Con l’uccisione del generale iraniano Qassem Sulaimani, a capo delle forze al-Quds, e di Abu Mahdi al-Muhandis, vertice delle milizie sciite irachene Kataib Hezbullah, o Popular Mobililization Unit, colpiti la notte del 3 gennaio scorso da un drone americano, Baghdad è tornata al centro della scena internazionale come uno dei terreni privilegiati della crisi in crescendo fra Iran e Usa. L’evento, dalla portata simbolica enorme, ha avuto fra le conseguenze immediate, oltre alla rappresaglia di Teheran sulle basi Usa in Iraq, anche quella di silenziare ulteriormente la richiesta di cambiamento che da oltre tre mesi sta attraversando la società civile irachena.
Dagli inizi di ottobre, infatti, non solo nella capitale, ma nelle principali città del centro sud, migliaia di persone si trovano in piazza. E gli scontri con le forze armate, le incursioni delle milizie, gli omicidi mirati, i rapimenti, gli arresti e l’annuncio delle dimissioni del primo ministro Adil Abdul Mahdi, non sono bastati a convincere gli iracheni a smantellare i presidi permanenti.
Per la prima volta nella storia del paese manifestano i cittadini, gli studenti, gli attivisti, senza divisioni etico-confessionali, decisi a restare uniti, pacifici e fermi nella richiesta di un cambiamento radicale, e di una presa di distanza dalle ingerenze straniere, che finora hanno impedito la costruzione di una reale sovranità nazionale, come dimostrano gli ultimi omicidi mirati.
La situazione che si continua ad osservare attraverso la lente di piazza Tahrir, nella capitale, come a Kerbala, Najaf, Nassiriya, Basra, si inserisce nella lunga storia recente di speranze disattese, soprattutto per i giovani cresciuti dopo il 2003, che dall’invasione americana in poi hanno visto fiorire i settarismi, la corruzione e la scarsa presenza dello Stato, e che continuano a vivere in un clima di instabilità mai superato, né dopo la guerra civile né tantomeno dopo la campagna militare contro lo Stato Islamico. E che oggi dopo gli ultimi accadimenti rappresenta un’incognita ancora più grande. E le ragioni che spingono le persone a restare in piazza – scollamento fra establishment e popolazione, dinamiche clientelari, mancanza di servizi, disoccupazione e insicurezza – sono le stesse che negli ultimi anni hanno mosso tanti iracheni a migrare.
L’emigrazione irachena
Fra il 2014, anno di consolidamento della presenza dell’Isis nel paese, al 2017, con la riconquista di quei territori da parte delle forze irachene e curde, 6 milioni di persone hanno lasciato le proprie case per spostarsi in altre zone del paese. Degli oltre quattro milioni di sfollati che hanno fatto ritorno l’Unhcr calcola che la maggior parte sia ancora in condizioni di dover ricevere assistenza. I restanti due milioni vivono tutt’ora nei campi di accoglienza o in altre soluzioni provvisorie. Altre 257 mila persone sono state registrate dall’Agenzia Onu per i rifugiati nei paesi vicini, come Turchia e Giordania; e a queste si aggiunge chi ha tentato la via dell’Europa, facendo dell’Iraq il terzo paese di provenienza per numero di richieste d’asilo nell’Unione Europea (111 mila) nel 2016 e nel 2018, dopo Siria e Afghanistan.
Nel 2019 le richieste sono diminuite, ma i paesi europei dove sono state presentate più domande sono stati la Germania, la Grecia e il Regno Unito, secondo i dati di Eurostat.
Una ricerca finanziata dall’Unione Europea e dal Ministero degli Esteri olandese ha preso in esame 2.100 iracheni, alcuni dei quali in transito fra Grecia e Bulgaria, altri residenti in Olanda e altri ancora rientrati in Iraq dopo un’esperienza di emigrazione in Europa, ed ha indagato le motivazioni principali che li hanno spinti a partire: il 34% del campione ha messo al primo posto la guerra, il 30% la sicurezza familiare, il 15% la disoccupazione, il 5% la mancanza di prospettive economiche. Così si spiegano le ragioni delle manifestazioni di oggi.
Piazza Tahrir
“Quello che sta succedendo in Iraq non ha precedenti – ci racconta Adala, che vive in Olanda da dieci anni ed è tornata a Baghdad quando sono cominciate le proteste – ma basta guardarsi intorno per capire perché. Alla maggior parte delle persone mancano i servizi primari, e se sei una donna continui ad avere il doppio dei problemi: io stessa ho avuto molte difficoltà persino a prendere una casa in affitto, perché dovevo andare a viverci da sola. E comunque non ti senti mai totalmente sicura qui, purtroppo, e non è una bella sensazione nella città in cui si è nati”.
Adala, insieme a Nedhal, fa parte di un’associazione di donne che in piazza Tahrir ha messo una tenda e ogni pomeriggio organizza incontri e dibattiti, oltre a raccogliere vestiti e cibo per i manifestanti. Molte fra le sostenitrici hanno cinquanta, sessant’anni, e rientrano a casa solo la sera.
“Questi ragazzi hanno bisogno di tutto il sostegno possibile – dice Nedhal, perché se questo paese riuscirà a darsi un futuro diverso sarà grazie a loro. Oggi sentono che non hanno più niente da perdere, per questo si sono organizzati per restare qui finché non avranno ottenuto un cambiamento reale. Ciò che si respira in questo grande presidio, cioè solidarietà, condivisione, cultura e rispetto degli spazi pubblici, dovrebbe fare da modello per il paese”.
Dal primo di ottobre piazza Tahrir è diventata il cuore pulsante di un movimento della società civile irachena che fino ad ora non si era mai mostrata in modo così trasversale e compatto. Arrivando da Saidoun street e superando i blocchi di cemento armato si apre una città nella città, perfettamente organizzata. Grosse pentole di acciaio messe a bollire con chili di cosce di pollo, riso e salsa di pomodoro invadono i marciapiedi di vapore e odore di spezie, mentre uomini e donne di tutte le età si danno il cambio nello sbucciare e affettare patate, melanzane, cipolle. C’è chi sforna il pane dall’alba fino a notte, e persino chi, come Om Ali, ha deciso di portare in strada la sua lavatrice per fare il bucato ai ragazzi che dormono nelle tende.
“Sono una casalinga – racconta – e dopo i primi giorni in cui mio figlio ha cominciato a partecipare al presidio ho deciso di seguirlo e di rendermi utile in questo modo. Arrivo qui alle sette del mattino e vado via quando è buio, ogni giorno, perché credo in ciò che stanno facendo i nostri ragazzi e voglio sostenerli”. Om Ali lavora senza pause, e non fa in tempo a stendere i panni appena lavati che subito ne arrivano degli altri. “All’inizio compravo io il detersivo, poi si è sparsa la voce e tante famiglie hanno cominciato a portarne”.
Tutto ciò che arriva al presidio è autofinanziato, dalle tende alle coperte, ai vestiti usati, fino al cibo, all’acqua e persino ai farmaci. Una presenza costante e capillare in piazza è rappresentata da medici, infermieri e dentisti che prestano gratuitamente servizio a chiunque abbia bisogno. Così capita di vedere una poltrona da dentista dentro una tenda, o un piccolo laboratorio analisi, o ancora scaffali di medicinali e materiali per il primo soccorso. “Durante i giorni degli scontri più violenti con le forze armate, come il 25 ottobre, abbiamo lavorato senza sosta – racconta Sajad, un giovane farmacista che si è specializzato in Georgia, per poi tornare a Baghdad – quando la situazione è tranquilla diamo assistenza anche all’anziano con la pressione alta o al paziente diabetico che vuole misurare la glicemia. Facciamo quello che il servizio pubblico non riesce a garantire”.
A oggi sono almeno 85 le tende di primo soccorso, e lavorano 24 ore al giorno. Purtroppo però i medici sono diventati un bersaglio, vittime di intimidazioni e sparizioni forzate, insieme agli attivisti più in vista.
“Il problema sorge quando ci si allontana dalla piazza perché da soli si è più vulnerabili, così preferiamo sempre togliere il camice prima di lasciare le nostre unità di soccorso – racconta Yousif, che indossa un camice bianco e un passamontagna nero – meno mostriamo le nostre facce meglio è”.
La notte fra il 5 e il 6 dicembre, Yousif è scampato alla strage compiuta da un gruppo armato nei pressi del ponte Al Sinak. Almeno 29 persone sono morte, e per terra, in piazza Al Khilani, poche decine di metri più in là, sono stati allestiti dei piccoli memoriali con alcuni effetti personali delle vittime, delle candele, qualche fiore di plastica. Ci sono ancora le tracce di sangue sull’asfalto. Spesso la gente si ferma, dice una preghiera, scatta una foto con il cellulare, si concede qualche secondo di silenzio, chinando la testa.
“Hanno prima appiccato il fuoco al garage sopraelevato, per metterci in fuga e posizionarsi ai piani alti, e poi da lì, e contemporaneamente dai veicoli subito oltre il muro di cemento, hanno cominciato a sparare. L’assalto è andato avanti quasi tutta la notte, e durante quelle ore la corrente elettrica è stata tagliata. Diverse persone sono sparite, in quelle stesse ore, probabilmente arrestate”.
Secondo Human Rights Watch, le vittime dall’inizio delle proteste sono oltre 500, e anche se il Governo ha dichiarato di voler far luce sull’ultima strage, molti manifestanti sostengono che ci sia un coinvolgimento, anche se indiretto, e che semplicemente il “lavoro sporco” sarebbe stato appaltato a milizie e gruppi armati conniventi. A confermarlo ci sarebbero le decine di arresti avvenuti in circostanze poco chiare e che assomigliano più a sparizioni forzate. Come accaduto a Omar Kadhem Al Ameri e Salman Khairallah, due attivisti di cui si erano perse le tracce in pieno giorno, l’11 dicembre, mentre stavano acquistando tende e coperte per il presidio, fortunatamente poi rilasciati quasi una settimana dopo.
Ogni sera il “ristorante turco”, sedici piani di cemento e abbandono dalla fine di Saddam a oggi, diffonde musica e discorsi dei manifestanti a tutto il presidio. “È stato deciso di occuparlo perché all’inizio ci salivano i cecchini e ci sparavano addosso – racconta Ali mentre riempie di the bollente e abbondantemente zuccherato decine di bicchieri di carta – ora è diventato il nostro quartier generale, a metà fra un dj set e un palco da comizio, ma a cinquanta metri d’altezza”.
Da quassù si può osservare la piazza, e anche i tre ponti oggi interdetti al passaggio: Al Jumariyah, che porta direttamente alla Zona Verde dei palazzi del potere, Sinak e Ahrar, chiusi dai blocchi di cemento armato, dove oggi svettano le barricate contrapposte delle forze di sicurezza e dei manifestanti.
La situazione di calma è solo apparente, e può cambiare da un momento all’altro. La gente è decisa a restare fino a quando si realizzerà un cambiamento di tutto il sistema politico, commissione elettorale compresa, e non solo le dimissioni del Primo Ministro. D’altro canto è facile immaginare che nessun gruppo di potere farà un passo indietro, soprattutto in questa nuova fase di crisi internazionale.
“Questa è una dimostrazione civile, non ci sono leader – afferma Mushtaq, medico specializzando in pediatria – e questo è allo stesso tempo un vantaggio perché non ci sono strumentalizzazioni, ma anche uno svantaggio perché non si sa cosa succederà da qui a domani. Più che un sogno abbiamo un obiettivo, quello di mettere le basi oggi per rendere questo paese vivibile in futuro. Siamo stanchi di vivere in un posto che ha tutte le potenzialità per essere ricco, e sopravvivere nella miseria e nella paura”.
Tutto è in divenire, dunque, come conferma la delicatissima fase politica che si è aperta in questi giorni, e che ha messo in luce quanto l’Iraq sarà ancora terreno di battaglia subita, con conseguenze gravissime sulle persone. Tra l’altro in un momento di fortissima difficoltà interna, con le piazze piene e un governo in crisi, come già era emerso dal rifiuto del presidente Barham Salih di ratificare la nomina in Parlamento del nuovo primo ministro, l’attuale governatore di Basra Assad El Eidani, della coalizione Binaa sostenuta dall’Iran.
La piazza di Basra
Proprio la regione di Basra rappresenta un caso emblematico, per diversi motivi: attraversata dallo Shatt al Arab, il fiume che nasce dalla confluenza di Tigri ed Eufrate, rappresenta l’unico sbocco sul mare di tutto l’Iraq, ed è talmente ricca di greggio da coprire il 60% delle riserve dell’intero paese. Eppure è caratterizzata da una disoccupazione endemica, con tassi superiori alla media nazionale, che già nell’estate del 2018 fu tra le cause delle proteste di piazza, insieme alla mancanza di servizi minimi come l’acqua potabile e la corrente elettrica, in un periodo dell’anno in cui le temperature arrivano a sfiorare i 60°.
“Siamo stati i primi a manifestare, oltre un anno e mezzo fa – racconta Mohammed, trent’anni, che oggi è tornato in piazza e si occupa di una delle cucine della tendopoli – e adesso come allora continuiamo a subire le intimidazioni di gruppi di milizie che tentano in tutti i modi di farci sciogliere il presidio. Molti dei miei compagni sono stati minacciati e io stesso sono scampato ad un agguato sotto casa, e ne porto ancora i segni: ho dovuto affrontare quattro interventi per tornare a camminare, ma non sarà un proiettile in una gamba che mi farà tacere, anzi, sono qui più motivato che mai”.
Mukhald ha una laurea in economia e ha lavorato in Romania nel settore petrolifero. Lo stesso che, ironia della sorte, nella sua città dovrebbe produrre posti di lavoro mentre è diventato causa di disoccupazione. Oggi è il suo turno ai fornelli e sta friggendo il pesce: “tutto quello che abbiamo qui arriva dalle nostre tasche, che si tratti di cibo, bevande, coperte. Lo faccio per mio figlio, che oggi ha sei anni, non ho più sogni per me, vorrei solo un futuro migliore per lui”.
Il paradosso di Basra, così ricca di petrolio e povera di opportunità occupazionali, è strettamente legato ai vuoti di potere post 2003, che avevano lasciato campo libero al clientelismo di partito: inizialmente è quello di Muqtada al Sadr che comincia a gestire una grossa fretta del mercato del greggio, almeno finché all’interno del movimento non avviene la scissione che porta alla nascita di Fadhilla, il Partito della virtù, che rifiuta l’orientamento anti-governativo dei sadristi e riesce a ritagliarsi posizioni di potere nella compagnia petrolifera statale Basra Oil Company. A questi attori se ne aggiungono via via degli altri, perché ogni gruppo tribale locale ha una sua milizia e non vuole rinunciare ai proventi del petrolio. La frammentazione del potere porta ad una situazione di crescente instabilità, tanto che nel 2008 l’allora primo ministro Nouri Al Maliki decide di potenziare la presenza dell’esercito a Basra per affermare la presenza dello stato centrale e, contemporaneamente, avvia una politica di incentivi per aumentare la produzione locale di petrolio, tanto da indurre numerose compagnie internazionali a investire. Per gli iracheni del sud si prospettano un milione di posti di lavoro, almeno sulla carta, perché nella realtà l’offerta di lavoro è molto più limitata e il reclutamento continua a passare dalle maglie strette dei soliti partiti e gruppi armati più influenti; senza contare che oltre 83 mila lavoratori impiegati nelle 132 compagnie straniere arrivano dall’estero.
“Vivere qui è come essere morti – dice Mohammad, studente di informatica e musicista – non ci sono prospettive se non quella di andare all’estero, ma non è per questo che studiamo, con le risorse che abbiamo qui dovremmo essere in grado di restare nel nostro territorio, eppure decenni di corruzione e clientelismo hanno spento ogni speranza. Purtroppo ci sentiamo soli in questa rivoluzione, gli altri paesi del mondo che pure sono presenti qui non ci supportano, nemmeno di fronte a rapimenti, arresti sommari, omicidi. Nessuno che gridi alla violazione dei diritti umani. Tutto questo è triste, anche se siamo decisi a non mollare”.
Om Mustafa passeggia sottobraccio con il marito. Hanno fatto settanta chilometri per arrivare a Basra a manifestare, e vengono qui ogni volta che possono dal loro villaggio. Le lacrime le rigano il volto mentre racconta che suo figlio, ingegnere, lavora in Russia, perché dopo anni di disoccupazione ha deciso che l’unica soluzione era andarsene. “Noi siamo una famiglia normale, che può permettersi di vivere decorosamente – dice – ma proprio qui, dietro alla piazza principale, in questo spazio pubblico, vivono centinaia di persone che non possono più permettersi una casa”. Alle sue spalle c’è un muro di cemento, lungo e con profonde crepe, dietro al quale è cresciuta una baraccopoli. “Per avere il polso della situazione qui – aggiunge Om Mustafa – basta entrare in un ospedale pubblico: è vero che l’assistenza è gratuita, ma se hai bisogno di farmaci devi acquistarli da solo, altrimenti non possono curarti.”
Insieme alla sanità anche il sistema scolastico è uno specchio della crisi. Durgham, insegnante di scuola primaria che gestisce nove classi per uno stipendio da meno di duecento dollari al mese, mentre cammina fra le tende con la bandiera dell’Iraq sulle spalle, ci racconta “in ogni classe abbiamo circa 50 bambini, fare lezione è praticamente impossibile, non abbiamo spazi adeguati e il numero è troppo alto per garantire un insegnamento di qualità. E se questo paese non è in grado di dare nemmeno un’istruzione di base, vuol dire davvero che stiamo toccando il fondo e restare per le strade a oltranza è l’ultima carta che ci resta da giocare”. Prima di decidere di migrare.
Immagine di copertina: Il ponte Al Jumhuriya bloccato dalle barricate . Foto di Ilaria Romano