Non c’è più tempo per i festeggiamenti sulla Life Support che è da poco entrata nel porto di Vibo Valentia. E’ la notte di venerdì 29 novembre, e una delle bambine siriane tiene la manina stretta dentro quella del nonno, non sa cosa sta per accadere ma sente, capisce la tensione che c’è nell’aria. È il momento dello sbarco, dell’addio o dell’arrivederci, “Inshallah!” come dicono i sopravvissuti a bordo, “se Dio vuole”. L’inizio di una nuova vita e la fine di una parentesi, quella del passaggio attraverso la rinascita.
I 75 naufraghi sono seduti nello shelter, lo spazio protetto e coperto della Life Support, dove i sopravvissuti vivono durante il viaggio in mare. Da una parte le famiglie, dall’altro i casi più vulnerabili che hanno bisogno di assistenza medica, poi i minori da soli e infine tutti gli altri.
“Questo è l’inizio di una nuova vita, senza di voi, senza questa nave non ce l’avremmo mai fatta”, dice all’equipaggio Sharmin (nome di fantasia) mentre aspetta il suo turno per scendere dalla Life Support.
Sharmin è fuggito dal Bangladesh dove, come sostiene, la sua vita era in pericolo per motivi politici. “Il Bangladesh sta attraversando un periodo di grande instabilità, io sono andato via circa sei mesi fa quando la situazione era diventata veramente pericolosa. Sono state uccise un sacco di persone nelle strade della mia città, e adesso tutti hanno paura di morire in Pakistan”, ha raccontato l’uomo poco dopo essere salito a bordo della nave di Emergency. Aveva provato ad attraversare il Mediterraneo tre volte prima di essere soccorso dalla Life Support, ma è sempre stato riportato indietro in Libia dove è stato ripetutamente picchiato e torturato. “Ho pagato 2000 dollari per uscire dalla prigione in Libia. Quando vi ho visti arrivare ho pensato che finalmente sarei stato al sicuro. Il Bangladesh non è sicuro, la Libia non è sicura ma questa nave e l’Italia lo sono”, dice, “non so cosa voglio dal futuro ma so che se tornassi nel mio paese, dove si trovano ancora mia moglie e mio figlio di due anni, rischierei la mia vita e metterei in pericolo anche la loro”.
In piedi dall’altro lato dello shelter c’è Karim (nome di fantasia), lui è scappato dall’Egitto. “In Egitto avevo un ristorante, la mia famiglia stava molto bene economicamente fino a quando mia madre non si è ammalata e hanno approfittato di lei. Qualcuno ha cominciato a prelevare tantissimi soldi dal suo conto, quando l’ha scoperto è morta di infarto. Dopo la sua morte la banca ha cercato me e i miei fratelli per i debiti che le erano rimasti. Mi hanno denunciato, volevano arrestarmi, sono stato assolto in tribunale ma i criminali che avevano truffato mia madre continuavano a tormentarmi. La mia vita è cambiata repentinamente e avevo paura che presto le stesse persone che avevano truffato mia madre, mi avrebbero ucciso, non ho potuto fare altro che andare in Libia nella speranza di riuscire a raggiungere l’Europa”, spiega all’equipaggio, con la stessa paura negli occhi che aveva poco prima del soccorso.
Un mese e mezzo fa è arrivato in Libia e questa era la prima volta che provava ad attraversare il Mediterraneo. “Voglio andare a Milano a lavorare, cerco solo una vita dignitosa”, continua l’uomo, “tornare in Egitto significherebbe morire per me”.
Kharim e Sharim, entrambi maggiorenni, in salute e provenienti da paesi considerati sicuri dal governo italiano, secondo l’accordo Meloni-Rama sarebbero potuti essere a bordo della nave Libra, in direzione Albania, se solo li avesse soccorsi la guardia costiera italiana invece che la Life Support.
Syed (nome di fantasia) abbraccia i suoi compagni di viaggio e gli chiede una foto, prima di scendere dalla nave di Emergency. Lui è fuggito dal Pakistan dalla provincia del Khyber Pakhtunkhwa martoriata da una guerra ventennale tra lo Stato del Pakistan e una gran varietà di gruppi armati militanti. “Sono fuggito dalle bombe e dal rumore dei droni, volevo continuare l’università ma era impossibile farlo nella mia terra”, racconta il ventisettenne, “dopo essere stato arrestato e torturato dalla polizia pakistana ho capito che non potevo più stare lì. Ho chiesto un visto ad un sacco di paesi europei ma nessuno me l’ha mai dato, così anche se ero terrorizzato non ho potuto fare altro che affrontare il viaggio verso la Libia: da Dubai, poi l’Egitto ed infine Bengasi. In Libia sono rimasto tre mesi e ho pagato 8 mila dollari per partire in mare”. Syed sogna di poter far arrivare in Italia anche la madre, i fratelli, le sorelle e il padre che sono ancora in Pakistan, ma prega che possano viaggiare per vie legali: “Chiedo ai vostri governi di creare delle vie legali per la mia gente, per fuggire dal Pakistan, perchè il mio paese non è sicuro”.
Intanto la prima famiglia percorre la scala di ferro che collega la nave alla terraferma. Una madre con la sua bambina di pochi mesi entrano in ambulanza, intorno solo forze dell’ordine e la paura dell’ignoto. Un ultimo abbraccio e un gesto di cura da parte dell’equipaggio, una felpa sulle spalle per riparare una bimba dal freddo, e una carezza sul volto di una donna siriana in attesa che arrivi il suo turno per scendere.
Una cura che questi esseri umani non ricevevano da mesi o anni, e che probabilmente non riceveranno nel loro prossimo futuro in Europa. Resta la speranza che almeno un futuro in Europa queste persone lo possano avere, qualunque sia il loro paese di provenienza.
Leggi i primi due articoli della serie: “Il soccorso in mare. Una corsa a ostacoli e contro il tempo” e “M. e Abdalla. Le loro storie dalla Life Support“
Credit. Le immagini sono di Lidia Ginestra Giuffrida