Ambrate da un tramonto di fine gennaio, le pianure intorno a Foggia fanno da sfondo agli uomini che tornano dai campi; chi a piedi, chi in sella a una vecchia bici. La Fabbrica è rimasta come quando l’ho vista per la prima volta nel 2016 – bianca e circondata da un’inferriata azzurra. Appena oltrepassato il cancello c’è il pozzo da cui prendere l’acqua per lavarsi. Il generatore, a fianco della piccola rampa di scale che porta all’entrata, riposa durante le ore di luce.
La Capitanata è un distretto storico-culturale della Puglia settentrionale che coincide con la provincia di Foggia, ed è qui che lavorano gli uomini che abitano la Fabbrica. Anche se, come riporta l’Osservatorio dei Diritti, dal 27 maggio 2016 è stato instaurato il “Protocollo sperimentale contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura”, il grave sfruttamento rimane prevalente nel settore primario italiano, e il peso di questa economia continua a gravare sulle persone che sbarcano sulle coste dell’Italia meridionale.
Alessandro Leogrande, nel suo libro “Uomini e caporali: Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud”, spiega come l’agricoltura italiana è sommersa nel lavoro grigio per il 70 per cento e nel lavoro nero per il 25 per cento, il che lascia soltanto un esiguo 5 per cento di aziende sul territorio completamente in regola. In questo scenario, il caporalato e lo sfruttamento sono normalizzati, tanto da rendere uno stipendio di quattro euro l’ora un’opportunità da non perdere; e Aliou, un uomo senegalese di 30 anni, si sente addirittura fortunato quando mi racconta di essere riuscito a ottenerlo.
La Fabbrica Occupata è un ex impianto della Granarolo sulla strada che collega Foggia a Manfredonia. Oggi è un posto dove dormire, ma cosa ancora più importante, è un luogo dove trovare rispetto reciproco e solidarietà diffusa. Nel 2009, Moussa, un senegalese di 18 anni, ha aperto per primo i cancelli dell’inferriata che circonda lo stabilimento. “Ha occupato la Fabbrica per crearsi un’alternativa al Ghetto di Rignano Garganico”, mi racconta Alessandro Ventura, un membro di Pro/Fuga, il laboratorio sulle migrazioni di Foggia. Il Ghetto di cui parla Ventura è un luogo dove regnano oppressione, sfruttamento e indebitamento, frutto delle reti del caporalato che permeano l’agglomerato di baracche. Come raccontava un articolo del Fatto Quotidiano un anno fa, il Ghetto “da vent’anni raccoglie i migranti che arrivano in Puglia per raccogliere i pomodori”, fornendo ai caporali e ai “padroni” un’ingente riserva di manodopera da sfruttare. Anche se smantellato a marzo del 2016, continua a essere ricostruito, e ad ogni stagione lo usano come punto di appoggio per le persone che cercano lavoro nei campi tra Foggia e Rignano.
In poco tempo, alcuni amici di Moussa hanno cominciato ad arrivare alla Fabbrica, creando progressivamente una piccola comunità di braccianti. Oggi questa comunità è diventata un insediamento con un ruolo fondamentale nella vita di chi vi abita, e offre uno spazio a chi non sopporta più il clima di soprusi e di prevaricazione che si è creato nel Ghetto.
Una Casa Africana
“Questa è una Casa Africana”, mi dice Samba, un ragazzo della Guinea Bissau di 25 anni che viene e va dalla Fabbrica dal 2014. “In Italia ce ne sono dappertutto; sono posti dove poter dormire, se devi lavorare o rinnovare i documenti”. Come tale, la Fabbrica funge da pied à terre nella Capitanata ed è un porto franco dove trovare solidarietà e supporto.
Divisa in due parti, ospita un gruppo di persone di etnia fula e un gruppo di mandinghi che vengono prevalentemente dal Senegal e dalla Guinea Bissau.
La Fabbrica si distingue per un codice di condotta e un’organizzazione politica orizzontale caratterizzate da un forte senso di solidarietà e condivisione. Il senso di appartenenza – radicato nell’identità condivisa dell’essere braccianti agricoli ma soprattutto di essere fula e mandinghi – è alla base di questo senso di solidarietà e permette a tutti di partecipare in egual misura ai vantaggi offerti dalla comunità e di esprimere opinioni su come gestire la vita quotidiana. “La parte anteriore è occupata dai fula, dietro invece ci abitano i mandinghi; ma proveniamo tutti dagli stessi paesi”, mi spiega Samba, “l’unica differenza è la lingua che parliamo. Anche se siamo divisi facciamo tutti parte di un unico gruppo; il generatore funziona per l’intera struttura e quando compriamo le bombole del gas o qualcosa che ci serve a tutti lo facciamo insieme, così è più facile e costa meno”.
“Tutti devono poter dire la propria opinione e possono esprimere liberamente il loro pensiero, sicuri di essere ascoltati. Quando c’è qualche decisione da prendere o sorge qualche problema, aspettiamo che ci siano tutti per fare una riunione; e le nostre decisioni le prendiamo insieme”, mi dice Kolda, un senegalese di 43 anni. In queste occasioni si discute delle difficoltà, di come relazionarsi con le forze dell’ordine, come accogliere i nuovi arrivati, si decidono i contributi che ciascuno deve dare alla cassa comune o si condividono opportunità di lavoro.
Quando gli chiedo se c’è un leader, Kolda mi dice: “dopo cena, quando tutti sono tornati da lavoro, se qualcuno ha qualcosa da dire può parlare così tutti lo sentono, se serve qualcosa si decide insieme, e se c’è da comprare qualcosa tutti devono contribuire”.
Alessandro Ventura, che come membro di Pro/Fuga ed esperto delle diaspore africane nella Capitanata, è entrato in contatto con la Fabbrica nel 2015, mi racconta che questa “non ha seguito un percorso di organizzazione ben definito ed è diventata una comunità grazie a un passaparola basato sull’appartenenza etnica”.
“Le regole non sono state decise da un giorno all’altro. Mentre è normale che l’anzianità e il fatto di vivere alla Fabbrica da più tempo conferisca un certo grado di leadership, l’organizzazione della Fabbrica è emersa dal bagaglio culturale che questi uomini si sono portati dai propri luoghi di origine, e da un tentativo di crearsi un’alternativa agli stabilimenti informali dove regna il caporalato”.
Nella Fabbrica, il consumo di alcolici, di droghe o la presenza di donne sono vietati. Come mi spiega Samba, queste regole “tengono fuori i problemi: vogliamo solo vivere in pace mentre lavoriamo. Se ci fossero donne, questo aumenterebbe il rischio che nascano gelosie o forme di prostituzione. L’alcol sarebbe pericoloso perchè le persone ubriache potrebbero creare litigi”.
Queste regole mirano a limitare l’attrito della comunità con la realtà sociale che la circonda e mantengono la Fabbrica nell’ombra, lontano dallo sguardo delle autorità. Questo conferisce agli uomini una sorta di invisibilità e permette loro di vivere in uno stato di eccezione in cui la loro permanenza è tollerata.
Dato che la maggior parte degli abitanti dell’impianto sono musulmani, la condivisione di fede riduce ulteriormente la possibilità che qualcuno veda queste regole come inopportune.
Da quando è stata occupata, sono pochi gli episodi in cui la Fabbrica è stata presa di mira. Nel 2013 un comitato di quartiere ha pubblicato su FoggiaToday un comunicato in cui denunciava la pericolosità dell’insediamento da un punto di vista igienico, sostenendo che la presenza di uomini africani all’interno della Fabbrica “desta comprensibile timore” nelle donne e nei ragazzi della zona.
“Alla fine di dicembre 2015 qualcuno ha buttato dei petardi contro la porta d’ingresso”. È l’unico episodio di aggressione di cui si ricorda Alessandro Ventura. Secondo lui, le reti di caporalato e la criminalità organizzata non c’entrano, e si è trattato solo di un episodio di intolleranza e razzismo.
Poco dopo lo sgombero del Ghetto di Rignano Garganico nel 2016, la polizia municipale e i carabinieri hanno condotto un’attività di ricognizione e identificazione che si è svolta “senza alcun particolare tipo di disordine”, e non ha avuto effetti significativi sulla Fabbrica e chi la vive.
Mentre tira su l’acqua dal pozzo, El Haji, un mandingo senegalese, mi dice: “dietro siamo una quarantina, tra i venti e i cinquant’anni”. Nella porzione anteriore dell’edificio i numeri sono simili, e ogni anno, con l’arrivo della primavera, questi numeri raddoppiano, rendendo la Fabbrica un nodo significativo nella rete dell’economia agricola europea.
A cena nella Fabbrica
Sul far della sera rientra dal lavoro Karim, un senegalese di 36 anni. Ci raggiunge intorno al bidone dove ci scaldiamo e comincia a preparare del tè. È una delle persone che vive nella Fabbrica da più tempo e mi mostra le foto di sua moglie e dei suoi figli. “Devo lavorare per mandare i soldi a casa”, dice, “tutti i miei bambini vanno a scuola, e sto aggiustando una casa per mia moglie, il lavoro è duro ma non c’è un’altra soluzione”.
Come lui, la maggior parte degli uomini che vivono nella Fabbrica sono giunti in Italia dalla Libia, dove si erano recati per lavorare. Molti non avevano intenzione di venire in Italia. “L’esercito ci ha messo in prigione e poi sulle barche. In Libia prima della guerra c’era lavoro, si stava bene”, mi dice Samba mentre racconta il suo viaggio verso Lampedusa.
Dal bidone salgono il fumo e l’odore di compensato che brucia. Sotto l’ampia volta della sala, vicino alle finestre opache che illuminano la stanza, i due uomini di corvée lavano le bacinelle dove scodellare il riso quando è pronto.
Dietro i fornelli c’è una lista di tutti gli abitanti della Fabbrica. “L’elenco stabilisce chi cucina”, mi spiega Samba “i soldi per il cibo vengono raccolti ogni mese”. Quando chiedo come hanno deciso queste regole, mi fa capire che è un approccio emerso in modo organico dalla necessità. “Se mettiamo i soldi insieme riusciamo a mangiare per poco, così ci dividiamo la responsabilità ed è più facile per tutti. La lista serve anche per sapere chi vive qui”.
Mentre la sala si riempie, il rumore del generatore viene sommerso dal peul, la lingua dei fula che si parla radunati attorno alle grandi bacinelle d’acciaio colme di riso. “Bismillah”, “in nome di Dio”, è l’espressione che ci scambiamo prima di affondare le dita nella porzione di riso che ci spetta. Sono questi i momenti in cui nel gruppo emergono informazioni sui “padroni” che cercano braccianti, o varie notizie che fanno parte della vita quotidiana.
Grazie alla condivisione dello spazio, del tempo e del capitale sociale, questi uomini riescono a crearsi una rete di relazioni che li aiuta a svincolarsi dalla criminalità e dalle forme di sfruttamento lavorativo.
Condividendo un’identità di migranti agricoli e di africani occidentali, questi due gruppi riescono a convivere in un rapporto simbiotico. Dividendosi, la gestione delle risorse e della vita di tutti i giorni diventa più facile, ma abitare uno spazio comune e condividendo un’identità che è più ampia della loro appartenenza etnica permette loro di interagire con il contesto foggiano come un unico soggetto, con un maggiore potere sociale.
Gli spazi fisici e sociali qui hanno un ruolo fondamentale nel fornire un riparo dalla violenza del mercato del lavoro irregolare e uno strumento di autodeterminazione. È solo grazie a queste reti che gli uomini, pur lavorando in condizioni di grave sfruttamento, riescono a evadere il giogo del caporalato, anche se non ottengono vere e proprie condizioni sindacali migliori in quanto gruppo. I legami di chi è nella Fabbrica da più tempo permettono anche ai nuovi arrivati di trovare lavoro presso i “padroni” che pagano meglio, evitando di dover passare per caporali e intermediari. Anche se la Fabbrica resta nel contesto agricolo foggiano, e quindi in un’economia che dipende dallo sfruttamento, queste persone sono in grado di organizzarsi in strutture orizzontali di solidarietà e cooperazione che trascendono i modelli individualisti del mercato e della competizione – strutture orizzontali che hanno origine nelle società tradizionali dei loro paesi d’origine.
In copertina: partita a dama fra abitanti della Fabbrica (fotografia di Leone Palmeri, come tutte le immagini di questo articolo)