Honer sta scegliendo il nome per la sua bambina che nascerà fra pochi giorni. “È una decisione che spetta solo a mia moglie e a me sulla quale non vogliamo interferenze – spiega – e anche se entrambe le nostre famiglie fanno pressioni a riguardo; io vorrei darle un nome di cui possa essere fiera un domani, con un bel significato, ma che non sia troppo tradizionale, perché se dovesse emigrare sia più facile per lei essere accettata in una nuova società”.
Studi in comunicazione, curdo, arabo e inglese fluente, questo giovane di 34 anni nato e cresciuto a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, ha lavorato come fixer con i media di mezzo mondo durante la guerra contro lo Stato Islamico, e ora, in tempo di relativa pace, ha cominciato a occuparsi di marketing e di investimenti nelle criptovalute. Attraverso la rete è entrato in contatto con colleghi cinesi e americani, liberi professionisti di un settore in espansione. “Il paradosso è che conosco tanta gente di paesi diversi, ma non posso nemmeno andare a trovarli perché il passaporto iracheno è fra i più sfortunati, anziché aprirti le porte del mondo le chiude – spiega – non importa quale sia il tuo obiettivo, il tuo percorso, col mio documento ho difficoltà anche a raggiungere la Turchia per portare la mia famiglia al mare. E difatti il mare non l’abbiamo mai visto”.
Honer ha scelto di lavorare da freelance nella regione autonoma del suo paese dove la stragrande maggioranza degli abitanti è impiegata negli apparati pubblici, perché sa che percepire uno stipendio tutti i mesi, se sei un dipendente statale, è un’utopia. Nell’ultimo decennio nessuno ha mai avuto un salario regolare, né i Peshmerga durante la guerra contro lo Stato Islamico, né gli amministrativi e gli insegnanti, che periodicamente continuano a protestare.
Il suocero di Honer, un colonnello dell’esercito curdo, ha ricevuto la sua ultima mensilità nel novembre scorso, ed ora è suo genero a farsi carico anche della sua famiglia.
Il problema endemico degli stipendi
La questione dei salari è un problema costante in Kurdistan, ed è diventata parte preponderante della disputa fra Governo regionale e federale, insieme alla gestione dei flussi e della rendita petrolifera.
Nel febbraio scorso, la Corte Suprema irachena ha ordinato al Governo federale di provvedere al pagamento delle mensilità arretrate nella Regione autonoma settentrionale. La sentenza è stata sollecitata dai dipendenti pubblici di Sulaimaniyah, la seconda città del Kurdistan iracheno, che più volte erano scesi in piazza per chiedere il pagamento degli stipendi mai corrisposti nel 2023.
La Corte ha ordinato inoltre all’amministrazione curda di affidare tutte le sue entrate petrolifere al Governo federale, in cambio del 12,6% della spesa pubblica irachena.
Difficile dire se questo nuovo sistema reggerà e servirà a dare ossigeno alla cosiddetta classe media in sofferenza da tempo, anche perché il sistema clientelare su cui si basa tutta l’economia della Regione e dell’intero paese non consente lo sviluppo di reali opportunità occupazionali per i cittadini.
Mancanza di opportunità
“Qui in Kurdistan abbiamo una commistione fra pubblico e privato molto forte – racconta Jangar, laureato in farmacia e oggi tassista per necessità – le grandi compagnie di investimento, che si occupano ad esempio della realizzazione delle strade, vengono pagate dal Governo regionale per le opere che realizzano, ma spesso al loro interno ci sono rappresentanti del Governo, o loro familiari. E quindi il denaro continua a seguire un flusso circolare dal quale chi non ha agganci politici resta escluso”.
Jangar ha deciso di guidare il taxi dopo gli studi e una ricerca di lavoro qualificato che non è andata a buon fine. “Appena ne avrò l’opportunità – dice – tenterò di andare in Germania, dove già lavora mio fratello. Qui per noi non c’è futuro, si sopravvive appena”.
I dati dell’Unhcr indicano l’Iraq come uno dei principali paesi d’origine delle nuove domande di asilo in Europa. Solo nel 2022, 36 mila cittadini iracheni hanno richiesto l’asilo, e negli ultimi vent’anni l’Iraq si è sempre posizionato fra i primi paesi d’origine dei rifugiati che hanno raggiunto l’Europa.
Nel corso della storia recente, il paese è sempre stato interessato da ondate migratorie, legate soprattutto ai diversi conflitti che si sono susseguiti: la guerra con l’Iran fra il 1980 e il 1988, la Guerra del Golfo nel 1991 e l’invasione americana del 2003, con la conseguente caduta del regime di Saddam Hussein, che ha segnato l’inizio dell’evoluzione di una crisi ancora in corso.
La fine dello Stato Islamico
Nonostante la fine del conflitto con lo Stato Islamico sia avvenuta ormai sette anni fa, la situazione in tutto il paese continua a essere caratterizzata da un’instabilità generale, e da bisogni umanitari diffusi. Secondo l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni, gli sfollati interni sono ancora 1,4 milioni di persone, distribuite fra Dohuk, Erbil, Kirkuk, Salah al-Din, Diyala e Anbar.
Dopo la guerra il paese ha assistito al ritorno graduale di 4,8 milioni di persone nelle proprie città di origine, ma non sempre in condizioni di vita sostenibili. Si calcola infatti che oltre 600 mila persone siano rientrate in case fatiscenti e vivano una situazione di privazione estrema. È il caso della città vecchia di Mosul, a tutt’oggi quasi interamente distrutta dai bombardamenti del 2017, dove pochissime famiglie sono tornate a vivere in un’area tutt’ora minata da ordigni inesplosi, nonostante il lavoro di bonifica costantemente eseguito da circa due anni.
Dove la ricostruzione fisica c’è stata, o è in corso, permangono i problemi legati all’accesso ai servizi di base come l’acqua corrente, l’elettricità, la sanità, oltre all’insicurezza economica e ai traumi legati al conflitto. Nella ex capitale irachena del califfato, che cerca in tutti i modi di lasciarsi alle spalle quel periodo buio, lavorano anche tanti bambini, che affollano le strade per vendere fazzoletti di carta agli automobilisti e buste di plastica al mercato per 5 mila dinari al giorno, meno di 3,5 euro.
Rientri e ripartenze
Poco lontano da Mosul, a circa 30 km, c’è Qaraqosh, uno dei centri della minoranza cristiana dell’Iraq che prima del 2014 contava oltre 60 mila abitanti, e che oggi ne ospita circa la metà.
“C’è stato un rientro veloce dopo la fine delle ostilità – ricorda Wissam, frate francescano che è tornato nella sua città natale dopo anni da sfollato a Erbil – chi aveva la possibilità ha cercato di ricostruire la propria casa, di cancellare quei tre anni di esilio e di terrore. Oggi però assistiamo al fenomeno inverso. Chi è tornato nel 2017 pensa ad andarsene di nuovo, e molti sono già ripartiti. Purtroppo il ricordo della guerra non si cancella, e chi non riesce nemmeno a trovare un lavoro non ha più stimoli per restare. L’incendio del 27 settembre scorso, poi, ha spento davvero ogni speranza di rinascita: durante una festa di matrimonio un rogo è divampato nella sala ricevimenti e 133 persone sono rimaste uccise. In pratica non c’è nessuno in città che non abbia avuto una vittima fra i parenti o i conoscenti. Da allora altre 100 famiglie sono andate via”.
Verso l’Europa
Gli ultimi dati dell’Agenzia dell’Unione Europea per l’asilo dicono che nel 2023 gli stati membri hanno ricevuto 1,14 milioni di richieste di asilo; delle 26 mila provenienti da cittadini iracheni, il 43% è stato presentato in Germania, il 24% in Grecia e il restante 33% fra Paesi Bassi, Svezia, Austria, Belgio, Finlandia, Italia, Francia e Bulgaria. Dal 2015 a oggi si calcola che almeno 760 mila persone provenienti da Iraq e Kurdistan abbiano raggiunto l’Europa attraverso la rotta del Mediterraneo orientale o la rotta balcanica. Dai dati dello scorso anno è risultato un decremento del flusso attraverso i Balcani tra gennaio e giugno, con un transito di circa 10.300 persone (-16% rispetto al 2022). Secondo i dati diffusi dall’emittente curda Rudaw, negli ultimi tre anni solo dal Kurdistan sono partiti fra i 36 e i 38 mila giovani diretti in Europa, ma nello scorso anno questo dato è sceso drasticamente a poco più di un migliaio di persone.
Il futuro prossimo della migrazione climatica
Se le partenze nello scorso anno hanno registrato un calo, c’è un’altra tendenza che fa pensare ad un prossimo aumento. L’Iraq è il quinto paese più vulnerabile ai cambiamenti climatici, colpito da un aumento delle temperature e da una forte siccità soprattutto al sud, complici anche le politiche idriche, la rapida urbanizzazione e crescita esponenziale della popolazione, l’inefficienza nell’utilizzo dell’acqua in agricoltura e nell’industria. Nel settembre scorso l’Oim ha registrato oltre 130 mila sfollati, a causa della scarsità e della scarsa qualità dell’acqua in Iraq, diretti più a nord, in città che non sono pronte ad accogliere nuovi cittadini e che con tutta probabilità faranno da base a nuove partenze verso l’estero, alla ricerca di migliori condizioni di vita.
All’incertezza climatica si somma anche quella geopolitica, per il rischio di coinvolgimento in un conflitto su scala regionale fra Iran e Israele. Il paese è già stato in passato teatro di attacchi contro obiettivi militari iraniani, come l’uccisione mirata del generale Qasem Soleymani, avvenuta nel 2020 all’aeroporto di Baghdad con un’operazione americana, e in tempi recenti è stato utilizzato per il lancio di una parte dei missili partiti per Tel Aviv in risposta all’attacco israeliano contro il consolato iraniano a Damasco. Per chi ha già vissuto una o più guerre, ossia tutti i nati dalla fine degli anni Settanta in poi, una ragione in più per decidere di emigrare.
Per approfondire la situazione in questa area si può leggere il precedente reportage di Ilaria Romano.
Foto di copertina. Credit: Ilaria Romano – Murales che si trova nella città vecchia di Mosul