Mujah vive a Medenine con una decina di altri ragazzi in un edificio abbandonato e mai finito, che probabilmente avrebbe ospitato un’attività commerciale dalle grandi vetrate, separate da colonne di cemento, e invece è diventato un dormitorio per i migranti che hanno attraversato da poco la frontiera con la Libia e percorso i primi chilometri in Tunisia. Ha solo un soffitto e tre pareti scrostate, quattro materassi logori per terra, qualche mattone per sedersi e scaldare un pasto di fortuna davanti al fuoco.
La città che lo ha “accolto”, poco più di 71 mila abitanti, si trova nel sud est della Tunisia, a circa un centinaio di chilometri dal confine di Ra’s Ajdir, sulla strada che i migranti percorrono dalla Libia verso Sfax, polo industriale del paese e principale snodo delle partenze via mare.
“Il mio nome significa grande leader, giudice imparziale, persona che riesce ad evitare i problemi – racconta Mujiah, che a 26 anni ne ha già persi due nelle maglie di un viaggio estenuante e interminabile – doveva essere di buon auspicio quando i miei genitori lo hanno scelto, e invece…”
Smette di parlare e comincia ad arrotolare i pantaloncini di jeans che ha addosso fin sulle cosce, scoprendo lentamente delle grandi cicatrici quadrate, tre sulla gamba sinistra e una sulla destra, dove la pelle si è fatta più scura e appare rugosa come un tessuto asciugato al sole.
“Questo è quello che mi hanno fatto perché non avevo soldi – continua a raccontare – sono rimasto prigioniero per 80 giorni, e quotidianamente sono stato picchiato e torturato.”
Dove ti hanno fatto questo?
In Libia, sono stato preso e messo in carcere, a Bani Walid. Non avevo fatto nulla, ma le persone che facevano la guardia nel centro di detenzione per migranti volevano dei soldi. Si fanno pagare per rilasciarti, il problema è quando non hai nulla da dare, allora cominciano le violenze. Dormivamo per terra, e tutte le mattine ci tiravano addosso delle secchiate d’acqua, poi ci avvicinavano dei cavi elettrici al corpo per darci la scossa. Ho i segni anche di questo. Minacciavano costantemente di uccidermi, mi puntavano la pistola alla testa e continuavano a dirmi che dovevo pagare, altrimenti sarei morto. Ma io non avevo nulla, e tantomeno la mia famiglia. Mi hanno anche scorticato le gambe con il coltello, più volte. E mozzato un dito del piede. Alla fine hanno capito che non avrebbero ricavato nulla da me e mi hanno buttato in mezzo alla strada, non so come ho fatto a restare vivo in quel momento.
Cosa è successo dopo?
Ho cercato di sopravvivere, ho chiesto lavoro ovunque, anche se non riuscivo a camminare molto bene e le ferite facevano molto male perché si erano infettate. Ma in Libia ti fanno lavorare e poi è molto difficile riuscire a farsi pagare: se chiedi il tuo compenso, minacciano pure di ucciderti. Alla fine sono riuscito a tornare in Sudan, è stato quasi un anno fa. La più grande sconfitta della mia vita, per me e per la mia famiglia che aveva riposto in me tutte le speranze e i risparmi. Ma fisicamente non reggevo più.
Oggi però sei in Tunisia: quando hai deciso di ripartire?
Ad aprile in Sudan è scoppiata la guerra, ero terrorizzato, la mia famiglia era già in gravissima difficoltà, ma con i combattimenti la situazione è peggiorata ancora. Si fatica a procurarsi il cibo, si esce di casa il meno possibile, si vive nel terrore. Ho sentito che non avevo scelta, dovevo riprovare a partire. Ho aspettato tre mesi, poi non ce l’ho fatta più a restare.
Com’è andato questo secondo viaggio fin qui?
Ho cercato di attraversare la Libia il più velocemente possibile. Ci ho messo tre giorni, ho pagato tutto quello che avevo per farmi portare nel deserto vicino alla frontiera, non potevo rischiare di essere di nuovo arrestato, questa volta non avrei retto. La prima volta non sapevo a cosa andavo incontro, anzi speravo che avrei trovato delle persone pronte ad aiutarmi, in fondo siamo figli di due terre vicine. Stavolta ho pensato che sarebbe stato meglio morire per strada che tornare in carcere a farmi torturare.
Da quanto sei arrivato in Tunisia?
Sono quindici giorni che sono qui, ho attraversato a piedi la frontiera, ho camminato per qualche decina di chilometri, sempre al calare del sole perché di giorno si rischia di morire disidratati, soprattutto se non si trova dell’acqua.
Cosa vorresti fare adesso?
Il mio obiettivo è trovare un lavoro per poter aiutare la mia famiglia, migliorare la mia vita, costruirmi un futuro decente. Cerco qualcuno che mi aiuti, sono solo, non ho nessuno, non ho nulla, dormo qui per terra, non ho alternative al momento. Non ho la possibilità di lavarmi, di mangiare regolarmente, di bere sempre acqua potabile. Qualche volta ci sono delle persone del posto che vengono a portarci qualcosa, ci aiutano come e quando possono. Se non viene nessuno vado a dormire con la fame.
Sei stato registrato dall’Unhcr all’ingresso in Tunisia?
Si, sono stato registrato, ma comunque non ho diritto a nulla. Mi hanno detto che siccome sono arrivato da solo per mia scelta non mi possono assistere. Ad altri danno i ticket per comprare da mangiare, a me hanno detto che non ne ho diritto, non sono responsabili per chi arriva da solo ed entra nel paese. E così non ho altra scelta che stare per strada. E aspettare.
Se avessi la possibilità di partire via mare verso l’Italia lo faresti?
Certo che si, partirei immediatamente. A cosa serve restare qui per terra? Lo so che rischio la vita, ma rimanere qui è come morire. Non ho altra scelta, non posso nemmeno tornare indietro per la seconda volta.
Sei in contatto con la tua famiglia in Sudan?
Purtroppo non più, sono giorni che ho perso qualunque contatto. I miei familiari hanno i telefoni fuori uso, avranno di nuovo tagliato le linee internet nella zona dove si trovano. Tempo fa si era già verificato questo problema, e anche la corrente elettrica va via per giorni, a volte settimane. La situazione nel mio paese è drammatica, e ora non so nemmeno se i miei genitori e i miei fratelli sono vivi o morti, non ho fatto in tempo a dirgli che, almeno per ora, in Tunisia sono salvo.
La foto di copertina e quella nell’articolo sono di Ilaria Romano