Lampedusa, nel 2013 come in tutti questi anni, non è mai stata solo la scenografia vuota dei flussi migratori. Un’isola mondo. La sua terra, le sue case, il suo mare, è un racconto di migranti. Camminando lungo le scogliere di quest’isola, parlando con i suoi abitanti, leggendo la sua storia, ci si ritrova al centro di un movimento, umano, eterno e naturale.
Si muove il mare, sempre, ricordandoti che sei nel mezzo, si muovono le persone, ricordando a tutti noi che il movimento è parte delle nostre stesse vite, si muove la terra, anche qui a Lampedusa, che oggi sperimenta le mutazioni di quella desertificazione generata dai cambiamenti climatici che affliggono le persone indistintamente dalla sponda del Mediterraneo sulla quale sono nate. Sponde lungo le quali si specchiano due periferie: per il ‘centro’, per lo Stato, per il ‘potere’, le sponde esistono solo in una dimensione. Le comunità di frontiera, però, non vogliono cedere alla logica degli avamposti di confino e di confine alla quale sembra che l’Unione Europea si sia decisa a sacrificare Lampedusa come le isole greche, fino alle Canarie in Spagna. Una sorta di terra di mezzo, tra la Fortezza Europa, con i cuoi privilegi, con le sue pseudo – certezze, e il mondo ‘altro’, che spesso diventa il poliziotto cattivo delle politiche di esternalizzazione delle frontiere.
Uno dei grandi cambiamenti avvenuti nel decennio passato dal naufragio del 2013 è proprio quello di aver investito somme inimmaginabili delle tasse dei cittadini Ue in una campagna di fidelizzazione di agenti terzi. La Turchia, il Niger, l’Afghanistan, la Tunisia, la Libia. Si stringono accordi – anche bilaterali, ma sempre più collettivi – perché il lavoro sporco venga appaltato a paesi che non hanno fastidiosi diritti umani da rispettare. E là, nel mezzo, tra questi due mondi, c’è la terra di mezzo delle isole dell’Europa meridionale, che devono fungere da centri di contenimento e smistamento. In fondo, a Lesbo come a Lampedusa, passando per le Canarie, oggi una persona può passare decine di giorni sulle isole e non incontrare mai un migrante.
A Lampedusa, ma anche altrove, arrivano al Molo Favaloro (ormai praticamente inaccessibile ai comuni cittadini), vengono portati nel centro allestito sull’isola, vengono portati via appena possibile. E’ normale che in estati roventi come questa, quando a Lampedusa sono arrivate anche 2mila persone in un giorno (come sta accadendo anche in queste ore), la situazione diventa esplosiva. Per le condizioni del centro, che è pensato per accogliere per periodi molto brevi meno di 400 persone, ma anche per le polemiche politiche, per la comprensibile stanchezza di amministratori, operatori del mondo della pesca, gente comune. Se ne parla, due lanci d’agenzia, due dichiarazioni polemiche, un servizio tv.
Però, di base, l’opportunità dei residenti o dei visitatori di incontrare una persona sopravvissuta a un viaggio drammatico, guardarla negli occhi, darle un nome, conoscere la sua storia, i suoi sogni, è diventato praticamente impossibile. Eppure ci sono, anche se sono resi invisibili, diventando ancora più solo dei numeri. E la stessa strategia di ‘invisibilizzazione’ è applicata alle Canarie e nelle isole greche. Ma questo lascia solo i problemi, le strumentalizzazioni e le posizioni ideologiche sul campo, togliendo qualsiasi voce all’aspetto umano e culturale. E finendo per negare così non solo la realtà, ma anche la storia. Perché Lampedusa racconta, in ogni sua pietra, come la logica che confine e del confinamento siano strettamente connesse alle logiche del potere.
Una storia che inizia ben prima di quella Lampedusa diventata un “simbolo di accoglienza umanitaria”, candidata al Premio Nobel per la Pace. Ma lontana anche dalla Lampedusa raccontata oggi, colma di rabbia e frustrazione verso i migranti. Perché se si abbandonano le persone al prezzo della benzina più caro d’Italia, se si pensano come cittadini gli isolani solo per le elezioni per scaricare qui gli effetti di dinamiche globali, di fronte alla vita quotidiana di persone che per partorire devono andare a Palermo, diventa troppo comodo scrivere che ‘’i lampedusani sono diventati razzisti”. I lampedusani sono stanchi, certo, al punto da dimenticare la storia stessa di quest’isola. La sua posizione geografica, più vicina alle coste africane che all’Italia, la fa essere un naturale punto di passaggio, e di approdo seppur momentaneo, per i migranti che a bordo di piccole o grandi imbarcazioni partono dalle coste del Nord Africa e attraversano il Mar Mediterraneo, per giungere in Italia. Questo fenomeno, però, è solo l’ultimo atto di una storia eterna di movimento che ha visto – nel tempo – più volte cambiare il senso di marcia.
Una piccola comunità di pescatori sperduta in mezzo al mare, 6.500 abitanti in tutto, dall’inizio degli anni ’90 si è confrontata con lo sbarco di circa mezzo milione di migranti, si è confrontata con gli occhi carichi di lacrime e di speranza di chi è arrivato sulle sue coste, e con il dolore dei tanti, troppi esseri umani che non ce l’hanno fatta.
Sulle frontiere si misura la possibilità più alta di trasformare l’inquietudine in riscatto e visione, insegnava il sociologo Franco Cassano. Lampedusa è chiave di lettura di un fenomeno migratorio che tendenzialmente viene analizzato quasi solo nel momento in cui si manifesta e palesa: lo sbarco. Sono decenni che l’isola è come immortalata in un frammento perenne, come una clessidra di pietra, che annulla e nasconde tutto il resto. Quello che viene prima, tra il contesto dei paesi di partenza e il traffico di esseri umani, quello che viene dopo, rispetto ai sistemi di accoglienza italiani ed europei. E la comunità di Lampedusa, che finisce per essere solo una sorta di logo con il quale vidimare una serie di narrazioni altre, esterne, positive o negative che siano. Ma che non sono mai dei residenti.
Il primo sbarco a Lampedusa è stato nel dicembre 1993. In molti lo ricordano ancora.
L’unica esperienza vagamente simile del passato, l’isola l’aveva vissuta quando alla fine degli anni Sessanta, quando il colonnello Gheddafi dopo il colpo di stato in Libia aveva espulso la comunità italiana e alcuni di loro – sempre la Libia, come una storia che ritorna – erano arrivati qui, ma nulla di paragonabile. Prima di allora la Libia era lontana, anche se in molte famiglie di pescatori c’era il ricordo del sequestro di un’imbarcazione che si era spinta troppo in là, o dei lavoratori stagionali che andavano in Tunisia per la raccolta delle spugne, grazie alle quali avevano i soldi per andare a comprare la cioccolata a Malta. In molti ricordano quel 1993, quando persone stranite vagavano per l’isola, accolte dai residenti, chiedendo dove fosse la stazione dei treni per andare a Milano o a Roma. Non sapevano neanche dove erano arrivati.
Dopo quel primo sbarco ce ne furono altri ed altri ancora. Lampedusa accoglieva i migranti come poteva, si dava da fare, offrendo cibo, assistenza, a volte facendo una colletta per pagare il biglietto della nave per Porto Empedocle. Le persone venivano ospitate in casa, in chiesa, nelle caserme dismesse. Sbarco dopo sbarco, mese dopo mese, ci si rese conto – non solo a Lampedusa – che era necessario organizzarsi, creare le condizioni per rendere l’accoglienza umanitaria compatibile con la vita quotidiana di un’isola che vive di pesca, ma soprattutto di turismo. Dalla legge Turco-Napolitano in poi, sono cambiati i quadri giuridici, i governi, fino alla criminalizzazione della Bossi-Fini. All’inizio il centro lo gestiva il Comune con la Croce Rossa, poi con il governo Berlusconi le cose sono cambiate, con gare d’appalto e scandali che hanno travolto chi i migranti li ‘gestiva’, ma che non riguardavano certo le persone che sbarcavano qui. E sono stati tanti i fondi che, a seconda dei periodi storici, arrivavano sull’isola, ma nulla restava per l’isola. Bisognerebbe spiegare dove sono finiti quei soldi, perché anche così si proverebbe a ricostruire una sfiducia nella politica che attraversa i territori. Dopo tutti questi anni, non esiste più alcuna emergenza, ma solo l’incapacità o la mancanza di volontà di gestire i flussi migratori. La narrazione, però, a seconda del vento politico che soffia sul paese, è sempre la stessa: sbarco, invasione, numeri paurosi. Anche se ormai i cittadini e i turisti neanche li vedono i migranti. E la qualità della vita dei lampedusani resta complicata, non certo per i migranti, ma per uno Stato che si ricorda di questa lingua di terra in mezzo al mare solo per i migranti. Ed è questo che, in dieci anni, è diventato un malessere sempre più generalizzato. Un esempio pratico: nel corso degli anni una quantità enorme di barche e barchini sono affondati e i relitti giacciono nei fondali del mare di Lampedusa provocando danni e rischi ai pescatori ed alle attrezzature dei pescherecci. Non è mai stato riconosciuto un indennizzo, non è mai stata resa sistematica una procedura di bonifica. Ancora oggi sono gli stessi pescatori che cercano di ‘pulire il mare’. I relitti finiscono sui fondali anche a causa di una “inevitabile conseguenza” delle procedure di soccorso in mare: se c’è un barchino o un gommone che rischia di affondare in mare aperto e viene avvicinato dalle motovedette dei soccorsi, si deve pensare per prima cosa a mettere in salvo le persone. Ed una volta che queste sono a bordo della motovedetta, non è detto che si possa “agganciare” l’imbarcazione dei migranti, che di fatto viene segnalata ma lasciata alla deriva. Quando invece queste imbarcazioni, come nella maggior parte dei casi, arrivano direttamente al porto o sulle coste dell’isola, si pone un altro problema: il recupero e lo smaltimento. Per anni queste imbarcazioni, che per via delle norme vigenti, vengono sequestrate dall’autorità giudiziaria ed assegnate all’ufficio delle Dogane, venivano ormeggiate al porto nei pressi del Molo Favaloro, provocando un danno ambientale serio e mettendo a rischio le infrastrutture portuali poiché in caso di mareggiate queste diventavano “schegge impazzite” dentro il porto. Questo è solo un esempio, ma che racconta di come questa comunità sia stata esasperata, come nel 2009 e nel 2011, quando l’allora ministro Maroni propose di fare della vecchia base della Nato un enorme centro per 5mila persone. Su un’isola di 6mila abitanti. Era normale la rabbia dei residenti che si opposero e bloccarono quel folle progetto.
La stessa dinamica la vediamo anche in altre isole/confine/periferie di questa Europa: le isole Canarie, Lesbo e le isole greche, invitate ad accettare il ruolo di confine/confino.
In fondo la storia di Lampedusa stessa racconta di come, per il potere centrale, questo lembo di terra era solo un luogo dove ‘depositare’ quello che non si voleva vedere. Fossero i criminali della colonia penale del Regno delle Due Sicilie, mantenuta dal Regno d’Italia dopo l’unità, fino al fascismo che ci confinava i detenuti politici. I primi 47, partiti dalla banchina di Porto Empedocle, provenivano da ogni parte del giovane Regno d’Italia, da Genova fino a Napoli. Il domicilio coatto era stato creato nel 1863 (legge Pica) per quei soggetti ritenuti pericolosi per la società. Ecco, Lampedusa era questo, per Roma: un luogo dove confinare quello che non si voleva nella società. Il sistema era il confinamento in edifici lontani dal centro abitato, senza contatti con la comunità locali, di ‘camorristi’ e altro soggetti. Ed è così che la mafia è arrivata nella comunità, in quelle strutture che oggi sono nell’odierna via dei Cameroni.
La logica dell’isola periferia, che nega la storia dell’isola mondo, dell’isola della tregua. Perché Lampedusa è molto più di questo. Sarebbe bello, in questo decennale, celebrare l’altra Lampedusa, oltre il confine/confino e l’eterna logora polaroid dello sbarco.
Un luogo di tregua, di pace, e di commerci. I Fenici prima e i Greci poi ne fecero uno dei più importanti centri di scambio del Mediterraneo, dove si incontravano lingue e culture, usi e costumi. E poi i Romani, che nell’isola producevano il pregiato garum, citato anche da Plinio il Vecchio, una salsa di pesce – una via di mezzo tra un paté e una colatura di pesce – che veniva commercializzata in tutto l’impero. Ancora si vedono, a Cala Salina, i vecchi stabilimenti scavati nella roccia. Oggi, come allora: un’isola di incontri e di commerci, di gusto e di cultura. E di pescatori. Perché essere pescatori è uno stato d’animo, e Lampedusa è una società nata e cresciuta attorno a quel sistema di principi morali e pratici che la vita da pescatori insegna.
Si legge nel censimento comandato nel 994 D.C. dall’emiro Chbir, che governava sulla Sicilia, che rispetto a Lampedusa “il negozio di tutti questi abitanti non consiste che nella pescagione del pesce, che salano e poi vendono a coloro che vengono ogni anno da fuori e comprarlo”.
Basta perdersi nell’isola, lontano dai circuiti turistici e quelli delle polemiche, per scovarla questa storia. La Madonna del Mare, statua in bronzo del maestro Giorgio Crosta, nel 1979, come ex-voto del sub Roberto Merlo, dopo la benedizione di Papa Giovanni Paolo II, sommersa nel pressi dello scoglio della Pagnottella, ricorda a tutti quale prezzo hanno pagato le famiglie di Lampedusa al mare, che è vita e morte allo stesso tempo. Quella statua è ancora là, nei pressi della spiaggia dei Conigli, non troppo lontano da quei naufragi che ancora oggi ricordano a tutti noi che il dolore di chi perde le persone amate in mare è uguale, senza distinzione di nazionalità, documenti, fede e cultura. Abitare la frontiera, però, significa vivere la duplice condizione dell’incontro e dello scontro, inevitabili forse, ma che pongono sempre tutte le persone – in ogni epoca – di fronte agli insegnamenti dell’una e dell’altra dimensione.
Ed ecco che Lampedusa non manca di ricordare anche delle battaglie, come punto di rifornimento delle galere impegnate nelle guerre Puniche, o della guerra di ‘corsa’, quella dei pirati. La storia non manca mai di segnarsi con fatti di sangue, come il massacro della popolazione residente dell’813, ma anche in questi episodi c’è un modo di porsi, che è quello costruttivo, di chi vuole costruire e non distruggere.
Lampedusa è stata araba, per centinaia di anni, come è stata bizantina: un melting pot di lingue, fedi, culture. Pensate al nome stesso ‘dammuso’, l’unità abitativa storica dell’isola: l’origine del nome, ormai, si perde nella notte dei tempi, sospesa tra dammusu (il nome dialettale per ‘tetto’) e mdamnes (vocabolo arabo per ‘costruire’), passando per il latino domus, ‘casa’.
Ma con una costante: è sempre abitata da pescatori. E sempre abitata dall’incontro e dalla riflessione, che spesso avveniva nella grotta di Cala Madonna. Un luogo sorto attorno alla venerazione di un’immagine della Vergine Maria, recuperata da un naufragio, che ha accolto le preghiere di fedi differenti.
Questa è la Lampedusa che bisogna raccontare, questa isola in mezzo al mare, tra pescatori e naufragi, che ha rappresentato per secoli un luogo di tregua, dove il corsaro Dragut Raìs e il comandante genovese Antonio d’Oria si davano battaglia, ma si rispettavano nell’isola della pace, della tregua. La ‘rivalità’ con Malta risale al quel tempo, quando sul finire del XVIII secolo, Lampedusa era l’approdo preferito dei corsari maltesi. Don Benigno Gauci, il prete che all’epoca custodiva il Santuario della Madonna di Porto Salvo era maltese, era coinvolto a sua volta in prima persona nei commerci dei più celebri capitani del tempo nel Mediterraneo: Giovanni Andrea Preziosi e Salvatore Fabri, che soggiornarono spesso nell’isola per calatafare gli scafi delle loro imbarcazioni, e posizionarono due cannoni per proteggere le navi in riparazione.
Lo stesso don Benigno non mancò di aiutare altre figure del tempo, come Spadaciatta Valentini, il capitano German, il capitano Cavasso e molti altri. Rifornimento di viveri, venduti dalla popolazione locale e gestiti dal prete, che allo stesso tempo prendeva in ‘custodia’ alcuni bottini. E faceva da garante a ‘patti’ tra corsari o da ospedaliere per i malati. Lampedusa è stata anche questo, come se essere un porto sicuro fosse la sua promessa al Mediterraneo.
Abitare la frontiera significa vivere la duplice condizione dell’incontro e dello scontro, inevitabili forse, ma che pongono sempre tutte le persone – in ogni epoca – di fronte agli insegnamenti dell’una e dell’altra dimensione. Potrebbe e dovrebbe essere questo lo spirito di questo decennale, in onore di Lampedusa, che tra mille difficoltà da sempre mantiene la sua promessa di salvezza in mezzo al mare.
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