Nel 2016, la CEDU aveva condannato l’Italia per la detenzione arbitraria di cittadini stranieri nel Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) di Contrada Imbriacola (oggi hotspot) a Lampedusa e a bordo delle navi Vincent e Audacia e per l’assenza di mezzi di ricorso effettivo contro tale trattenimento e le sue condizioni.
Lo Stato italiano, dal 2016 ad oggi, non ha ancora introdotto disposizioni per colmare i vuoti legislativi continuando a detenere persone (compresi minori e vulnerabili) senza la convalida di un giudice, senza la possibilità per i detenuti di poter incontrare un avvocato o poter contestare le condizioni di detenzione.
Interno hotspot Lampedusa, estate 2021 Inlimine
Detenzioni che a volte si protraggono anche per un mese in condizioni disumane e degradanti, nonostante i trattenuti siano spesso persone che hanno subito torture nei lager libici e portatori di gravi patologie, come denunciato da MSF lo scorso settembre.
Esterno hotspot Lampedusa, estate 2021 Inlimine
Nonostante la sentenza di condanna sia del lontano 2016, ancora oggi in Italia continuano ad esservi luoghi di privazione arbitraria della libertà personale dei cittadini stranieri in arrivo sul territorio italiano, come avviene negli hotspot. Tale detenzione avviene ancora senza una chiara base legale, senza un atto scritto adottato dall’autorità competente e convalidato da un giudice, in assenza di un termine massimo di detenzione e senza fornire adeguata informativa sui motivi della detenzione, in aperta e grave violazione dell’art. 13 della Costituzione e delle garanzie previste dall’art. 5 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo.
Già nel 2018 la società civile italiana aveva denunciato la mancata attuazione della sentenza Khlaifia, depositando nuovi ricorsi simili alla CEDU e pubblicando un dossier di testimonianze presentato alla Camera dei Deputati il 10 aprile dello stesso anno ed un report.
Alcune ONG (tra le quali CILD, ASGI e A Buon Diritto) hanno anche attivamente partecipato al procedimento di supervisione dell’attuazione della sentenza – di competenza del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa – depositando una decina di memorie da luglio 2018 ad oggi per dimostrare che il Governo italiano non ha fatto il resto di niente per porre fine alla sistematica violazione dei diritti umani in questi non luoghi.
Un elenco esaustivo degli interventi della società civile nella procedura di supervisione:
Comunicazione Progetto In Limine 16 luglio 2018
Comunicazione ASGI 20 febbraio 2019
Comunicazione ASGI e A Buon Diritto Onlus 13 agosto 2019
Comunicazione AIRE, DCR, ECRE, ICJ 5 settembre 2019
Comunicazione CILD 28 febbraio 2020
Comunicazione ASGI e A Buon Diritto Onlus 27 gennaio 2021
Comunicazione CILD 27 gennaio 2021
Comunicazione ASGI, A buon Diritto e CILD e replica del Governo italiano del 28 ottobre 2021
Comunicazione ASGI, A buon Diritto e CILD e replica del Governo italiano del 12 ottobre 2021
Per quanto riguarda l’assenza di un rimedio efficace per contestare le condizioni di detenzione, le possibilità prospettata dal Governo di fare reclamo in un procedimento d’urgenza presso il Tribunale ordinario e di chiedere un risarcimento economico sono state messe in discussione dalla società civile. Di conseguenza il Comitato, nella sessione del marzo 2021, in linea con quanto osservato dalle associazioni, ha richiesto alle autorità italiane di fornire decisioni giudiziarie in grado di dimostrarne l’efficacia, specificando che in mancanza di tale prova vi è la necessità improrogabile di adottare misure che garantiscano rimedi giurisdizionali per contestare le condizioni di detenzione. Ebbene il Governo italiano, anche nell’ultima comunicazione di ottobre 2021, non è stata in grado di produrre neanche un precedente giudiziario relativo agli hotspot. Ciò in quanto il mancato accesso degli avvocati presso l’hotspot comporta l’impossibilità per i trattenuti di poter essere assistiti dai propri difensori per reclamare i propri diritti. Dunque, oltre all’inesistenza di rimedi ad hoc previsti per chi è trattenuto in hotspot, anche i rimedi generali citati dal Governo nelle comunicazioni al Comitato non sono mai stati utilizzati perché i trattenuti in hotspot non hanno accesso agli avvocati e, in definitiva, alla giustizia.
In relazione alla mancanza di una base giuridica, alla mancata informazione e all’assenza di controllo giurisdizionale per quanto riguarda la detenzione dei cittadini stranieri nei centri di prima accoglienza, il Comitato si è riservato, lo scorso marzo, di analizzare l’attuale quadro legislativo delineato nella memoria del governo del febbraio scorso dove si sostiene che con il cd Decreto Lamorgese (ed ancor prima con i ccdd Decreto Salvini e Decreto Minniti) si sia data piena attuazione alla sentenza Khlaifia. Tuttavia, come puntualmente osservato dal Garante nazionale per i diritti delle persone private libertà personale, il decreto Lamorgese non contiene aspetti innovativi per gli hotspot, limitandosi ad innovazioni relative ai soli Centri di Permanenza per il Rimpatrio.
Non a caso, anche durante la scorsa estate nell’hotspot di Lampedusa le persone sono state detenute di fatto – anche per un mese – in assenza di una convalida di un giudice e di misure igienico sanitarie e misure di prevenzione al contagio (ad esempio il distanziamento sociale), in condizioni disumane e di forte sovraffollamento e di promiscuità, con picchi anche di più di 1000 persone a fronte di una capienza di 250 posti.
Da quanto monitorato nell’ambito dell’attività di supporto legale svolta dal progetto Inlimine di ASGI, nello specifico con riferimento al solo periodo luglio-agosto 2021, il trattenimento informale e prolungato ha interessato anche le cittadine e i cittadini stranieri più vulnerabili – in assenza di meccanismi strutturati di presa in carico, referral e trasferimento prioritario per le persone sopravvissute a naufragio, tratta, violenza di genere, tortura o comunque con specifiche vulnerabilità – e i minori, i cui i trasferimenti sono risultati spesso rallentati dall’indisponibilità di posti in centri dedicati all’isolamento sanitario. In particolare, sono stati seguiti alcuni casi di persone soggette a trattenimento informale prolungato presso l’Hotspot di Lampedusa anche laddove presentavano vulnerabilità sanitarie e/o psicologiche. A titolo esemplificativo, un nucleo familiare composto da due minori e la madre con carcinoma è stato trattenuto presso l’hotspot in condizioni inadeguate e in assenza di accesso a cure specialistiche dal 12 luglio al 12 agosto scorso, data in cui il nucleo è stato finalmente trasferito in un centro dedicato all’isolamento fiduciario. Un altro nucleo monoparentale composto da due figli minori di cui uno affetto da malattia invalidante che provoca disabilità motorie e padre richiedente protezione internazionale è stato trattenuto dal 1 luglio al 10 agosto scorso presso l’hotspot.
Per questo motivo nelle ultime comunicazioni inviate da CILD, ASGI e A buon diritto, le ONG hanno chiesto al Comitato dei Ministri di non chiudere la procedura di supervisione in occasione della prossima riunione del 30 novembre, con l’auspicio che finalmente il Governo italiano, a ben 5 anni di distanza dalla condanna, introduca misure idonee a garantire diritti fondamentali alle persone che arrivano sulle nostre coste. Bisognose di assistenza sanitaria e presa in carico e non già di detenzione arbitraria e assenza di garanzie.