Sono conosciute per i loro litorali di sabbia bianca, per le scogliere frastagliate, il luogo ideale per praticare windsurf e immersioni subacquee. Chi le visita rimane folgorato dagli scenari suggestivi e da quel meraviglioso cielo stellato. Sono una delle mete più gettonate dell’estate ma, in pochi lo sanno, sono anche il punto di arrivo di una delle rotte più letali al mondo.
La rotta atlantica verso le Isole Canarie, infatti, è sempre più battuta tra i migranti dell’Africa Subsahariana occidentale, che cercano un modo per raggiungere l’Europa. Partono dal Marocco, dal Sahara occidentale, dalla Mauritania, ma anche dal Senegal o dal Gambia. La lunghezza del loro viaggio può variare, il punto più vicino delle coste marocchine dista meno di cento chilometri, ma si può arrivare anche a dover colmare una distanza di 1.600 chilometri, man mano che si scende al sud.
UNA STORIA RECENTE
Ed i dati parlano chiaro. Nei primi cinque mesi del 2024, quasi 18.000 migranti sono arrivati alle Isole Canarie attraverso le rotte irregolari. Lo rende noto l’Agenzia europea per le frontiere, nel suo ultimo bollettino, sottolineando anche che si tratta del numero più alto dal 2011, quando ha iniziato a raccogliere dati su quella zona. Gli arrivi irregolari sulla rotta dell’Africa occidentale, dall’inizio dell’anno fino al 31 maggio, sono aumentati del 303% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La maggior parte delle persone intercettate proveniva da Mali, Senegal e Mauritania.
Un dato che stride con gli altri numeri: in termini assoluti, infatti, il numero degli attraversamenti irregolari delle frontiere dell’UE è diminuito di quasi un quarto (23%), rispetto ai primi cinque mesi del 2023, arrivando a quasi 80.000 transiti.
ESTERNALIZZAZIONE DELLE FRONTIERE
All’interno di un continente, quello europeo, sempre più polarizzato nello stringere i rubinetti dell’accoglienza, la politica migratoria spagnola appare meno rigida rispetto a quella, ad esempio, della Danimarca. Il governo danese, anch’esso socialista, ha adottato misure severe contro l’immigrazione, incluse politiche di detenzione dei richiedenti asilo e restrizioni sui ricongiungimenti familiari, cercando di disincentivare le nuove richieste d’asilo. Più che seguire l’onda populista danese anti-immigrazione, il governo di Madrid sembrerebbe invece puntare a rinegoziare gli accordi bilaterali con i paesi limitrofi per trovare soluzioni più efficaci.
La Spagna ha puntato a rafforzare la cooperazione con i paesi africani, come il Marocco, la Mauritania e il Senegal, per controllare le partenze, includendo finanziamenti per migliorare la capacità di controllo delle frontiere. Ciò ha portato soprattutto ad una militarizzazione della zona costiera, chilometri e chilometri che vengono pattugliati dalla guardia costiera, dalla guardia civile, e anche dai mezzi aerei di Frontex. Per scampare ai controlli, le imbarcazioni prendono il largo nell’Atlantico, incrementando la pericolosità della traversata.
Già nell’ottobre 2022, il governo di Madrid ha siglato un accordo con la Mauritania per rafforzare la cooperazione nella lotta all’immigrazione irregolare. Il piano prevedeva, da una parte, assistenza logistica e formazione per gli agenti di frontiera, e dall’altra la Spagna dispiegava risorse umane, aeree e navali per monitorare le spiagge di Nouadhibou, principale punto di partenza. Nel febbraio 2024 sono stati aggiunti altri finanziamenti, dal valore di 60 milioni di euro, per progetti di sviluppo.
Eppure il 2024 ha visto un incremento delle partenze dalla Mauritania (l’83% secondo la Commissione interministeriale per la migrazione). Questo perché, secondo quanto sostiene Nieves Lady Barreto, ministro della Presidenza e della Sicurezza delle Canarie, la Mauritania avrebbe smesso di effettuare controlli alle frontiere.
CAMBIO DI ROTTA
“Man mano che aumentano i controlli alle frontiere e si amplia la collaborazione con i paesi di origine, il punto di partenza di questi viaggi devia sempre più a sud, e questo aumenta la pericolosità del viaggio”. A parlare è Raúl Baez Quintana, coordinatore dei servizi legali della Croce Rossa, che abbiamo raggiunto nel suo ufficio a Las Palmas. Una carriera trentennale alle spalle, Quintana conosce bene le insidie di simili traversate. E ha visto anche cambiare il volto delle migrazioni negli ultimi anni. A partire dai mezzi di trasporto: “Adesso ci sono imbarcazioni più grandi, chiamate cayucos, che partono sia dal Senegal che dal Gambia”, racconta. “La traversata è più lunga, il periodo di navigazione oscilla tra i 5 e i 7 giorni quando va bene, a bordo salgono più persone rispetto a prima. Quando arrivano a destinazione e noi li soccorriamo, i naufraghi sono in condizioni di salute molto deboli, risentono degli effetti del sole, della disidratazione, della mancanza di cibo e di acqua”. Senza dimenticare che quella atlantica è una rotta molto più insidiosa di quella Mediterranea: “Non si tratta – sottolinea il portavoce della Croce Rossa – di raggiungere il continente europeo da una costa all’altra, ma piuttosto di lasciare un continente per andare in un arcipelago, che è qualcosa di estremamente più piccolo, ed il rischio di perder la rotta è più alto che mai”. Le correnti sono fortissime, e sono tante le imbarcazioni che mancano le isole e finiscono in mare aperto. A metà aprile scorso, i resti di un cayuco sono stati ritrovati in Brasile, a duecento chilometri da Belem. A bordo son stati rinvenuti nove cadaveri ma, a giudicare dai giubbotti, su quel barcone ci sarebbero state almeno 25 persone che, stando alle ricostruzioni, provenivano dal Mali e dalla Mauritania. Volevano arrivare in Europa raggiungendo le Canarie, ma l’oceano li ha spinti, invece, sul suolo americano.
ROTTA LETALE
E’ difficile tenere la conta di chi ce l’ha fatta e chi no a sopravvivere alla traversata atlantica. Secondo le stime della Ong Caminandos Fronteras, nei primi cinque mesi del 2024 sarebbero morte 4.808 persone nella rotta canaria, 3.600 partite dalla Mauritania, 959 dal Senegal e 249 dal Marocco. E con l’estate il numero è destinato a salire esponenzialmente.
Ma non è sempre stato così. La rotta atlantica segnò un picco nel 2006, anno in cui si registrarono 30.000 arrivi (e 6.000 morti), poi venne progressivamente abbandonata e, per oltre dieci anni, è rimasta poco battuta. E’ “tornata in funzione” a partire dal 2020, anche in concomitanza con il Covid, e da lì l’ascesa non si è più fermata.
Raúl Quintana ricorda bene gli anni della pandemia: “Il sistema di accoglienza è stato messo a dura prova da quell’improvviso flusso migratorio, non c’erano strutture adeguate, e non c’era neanche un piano specifico. Vennero usati gli hotel, visto che il turismo era praticamente bloccato durante la pandemia, poi l’amministrazione ha articolato un meccanismo di gestione che via via è stato perfezionato, per far in modo che le Isole non vengano congestionate, soprattutto durante i mesi estivi”.
I CENTRI D’ACCOGLIENZA
Oggi nell’arcipelago sorgono vari centri d’accoglienza, uno dei più grandi è Canaria 50, a Las Palmas, un’ex base militare convertita, che accoglie fino a 1400 persone. E’ gestito dalla Croce Rossa. Si trova nei pressi dell’ultimo terminal degli autobus urbani prima del porto. Fuori dal centro il via vai di persone è ordinato, alcuni siedono sul muretto grezzo che delimita l’inizio di Calle Harimaguadas, cuffiette e telefono a portata di mano, con lo sguardo seguono l’andamento lento dei passanti. Più movimentata la situazione nella piazza, qui l’andirivieni è costante, tra chi sale e scende dal bus, e chi osserva, con occhio distaccato, scene ordinarie di vita quotidiana. Gli ospiti del centro li riconosci facilmente. Indossano tutti un braccialetto di tessuto, con lo stemma della Croce Rossa.
Anche Mamadou e Abdou lo hanno al polso. Siedono su una panchina sotto le palme, nel centro della piazza. Entrambi arrivano dalla capitale del Senegal, Dakar, e si trovano nel centro da un paio di settimane. “Il viaggio è stato duro, per due giorni siamo rimasti senza cibo né acqua, pensavamo di morire, ma grazie a Dio ce l’abbiamo fatta ad arrivare fin qui”, dice Mamadou. Si trovano bene nel centro, l’obiettivo però è quello di raggiungere la penisola, il prima possibile, per avere i documenti in regola, lavorare e mandare soldi alle loro famiglie rimaste in patria: “Se decidiamo di rischiare la nostra vita salendo su quelle barche, e sfidando l’Oceano, è solo per dare un futuro felice alle nostre famiglie”, afferma Abou mentre, sul telefono, fa scorrere le foto delle sue sorelle vestite in abiti tradizionali dai colori sgargianti.
Il processo di identificazione, sull’isola, può richiedere massimo due mesi, dopo di ché gli assistiti vengono trasferiti sulla terraferma, a Madrid o a Malaga, e da lì indirizzati nei centri di accoglienza, dislocati in diverse città, dove intraprendono il percorso per il riconoscimento del loro status. L’iter può durare dai 3 ai 18 mesi, ma non tutti son disposti a rimanere nei centri, in attesa, per un lasso di tempo così elevato.
LE MANI TESE DELLA GENTE DEL QUARTIERE
Ubicato nel cuore di Las Palmas, il centro Canaria 50 è in funzione da più di due anni; gli abitanti del quartiere hanno imparato a conviverci.
Javier Sheng Pang Blanco è un giovane giornalista di una tv locale, ed ogni giorno passa davanti al centro per raggiungere il posto di lavoro. “C’è sempre un gran via vai in questa strada, soprattutto nel pomeriggio – afferma – ma in generale son persone molto rispettose, sono in gruppo e si spostano, non creano alcun tipo di problema”.
Un po’ diversa l’opinione di Isidro, che vive proprio ad una manciata di metri dall’ingresso del centro: “Prima c’erano soprattutto marocchini, ed era un casino. Facevano rumore, si ubriacavano, rientravano oltre l’orario stabilito e trovavano il cancello chiuso, ed allora iniziavano a bussare forte, a lanciar sassi, era veramente brutto. Adesso invece le nazionalità sono cambiate, adesso ci sono soprattutto senegalesi, maliani, e loro non creano alcun tipo di problema”. Anche Raúl, il portavoce della Croce Rossa, sottolinea il buon rapporto che la gente del posto ha instaurato con i migranti: “Gli abitanti dell’isola hanno un carattere molto aperto, non a caso ci troviamo in un’isola turistica, siamo aperti ad accogliere, e a scoprire nuove culture”.
Il timore, come spesso succede, è che l’ondata migratoria possa rappresentare un ostacolo al turismo. Ma i numeri non mostrano alcuna relazione tra questi due fenomeni: “L’anno scorso c’è stato il picco di arrivi di profughi, e allo stesso tempo abbiamo registrato un boom turistico, un aumento delle entrate del 23% rispetto al 2019, anno di riferimento prima della pandemia – afferma Javier Sheng Pang Blanco – e questa è la prova che le migrazioni non danneggiano il volto dell’isola”. Un appunto però ci tiene, Javier, a farlo: “E’ inaccettabile che non si parli della rotta canaria, e di tutto quello che succede e che viviamo noi quotidianamente. E’ vero, siamo il punto d’Europa più vicino all’Africa, la nostra è una posizione strategica, ma non lo abbiamo scelto noi. Quello che pensiamo è che, se ci fosse stato qualche paese più importante al nostro posto, sicuramente l’attenzione mediatica sarebbe stata maggiore”.