I paesi dell’Europa sudorientale – rimasti pericolosamente sospesi in questi anni ai margini dell’UE, nonostante le reiterate promesse di integrazione – sono divenuti la terra di transito attraverso cui centinaia di migliaia di persone, rifugiati, migranti, richiedenti asilo, provenienti soprattutto dalle aree più instabili del Medio oriente (Siria, Iraq, Afghanistan) hanno cercato di raggiungere il cuore dell’Unione – Italia compresa – in cerca di rifugio, lavoro, prospettive di una vita nuova.
Anche prima che la “rotta balcanica” diventasse terreno di confronto e aspro scontro politico, sia a livello UE che nazionale, i Balcani si erano però già delineati come un nodo centrale dei flussi migratori diretti verso l’UE e l’Italia in particolare.
Con la fine della Guerra Fredda, diversi fattori hanno contribuito a fare dell’Europa sud-orientale uno dei protagonisti dei fenomeni migratori a livello continentale. Il crollo dei regimi comunisti nell’area è stato accompagnato da trasformazioni radicali, spesso repentine e violente come quelle che hanno segnato la disgregazione della Federazione jugoslava, la fine sanguinosa del regime di Ceaușescu in Romania o il collasso di quello claustrofobico instaurato da Enver Hoxha in Albania. Al terremoto politico e bellico, si sono aggiunti presto quello sociale ed economico, con tutti i paesi della regione alle prese con la crisi irreversibile dei sistemi di produzione, l’impennata della disoccupazione ed un clima di incertezza destinato a durare per anni.
Queste intense trasformazioni politiche, sociali ed economiche, sfociate nel caso jugoslavo in una guerra civile nel cuore d’Europa, hanno spinto o costretto larghe fasce della popolazione a spostarsi, sia come scelta individuale che di massa.
Un’analisi di questa realtà composita, di questa umanità in movimento, difficilmente può essere esaustiva: si parla di fenomeni diversi, intrecciati e complessi, ognuno dei quali ha avuto ragioni e conseguenze politiche dentro e fuori dalla regione stessa.
Come diretta conseguenza di quelle dinamiche, all’inizio degli anni ‘90 l’Italia ha “riscoperto” i Balcani con due ondate migratorie praticamente contemporanee: quella che è seguita alle guerre di dissoluzione jugoslava, esplose a partire dal 1991, e quella legata al crollo del regime comunista albanese, simboleggiata nella memoria collettiva dallo sbarco della “Vlora” nel porto di Bari nell’agosto dello stesso anno. Due esperienze profondamente diverse non solo per portata e dinamiche, ma anche per l’accoglienza riservata nel paese a chi bussava allora alle porte delle frontiere italiane.
L’arrivo di rifugiati dalla ex Jugoslavia in Italia è stato infatti in gran parte accompagnato da una mobilitazione nazionale di solidarietà verso i civili vittime dei conflitti cruenti nella regione balcanica. Decine di migliaia di volontari parteciparono a missioni umanitarie nelle zone di guerra e si attivarono per accogliere i profughi in fuga dal conflitto.
L’immigrazione albanese, invece, dopo una breve fase di risposta solidale da parte dell’opinione pubblica italiana, ha dovuto fronteggiare una rapida crescita di paura, ostilità e rifiuto. Per un decennio gli albanesi sono assurti a simbolo della minaccia alla sicurezza nazionale, finendo vittime di campagne xenofobe di straordinarie proporzioni.
In entrambi i casi l’Italia ha scoperto allora le potenzialità dell’accoglienza diffusa ed ha impostato in quegli anni la propria gestione delle ondate migratorie, che nel decennio successivo sarebbero confluite nel sistema SPRAR, proponendo un modello di successo nelle pratiche europee.
La risposta xenofoba che ha dominato larghe fasce dell’opinione pubblica italiana a partire dagli anni ‘90, concentrandosi soprattutto sulla presenza albanese, ha accompagnato le trasformazioni del fenomeno che nel frattempo diventava strutturale, allargandosi ad altri paesi della regione.
A partire dagli anni 2000, le migrazioni dai Balcani però si sono radicalmente trasformate per il mutare delle condizioni giuridiche. L’aspirante migrante non doveva rischiare la vita nel canale di Otranto per fare ingresso nel paese, era sufficiente munirsi di un visto turistico. Niente morti in mare o respingimenti violenti della polizia di frontiera, della guardia costiera o della marina.
Le possibilità di ingresso, seppur irregolare, con visto turistico e le successive sanatorie consentivano quindi a centinaia di migliaia di persone di stabilirsi e trovare lavoro in Italia. Dalle regioni più economicamente svantaggiate della Romania, come la Moldavia rumena, a quel punto si attivava un flusso consistente di nuovi immigrati verso l’Italia.
Seppure con un certo ritardo rispetto ai paesi dell’Europa centro orientale, nel gennaio del 2007, Romania e Bulgaria diventavano membri dell’Unione Europea a tutti gli effetti. Ma già dal 2002 si era fatto un ulteriore salto in avanto con l’abolizione anche dei visti turistici per i cittadini dei due paesi. Nel giro di pochi anni, la comunità rumena – che nel 2002 contava meno di 100mila persone – è così diventata rapidamente la più numerosa in Italia, superando il milione di presenze già nel 2013.
La migrazione dai Balcani occidentali rimasti fuori dall’UE, in realtà, non si è distinta in maniera sostanziale da quella dei paesi entrati nello spazio comune. Seppur di dimensioni più contenute, anche l’immigrazione dalla Repubblica di Moldova ha seguito dinamiche simili. In questo caso, nonostante il piccolo stato ex-sovietico sia rimasto lontano dalla prospettiva di integrazione europea, a giocare un ruolo importante è stata ancora una volta l’abolizione dei visti Schengen, arrivata nel 2014.
Concentrata sugli effetti delle migrazioni sul proprio tessuto economico, sociale e umano, solo raramente l’opinione pubblica italiana ha ragionato sulle ricadute del fenomeno sui paesi d’origine nell’area balcanica. Se da una parte i migranti hanno alimentato in modo costante l’economia dei propri paesi d’origine con ingenti rimesse, che spesso hanno rappresentato la prima voce degli investimenti provenienti dall’estero, dall’altra il trasferimento in massa delle risorse umane più promettenti, in termini di età ma anche di competenze, ha frenato le prospettive di crescita economica delle regioni più interessate dal fenomeno.
Altri squilibri hanno avuto un impatto di lungo periodo: l’emigrazione da alcuni paesi, come la Repubblica di Moldova, ha riguardato prevalentemente le donne, impiegate in Italia nella cura di anziani e persone bisognose di assistenza. Un fenomeno che ha portato alla disgregazione dei tessuti familiari e sociali, e a migliaia di minori costretti a crescere come “orfani bianchi”.
Il terremoto demografico nel sud est Europa degli ultimi trent’anni ha significato migrazione esterna, ma anche radicale redistribuzione della popolazione. Ci sono state consistenti migrazioni interne al paese nel caso dell’Albania e centinaia di migliaia di sfollati nei paesi nati dalla dissoluzione jugoslava.
Nel primo caso, una volta crollato il regime, la popolazione poteva infatti liberamente circolare all’interno del paese dove prima era costretta a risiedere in base alle scelte politiche. La radicale trasformazione post-comunista ha quindi visto triplicare gli abitanti della capitale Tirana e un forte abbandono delle aree remote del paese.
Nel secondo caso invece la pulizia etnica che ha accompagnato i conflitti ha prodotto due milioni di profughi fuori dalla regione e centinaia di migliaia di sfollati interni. Quando attorno al 2010 la “rotta balcanica” ha iniziato a manifestarsi con migliaia di migranti dal Medio Oriente e dall’Asia costretti a fermarsi ad ogni frontiera nel tentativo di raggiungere i paesi più ricchi dell’Unione Europea, ci si resi conto che i centri collettivi ospitano ancora oggi migliaia di profughi delle guerre degli anni ‘90.
Se delle migrazioni interne ci si occupa poco, nella regione si discute intensamente delle conseguenze del declino demografico generato dalla migrazione verso l’estero. Si vorrebbe trarre maggiore beneficio economico facilitando la migrazione circolare e si inizia a discutere dell’impoverimento che deriva dall’emigrazione in un contesto di invecchiamento della popolazione. Tuttavia, fino a quanto le prospettive di vita e le condizioni generali nel paese di origine non saranno migliorate in campo sanitario, educativo, pensionistico e, in senso lato, nel funzionamento delle istituzioni dello Stato, difficilmente questa emorragia di persone potrà essere fermata.
Questo approfondimento fa parte dell’e-book: “A 30 anni dallo sbarco della Vlora. Breve viaggio nell’Italia che si è scoperta paese di immigrazione“.
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