In questa collisione interiore si rivela anche il nostro terrore di “migrare” da una fase all’altra della vita, di essere noi a ritrovarci senza casa e senza patria, di retrocedere dalla relativa sicurezza invece che continuare a progredire come ci era stato promesso, di scivolare, di essere usurpati, di essere deboli, di non sapere con certezza chi siamo, a che terra apparteniamo, cosa significano davvero la nazionalità e la cittadinanza, quali sono i nostri diritti. La nostra paura dell’incertezza, l’aspirazione a non sentirci messi in discussione dalla mera esistenza delle difficoltà dell’altro. Il desiderio, sempre più incoltivabile, di essere lasciati in pace.
Il nostro tempo di pace
Ecco, la giornata del rifugiato ci sfida a riconciliarci con queste paure, e a chiederci come useremo il nostro tempo di pace, finché dura. Cosa faremo della nostra intelligenza, della nostra relativa calma, delle nostre reti sociali, della nostra istruzione, delle nostre difficoltà – tante ma trascurabili in confronto al cratere scavato da una bomba. Chi saremo? Quale parte di noi ritroveremo? Quali termini astratti – umanità, solidarietà – riusciremo a toglierci dalla bocca per dimostrare cosa significano in concreto? I rifugiati siamo noi, e noi siamo loro. Vengono a cambiarci, non facciamoci illusioni, ma questo incontro dovremmo sentirlo fino in fondo, dal punto di vista storico, politico, individuale, lieti dell’opportunità di rafforzare le basi utopiche del nostro continente, il nostro lato migliore, e di farlo a contatto con persone che arrivano qui al prezzo di un coraggio, di una fiducia, di una determinazione senza eguali – una vera e propria élite della nostra epoca. E un giorno, forse, riusciremo anche ad affrontare la questione delle massicce disparità geopolitiche che i grossi flussi migratori li provocano.
Il rifugiato ha bisogno di rifugio. Darglielo è ciò che ci renderà umani, fino al momento in cui non saremo noi, ad averne bisogno. La giornata del rifugiato non è per il rifugiato, ma per noi, che dobbiamo assolutamente cambiare.
Foto di copertina: Il faro di Lampedusa (di Marina Petrillo).