Domenica 31 luglio 2022 due cittadini pakistani sono stati rimpatriati verso Islamabad su un volo commerciale. La loro deportazione, ha affermato il governo bosniaco, è stata utilizzata come “test”, con la speranza che presto il Paese possa iniziare a noleggiare aerei e a deportarne un numero significativo.
Questo è quanto accaduto questa estate e, il 2 ottobre prossimo, la Bosnia-Erzegovina torna al voto. Come è stato vissuto dall’opinione pubblica questo ”test” e quanto il tema migranti è stato presente nella campagna elettorale?
“In generale il tema non è stato toccato in campagna elettorale, in nessun senso e da nessuno schieramento, nella Federazione croato-musulmana come nella Repubblica serba”, racconta Silvia Maraone, un’esperienza lunghissima nei Balcani, dove oggi coordina i progetti di IPSIA a tutela dei rifugiati e dei richiedenti asilo lungo la rotta balcanica in Bosnia Erzegovina e Serbia. “Credo che questo silenzio sia dovuto al fatto che i numeri si sono abbassati molto nell’ultimo anno, quindi anche per i politici locali non è un tema centrale, anzi, meglio non parlarne per evitare di complicarsi la vita. La campagna elettorale in generale è stata piuttosto sottotono, sempre gli stessi slogan e, probabilmente, dei risultati senza grandi novità. In questo quadro di stallo, il tema migranti non conveniva a nessuno, anche perché ripeto i numeri sono in calo. Lo scenario è molto cambiato nell’ultimo anno, anche le pressioni Ue sulla Bosnia-Erzegovina per i migranti non sono particolare, perché credo che alla fine in Europa si attenda di capire quali saranno gli interlocutori”.
Da questo punto di vista, infatti, rispetto ai rimpatri dei migranti da Sarajevo, si era temuto un accordo simile al Joint Way Forward del 2016 con l’Afghanistan: vincolare gli aiuti umanitari alle performance di respingimento.
“Non ho affatto questa impressione”, commenta Maraone. “E non ho neanche l’impressione che questi rimpatri abbiano avuto un grande impatto. Ne hanno parlato i media, certo, ma in maniera residuale e tra gli stessi migranti, alla fine, il rimpatrio è una possibilità con la quale convivono fin dal primo giorno del loro lungo viaggio. Come la carenza di informazioni, che li porta a comprare a peso d’oro un sogno, alimentandolo con la speranza che a loro andrà bene. In realtà non va bene quasi mai, finiscono per essere vittime di tratta ed esposti a rischi sempre maggiori. Per questo non credo che la notizia dei due rimpatri abbia colpito più di tanto persone che partiranno comunque, perché hanno motivazioni troppo alte per cambiare idea”.
La stessa opinione pubblica in Bosnia-Erzegovina, non pare colpita dal “test” di Sarajevo. “Alla fine la sensazione, un po’ per tutti, è quella di un’operazione di facciata, molto più legata ai rapporti commerciali tra Pakistan e Bosnia-Erzegovina. Islamabad ha massicci investimenti nel paese e questa è una forma – apparente – di reciprocità”, racconta Maraone.
L’unica certezza è che l’Ue, secondo quanto dichiarato all’agenzia di stampa Srna da Sasa Kecman, consigliere del ministro della Sicurezza della Bosnia-Erzegovina, ha promesso a Sarajevo mezzo milione di euro dai nuovi fondi di adesione per la riammissione dei migranti illegali dalla Bosnia Erzegovina nei loro paesi di origine. Per stessa ammissione del ministro, non si sa quando saranno operativi i fondi, ma si conosce la procedura per spenderli. “La Bosnia-Erzegovina non può ricevere direttamente questi fondi, che vanno dall’UE all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), che, quando li riceve, acquista i biglietti aerei e finanzia tutto il necessario per la riammissione dei migranti illegali”, ha spiegato Kecman, che quantificava a fine agosto in 2mila i migranti irregolari presenti nel paese.
L’accordo tra i due stati, in realtà, risale al novembre 2020. La Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese dei Balcani occidentali ad avere un accordo di riammissione con il Pakistan dopo oltre dieci anni di trattative e dopo che il governo pakistano aveva sospeso quello siglato con l’Unione europea nel 2015.
Nell’aprile 2020, l’allora ministro della sicurezza bosniaco, Fahrudin Radoncic, ordinò al Servizio per gli affari esteri SFA del paese di compilare un elenco con una stima di 9mila-10mila migranti di cui era prevista l’espulsione, perché si trovavano in Bosnia-Erzegovina senza i documenti corretti o visti. L’elenco avrebbe incluso la maggior parte dei pakistani, all’epoca circa 3mila, ma escludeva quelli provenienti dalla Siria.
Ne è seguita una disputa tra Sarajevo e Islamabad, con Radoncic che ha chiesto che l’ambasciatore pakistano a Sarajevo fosse dichiarato “persona non grata”. Dopo aver avanzato questa richiesta, Radoncic si è dimesso, per il mancato sostegno della presidenza della BiH e del suo ministro degli Esteri dell’epoca, che non volevano rompere i legami con il Pakistan.
L’intesa, entrata in vigore il 23 luglio 2021, nasce su mandato delle istituzioni europee, secondo la ricercatrice Gorana Mlinarevic, che spiegava come secondo lei “di fatto è stata posta come pre-requisito al Paese balcanico per entrare nell’Ue: la sottoscrizione di accordi con Paesi terzi per facilitare le espulsioni dei migranti è un tassello fondamentale anche perché per diverse nazionalità, come quella pakistana, questo rappresenta l’unico modo per l’Ue di rimpatriare le persone. E Bruxelles lo sa bene”.
“In generale queste persone torneranno, con nuovi costi, nuovi rischi, nuovo sfruttamento”, commenta amaramente Maraone. “Lo sanno tutti, compresa l’opinione pubblica in Bosnia-Erzegovina, come accade anche in Italia dove in questi anni a un gran parlare di rimpatri non sono seguite azioni reali, anche per i costi logistici, mentre altri paesi Ue son stati più zelanti”.
Al momento non si sono registrati altri rimpatri di cittadini pakistani, mentre è notizia del 15 settembre che un gruppo di cittadini marocchini che risultava avere precedenti penali in Bosnia-Erzegovina sono stati rimpatriati con un volo da Sarajevo, ma anche le fonti del governo di Sarajevo non hanno specificato alla stampa di quante persone si tratta.
In generale, però, sulla Rotta Balcanica resta un silenzio istituzionale dell’Unione europea. Al di là del confrontarsi con un eterno presente, e non affrontare mai a livello sistemico la situazione, tutto tace anche su temi come i diritti violati dei migranti – che non possono vedere riconosciuta la protezione internazionale e rischiamo il rimpatrio – e le violenze, in particolare sui minori.
Sono drammatici i dati dell’ultimo report di Save the Children, pubblicato il 13 settembre 2022: la violenza fisica per mano della polizia di frontiera è la forma più comune di violenza vissuta dai bambini migranti e rifugiati sulla rotta balcanica.
“I bambini intervistati descrivono di essere stati spogliati nudi, costretti a stare in piedi al freddo e di aver ricevuto scosse elettriche e percosse con bastoni, che hanno portato a gravi lesioni fisiche come fratture o gravi contusioni”, scrivono i ricercatori nel rapporto dell’ong.
Il rapporto si basa su interviste approfondite a 48 bambini di età compresa tra i 13 e i 19 anni in Bosnia ed Erzegovina e in Serbia, la maggior parte dei quali ragazzi non accompagnati, ma anche otto ragazzi e dieci ragazze che viaggiano con le loro famiglie; così come interviste con operatori sul campo che supportano i bambini rifugiati e migranti. Secondo quanto riferito, tutti i bambini intervistati dai ricercatori “hanno raccontato di essere stati vittime di violenze fisiche, psicologiche, sessuali o di altro tipo, direttamente o indirettamente nel loro paese di origine, durante il viaggio, all’attraversamento delle frontiere, nei centri di accoglienza, asilo e detenzione. , negli squat, per strada e sul posto di lavoro”. Tutto questo non si risolverà con i rimpatri e rischia di diventare ogni giorno più feroce.
In copertina: un uomo si fa la doccia in una piccola tenda igloo all’interno di un capannone (fotogramma tratto dal minidocumentario di Stories of Change sulla situazione al confine croato nel 2017)