Dal porto di Sfax alle isole Kerkennah c’è un’ora di traghetto che, al costo di un dinaro (all’incirca 30 centesimi di euro), conduce le persone fra palmeti e spiagge, cancellando anche solo per una giornata le industrie e le navi cargo della seconda città e centro economico della Tunisia. Kerkennah non è Djerba, nel senso che il turismo è quello locale, familiare, degli abitanti del luogo che si concedono una giornata sotto uno degli ombrelloni di paglia nella spiaggia dei pescatori di Mellita sull’isola di Gharbi oppure, se il reddito glielo consente, in una delle piscine dei resort lungo la costa della seconda e più estesa isola, Chergui.
All’estero l’arcipelago è conosciuto per le tragedie del mare, perché non di rado, quando affonda un barcone carico di migranti che provenga dalla Libia o dalla stessa Tunisia, si trova nel golfo di Gabes, dove sono queste isole e da dove passa la rotta per Lampedusa. Qui il 2 giugno scorso si è verificato il più pesante naufragio dell’anno in acque tunisine. Su una barca che poteva trasportare fino a 80 persone, in realtà ne erano salite cento di più: il peso, il mare grosso, le precarie condizioni del mezzo l’hanno fatta colare a picco. In 64 si sono salvati, 84 corpi sono stati recuperati ma secondo i racconti dei superstiti si sarebbero perse le tracce di almeno altri 28, inghiottiti dal mare.
Non è strano purtroppo che i dati ufficiali, da quelli dell’Unhcr a quelli dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, sommino i morti e i dispersi nelle statistiche, perché se in mare aperto una persona non viene ritrovata, viva o morta, le possibilità che si sia salvata sono nulle. Eppure senza un corpo, senza informazioni certe, i parenti di chi tenta la traversata vivono una condizione di limbo in cui resta una flebile, irrazionale speranza; perché magari il fratello, o il marito, ha preso un’altra imbarcazione ed è comunque arrivato, oppure non è partito ma è rimasto bloccato altrove e non può tornare a casa.
Secondo l’Unhcr, da gennaio a giugno di quest’anno sono morte (o disperse) 318 persone dirette in Spagna, 1.095 dirette in Italia e 99 dirette in Grecia. I dati Oim aggiornati al 22 novembre parlano di 2.075 vittime del Mediterraneo nel 2018. Il primo paese di provenienza dei migranti che tentano di arrivare in Italia via mare è proprio la Tunisia.
“Mio marito è disperso in mare dal 2011 – racconta Doudou Omelkhir Ouertatani, una giovane donna di Tunisi, madre di tre figli – ed è da allora che non ho mai smesso di cercare sue notizie, da una sponda all’altra del mare”.
Doudou ha fondato Almassir les jeunes méditerranée, un’associazione per i familiari dei connazionali scomparsi, che fa parte della rete Missing at the borders, per chiedere giustizia e risposte su coloro che non sono mai arrivati a destinazione. “Sono stata in Italia, a Bruxelles al Parlamento europeo, ho organizzato manifestazioni a Tunisi davanti alle ambasciate e al ministero dell’Interno, e sono diventata portavoce di altre famiglie nella mia stessa situazione”.
Nel 2011, subito dopo la rivoluzione dei gelsomini, Nabil ha deciso di partire. L’8 settembre di quest’anno avrebbe compiuto 40 anni e invece ormai da sette di lui si sono perse le tracce. “Non ero favorevole alla partenza – dice la donna con un sorriso triste – ho provato a convincerlo a restare, ma non ha voluto sentire ragioni e si è imbarcato: non aveva più un lavoro e non sapeva come andare avanti. In molti qui hanno perso il posto a causa della crisi economica, e per questo decidono di provarci. I morti in mare sono una diretta conseguenza della politica dei visti: prima non erano richiesti e chi voleva uscire dal paese poteva farlo, ma oggi l’Unione Europea non rilascia facilmente i permessi ai giovani tunisini. Eppure gli europei possono venire qui solo con il passaporto. Così chi vuole andare in Italia o in qualsiasi altro paese dell’Europa segue canali illegali e spende tanti soldi, oltre a rischiare la vita”.
Doudou spiega che prima della rivoluzione il controllo delle coste era molto più serrato, e quindi lasciare il paese, anche per chi aveva il desiderio di farlo, non era semplice. Negli ultimi anni invece i controlli in uscita si sono allentati, ma parallelamente le politiche di ingresso sull’altra sponda del Mediterraneo si sono fatte via via più restrittive. Dopo aver tentato l’iter legale, Nabil era partito da Sfax verso Kerkennah, e poi da lì alla volta di Lampedusa. Ma il viaggio è finito male, come quello del 2 giugno di quest’anno. E le persone avevano pagato centinaia di euro: circa 300 solo per la prima tratta, quella che col traghetto alla luce del sole costa 30 centesimi.
“Dal 2011 sono almeno 40 mila le persone che hanno lasciato la Tunisia – precisa Doudou mentre sul suo smartphone fa scorrere le immagini di tanti giovani, uno dopo l’altro – questi sono tutti dispersi, avevano 20 anni, 25 anni, 32 anni; di loro resta solo una fototessera e il nostro governo non ci aiuta a cercarli. Noi vorremmo che almeno venissero fatti i test del Dna sui corpi ritrovati, qui o in Italia, in modo da costituire un database e facilitare una ricerca di per sé estremamente complicata”.
Iman invece ha perso il fratello in mare, poco più di un anno fa, e da allora ha deciso di lavorare a fianco dei pescatori del suo comune, Zarzis, 70 km dal confine con la Libia, già noti per il loro impegno umanitario a favore dei migranti in difficoltà incontrati nel Mediterraneo, e per questo nominati al Nobel per la pace.
Laureata in lingue all’università di Sfax, Iman ha 28 anni, è sposata, e si divide fra la famiglia e l’Associazione “Zarzis le pecheur”, dove fa la segretaria e si occupa della comunicazione.
“Circa un anno fa – racconta con un filo di voce – mio fratello minore ha deciso di partire per l’Italia. Voleva un futuro migliore, farsi una vita altrove, cercare un buon lavoro; insomma avere delle opportunità che qui a Zarzis non ci sono più nemmeno nel settore della pesca. Durante la traversata, non so quanto tempo dopo la partenza perché noi lo abbiamo saputo solo dai racconti dei superstiti, la barca sulla quale viaggiava mio fratello è entrata in collisione con un’altra e si è danneggiata nella parte centrale, proprio dove era seduto lui, che è stato fra i primi a cadere in acqua. Dicono che sia andato subito a fondo. Da allora la mia vita è cambiata, perché vivo un lutto a metà, senza rassegnarmi completamente alla morte; lavorare qui per me è un modo per restare vicina al mare, a chi aiuta in mare, e quindi anche a mio fratello”.
In queste acque accade anche che i corpi riaffiorino, trasportati dalla corrente, e finiscano sulle coste di questo golfo tormentato, o nelle reti dei pescherecci. Lo sa bene Chamseddine Marzoug, ex pescatore, anche lui di Zarzis, che ha fatto del recupero dei corpi in mare una missione di vita. Volontario della Mezzaluna rossa, ha cominciato a ricomporre i resti di queste persone senza identità, spesso provenienti dalle rotte libiche e dunque dall’Africa subsahariana più che tunisini, e ha deciso di dare loro una sepoltura decorosa. Così è nato il Cimitero degli sconosciuti, un fazzoletto di terra arida e finissima dove oggi sorgono tante lapidi improvvisate con piccoli segni distintivi: una pietra, un arbusto, un’automobilina di plastica dove è seppellito un bambino.
“Sono io la loro famiglia – racconta – mi prendo cura di questi corpi e poi delle tombe, per quanto possibile”. Ogni volta che può, compra delle bottiglie d’acqua e con quelle innaffia le piccole piante che lui stesso ha portato dove prima era solo un deserto.
L’unico nome che si può leggere è quello di Rose Marie, una ragazza nigeriana di 27 anni che fu trovata morta su un barcone nel 2017. Secondo il racconto della sorella sopravvissuta al naufragio, faceva l’insegnante e nel suo paese aveva lasciato un bambino piccolo. Desiderava stabilirsi in Italia, trovare un buon lavoro, e tornare in Nigeria a prendere suo figlio. Il suo sogno è finito su quella barca alla deriva, un giorno prima che arrivassero i soccorsi.
Chamseddine ha imparato a non sognare per se stesso, ma per i migranti: “ognuno di loro potrebbe essere mio figlio – dice – ed è per questo che se fosse possibile avere dei finanziamenti, si potrebbe non solo sistemare il cimitero portandoci l’acqua corrente e l’elettricità, ma addirittura costruire un centro di accoglienza per i vivi, con posti letto ed una mensa”.
Come Doudou a Tunisi, anche lui a Zarzis porta avanti la battaglia per il riconoscimento delle salme tramite il test del Dna. “Tante famiglie non hanno idea di che fine abbiano fatto i propri cari, e senza il profilo genetico non ci sono speranze di restituire una verità a queste persone. Ma intanto – assicura – per avere una vaga idea di cosa voglia dire imbarcarsi per un viaggio della speranza bisogna vedere un altro cimitero”.
Così a bordo di un barchino di legno guidato da un amico pescatore, Chamseddine percorre per un’ora di navigazione un tratto di mare in secca, dove la Poseidonia quasi affiora dall’acqua. Quando il barchino rallenta, all’orizzonte si vedono quattro, poi cinque relitti. Sono tutte barche di migranti, o quello che ne resta, incagliate in una secca impossibile da evitare, se non per naviganti esperti del luogo. Pian piano hanno perso gran parte della vernice blu, il timone è diventato un ammasso di ruggine, le assi di legno hanno cominciato a staccarsi. Chamseddine ci sale e guarda dentro: “sono state tutte costruite in Libia, da artigiani egiziani – dice – le nostre sono diverse. Sotto coperta però si muore comunque, non è una questione di come si assemblano le tavole. Il vero cimitero è questo, non quello di terra, è il Mediterraneo”.
Foto di copertina: il relitto di una delle barche naufragate al largo di Zarzis (fotografia di Ilaria Romano come tutte le immagini in questo articolo)