Ha lo sguardo dritto davanti a sé, una postura fiera, spalle larghe e un sorriso stampato in volto. Mohamed Abdarassoul Daoud aspetta l’autobus alla stazione Termini di Roma. Deve rientrare al centro d’accoglienza che, da agosto scorso, è diventata la sua nuova casa. “Non vedo i miei genitori dal 2020 e mi manca molto la mia famiglia, soprattutto mia madre. Appena arrivato in Italia, non sono riuscito a contattare i miei genitori perché nel luogo in cui vivono la connessione non è buona”.
Mohamed è del Nord Sudan ed è arrivato in Italia il 20 agosto 2023, dopo un’odissea di diversi anni che lo ha portato dal Sudan al Ciad, poi dal Ciad alla Libia, attraverso il deserto libico all’Algeria, dall’Algeria al Marocco, dal Marocco di nuovo alle montagne algerine e infine in Tunisia, da dove è partito per l’Italia, sopravvivendo alle conseguenze drammatiche dell’esternalizzazione delle frontiere europee. Era presente a Tripoli durante lo sgombero del quartiere di Ghargadesh e durante le proteste di fronte alla sede dell’UNHCR nell’ottobre 2021, in Marocco durante la strage di Melilla nel giugno 2022, e in Tunisia durante le deportazioni da parte del governo Saied.
IL VIAGGIO, DAL NORD SUDAN AL CIAD
“Ho lasciato la mia terra natale, il Nord Sudan, quando ero solo un bambino. Nel 2003, quando avevo cinque anni, scoppiò la guerra. Io e la mia famiglia diventammo rifugiati nel Sud Ciad. Abbiamo vissuto in un campo profughi dell’UNHCR. Ho trascorso la maggior parte della mia infanzia in quel campo. Nel 2011 sono tornato in Nord Sudan perché mio zio era solo e aveva bisogno di assistenza. Ho trascorso sei anni lì e poi sono tornato in Ciad nel 2015 perché tutta la mia famiglia era rimasta nel campo profughi”, racconta con voce ferma, le mani giunte e lo sguardo immobile. In Ciad, Mohamed completa la sua formazione e si laurea in storia nel 2019. “Ho trascorso tre mesi cercando lavoro, ma per uno straniero era troppo difficile lavorare in Ciad. Così ho deciso di dirigermi verso il Nord Ciad, nel deserto, e ho lavorato in un ristorante per tre mesi. Poi è iniziata la guerra civile anche lì e le autorità ciadiane hanno chiuso i confini, costringendoci verso la Libia”.
DAL CIAD ALLA LIBIA
Così, nel 2020, Mohamed è costretto a intraprendere il pericoloso viaggio verso la Libia. “Raggiungere la Libia è stato molto rischioso e faticoso. Ero solo, la mia famiglia era rimasta in Ciad. Viaggiavamo stipati in camion, insieme a molti altri. Ho trascorso undici giorni nel deserto, da Sabha a Tripoli. Ho visto persone morire di sete e sopportare enormi sofferenze a causa della mancanza d’acqua. Ci facevano fare diverse soste dove eravamo costretti a lavorare. Durante queste fermate, alcune persone venivano rapite e torturate per estorcere denaro alle loro famiglie”. Mohamed descrive i rapitori come individui armati vestiti da civili. “Non riuscivo a capire dove mi trovavo o cosa stesse succedendo”. Durante il viaggio attraverso il deserto, Mohamed conosce molte persone, ma tutte vengono rapite e portate a Bani Walid. “Non sono mai tornate e non ho mai ricevuto loro notizie”.
Una volta arrivato in Libia Mohamed lavora per un anno e tre mesi nel dipartimento contabile di un’azienda alimentare giordana. Ha una casa, ma a un certo punto la gestione dell’azienda passa nelle mani di un libico, che inizia ad assumere solo connazionali, licenziando Mohamed.
“Mi sono ritrovato senza lavoro e senza casa. Mi sono registrato presso l’UNHCR a Tripoli come rifugiato. Ho vissuto per strada, nonostante avessi documenti che attestavano il mio status. La situazione era estremamente difficile e non avevamo cibo. Quando hanno sgomberato il quartiere Gargaresh il 3 ottobre 2021, le strade si sono riempite di rifugiati, ed è lì che ho incontrato molte persone, tra cui David Yambio (portavoce di Refugees in Libia). Allora abbiamo iniziato a protestare davanti all’ufficio dell’UNHCR. Vivere per strada non era sicuro; spesso le persone venivano rapite. Ho visto molti uomini e donne morire, persone picchiate, donne partorire senza alcuna assistenza medica, bambini coinvolti in incidenti, sono persino stato investito da una macchina. La protesta è durata 3 mesi e 10 giorni, e al decimo giorno sono venuti ad arrestarci”.
Il CORAGGIO DI MOHAMED
“Le persone morivano continuamente, soffrivano, qualcuno doveva parlare di ciò che stava accadendo. Non posso tollerare l’ingiustizia. Anche durante il viaggio attraverso il deserto ho aiutato molte persone quando le vedevo soffrire per il freddo o il caldo. Se posso aiutare qualcuno in difficoltà, lo faccio. Da bambino, sono sempre stato costretto ad affrontare problemi, forse è per questo che sono così sensibile alle ingiustizie. Se vedo qualcuno soffrire o provare dolore, mi sento naturalmente spinto ad aiutare.”
DALL’ ARRESTO ALLA PRIGIONE DI AIN ZARA
“Durante lo scioglimento della protesta di fronte alla sede dell’UNHCR, i militari hanno bloccato la strada su entrambi i lati. Era notte, in un attimo si è scatenato il panico. Majed, uno dei miei migliori amici, è stato colpito dalla polizia, ma fortunatamente è sopravvissuto, molti altri non hanno avuto la stessa fortuna.” L’arresto avviene alle undici di sera, quindi molte persone non sono alla presidio, e dato che è notte, nessuno può vedere cosa accade. “Non mi rendevo conto nemmeno di cosa stesse succedendo. Tutti cercavamo di scappare, ma era impossibile. Vedevo persone disperate piangere. Di molte di loro non abbiamo più avuto notizie. Quando siamo arrivati in prigione, eravamo molti meno.” Mohamed viene arrestato e portato al Centro di detenzione di Ain Zara. “Eravamo chiusi in una grande stanza con 500 persone, comprese donne e bambini. Non avevamo acqua e il cibo lo davano solo una volta al giorno. Di tanto in tanto, selezionavano qualcuno e lo facevano lavorare, pulire i bagni o i vestiti delle guardie carcerarie, e se ci rifiutavamo, venivamo picchiati e messi in isolamento, a me è successo più volte. Alcuni dei miei amici hanno cercato di scappare durante questi lavori, ma sono stati sparati.” Mohamed trascorre due o tre mesi in prigione, non ricorda precisamente perché non ha un calendario, e il telefono gli viene confiscato il giorno dell’arresto. “Durante quei mesi, non potevamo comunicare con gli altri prigionieri per paura che potessimo organizzare qualche forma di fuga. Io sono comunque riuscito a fare amicizia con Salah. Anche Salah è del Sudan e ha la mia età. Ha passato un anno in prigione, e credo che sia ancora in Libia; spero che non sia lì dentro, ma non ho modo di contattarlo.”
Le condizioni di salute di Mohamed peggiorano di giorno in giorno fino a quando il personale, quasi esclusivamente libico, dell’UNHCR, dopo sue ripetute e inascoltate richieste di rilascio, non decide finalmente che deve essere liberato.
DALLA LIBIA ALL’ ALGERIA
“Nel 2022, ero di nuovo libero e sono andato da Ali, un ragazzo ciadiano conosciuto in Libia che lavorava in una fattoria nelle vicinanze. Ho passato un mese con lui. Volevo lavorare ma non potevo perché il proprietario della fattoria non lo permetteva. Il mio amico ha avuto la fortuna di trovare lavoro; per me però sembrava impossibile.” Ali è ancora in Libia, ma Mohamed ha perso ogni contatto con lui. “Non avevo prospettive rimanendo in Libia, non conoscevo nessuno. I miei amici Salah e Majed erano ancora in prigione. La Libia era diventata un inferno e, qualunque cosa facessi, rischiavo di venire arrestato o ucciso. Dovevo nascondermi costantemente.” Mohamed decide allora di andare in Marocco. Tuttavia, prima prova a lavorare in Algeria, ma l’Algeria, racconta, è ancora più pericolosa della Libia. “Lì non puoi affittare una casa, trovare un lavoro o noleggiare una macchina. Ci sono stato per un mese. Poi sono andato in Marocco”.
In Marocco Mohamed riesce a ottenere lo status di rifugiato ma le autorità marocchine lo respingono comunque. Cerca quindi la fuga verso la Spagna e lo fa il giorno della strage di Melilla, il 24 giugno 2022. Una tragedia che causa 37 morti, in cui i militari spagnoli sparano sulle persone migranti che provano a scavalcare il muro di confine tra Marocco e Spagna. Una delle stragi che ha causato più morti al confine terrestre tra l’Unione Europea e il Maghreb.
Mohamed supera la prova e riesce a scavalcare il muro, ma la polizia spagnola lo respinge comunque di nuovo in Marocco. Le autorità marocchine fuori dal paese.
DAL MAROCCO ALL’ ALGERIA
Dopo il Marocco, Mohamed torna in Algeria dove rimane per circa tre mesi. Vive in montagna perché non gli è permesso stare in città. “Scendevamo in città solo per prendere cibo o acqua. Dopo tre mesi, ho preso un treno, ho pagato il biglietto e ho pagato anche i militari algerini perché di solito non permettono alle persone nere di salire a bordo dei treni.”
DALL’ ALGERIA ALLA TUNISIA
“Una volta arrivato in Tunisia, ho camminato per 15 giorni a piedi perché non potevamo prendere autobus, fino a Sfax. Avevo capito che la mia vita nei paesi arabi sarebbe stata impossibile, così ho pensato di attraversare il mare per raggiungere l’Europa. Ho incontrato persone della Costa d’Avorio e ho capito che si stavano organizzando per partire. Mi hanno detto di trovare altre persone da portare con me, e che così sarei potuto salire sulla barca gratuitamente. Non avevo i soldi per pagare il viaggio.” Mohamed non sa esattamente dove sta andando, non ha un progetto, ma attraversare il Mediterraneo sembra la sua unica possibilità. “Ho trascorso un mese a Sfax, dormendo per strada e aspettando di partire. La Tunisia è un inferno. I neri vengono picchiati e deportati nel deserto, vengono cercati casa per casa dai militari ma anche dalle persone normali. È stato brutto ma poi, alla fine, sono partito.”
DA SFAX A LAMPEDUSA. LA PAURA DEL MARE
“Abbiamo trascorso due giorni in mare, e avevamo pochissima acqua, solo una bottiglia per i bambini e le donne. Avevo paura; non avevo mai visto il mare prima d’allora. Il Ciad non ha il mare. Sono salito sulla barca di notte, e al mattino, quando non vedevo altro che mare intorno a me, sono rimasto scioccato. Avevo così paura! Chiedevo dove fosse Lampedusa, quando saremmo arrivati, pensavo di morire.” Nella piccola barca con Mohamed ci sono altre 45 persone, tra cui sette donne e tre bambini. “Quando sono venuti a soccorrerci, ero molto felice perché ero ancora vivo. Il 20 agosto 2023 sono finalmente arrivato in Italia. Ho trascorso due giorni nel centro di accoglienza di Lampedusa, poi altri cinque in Calabria, e ora vivo in un centro di accoglienza a Roma. Le persone qui in Italia sono state molto gentili con me.”
IL FUTURO IN ITALIA
Mohammed non sa ancora cosa gli riserva il futuro: “Non posso pianificare il mio futuro in questo momento. Molte cose stanno cambiando rapidamente. Quindi, per ora, penso solo che voglio essere in un luogo sicuro, e se l’Italia mi fornirà documenti, lavorerò qui per sostenere la mia famiglia. Se stanno bene nel campo profughi, invierò loro denaro; se non stanno bene, cercherò di portarli qui o troverò un altro luogo sicuro per loro. In ogni caso, immagino un futuro finalmente diverso da quello che ho vissuto finora. Almeno, è quello che spero.” Si ferma, sorride e per la prima volta gli trema la voce: “Voglio aiutare le persone che stanno ancora lottando per la loro libertà. Assistere le persone che ho lasciato; voglio lottare per loro; hanno bisogno di aiuto. Vedere le persone soffrire e morire e non provare nulla non è normale. Non mi sento bene se vedo persone che non sono felici o che hanno bisogno di aiuto. Voglio dare un significato alla sofferenza di questa gente. Forse è semplicemente questo quello che vorrei fare qui!” Conclude il suo racconto nella stessa posizione in cui l’ha cominciato. Quindi si alza, scioglie le gambe, guarda l’orario. Adesso è ora di tornare al centro.
Le foto sono dell’autrice. In quella di copertina Mohammed. Nell’articolo Mohammed con David Jambio, portavoce di Refugees in Libya. I due si sono rivisti a Roma.