Dall’azienda agricola di Michele Ponso si scorge la cima imbiancata del Monviso in tutto il suo splendore. “È la natura che dobbiamo ringraziare. Le montagne circostanti e la fertile pianura generano una buona escursione termica che permette alle mele e ai kiwi di avere la giusta dose di gradazione zuccherina”, dice l’imprenditore. Siamo a Lagnasco, uno dei ventidue Comuni della frutta, in provincia di Cuneo. Un distretto che genera un enorme fatturato: secondo i dati della Coldiretti Cuneo, dei 500 milioni di euro dell’intera regione Piemonte, il 60% arriva da qui. Le aziende del comparto sono 4500 e il 70% della frutta raccolta (kiwi, pesche, mele e susine) è destinata all’esportazione. Da questa zona, i pallet di frutta vengono spediti ovunque nel mondo: Germania, Norvegia, Svezia, Finlandia, Paesi Bassi, Australia, Nuova Zelanda, India, Vietnam e Thailandia sono solo alcuni degli Stati che consumano la frutta prodotta in questa regione. Eppure, nonostante gli enormi fatturati, ogni anno, all’inizio della stagione dei mirtilli, delle pesche e delle mele, Saluzzo e i Comuni limitrofi balzano al centro dell’attenzione mediatica nazionale: in questi anni sono state ampiamente denunciate le condizioni di vita e di sfruttamento dei lavoratori stagionali. Sui 12 mila braccianti impiegati in media durante i picchi della raccolta, quasi il 10% resta sprovvisto di un alloggio e benché le assunzioni siano aumentate del 53% nel 2019 (dati Flai-Cgil Cuneo), il lavoro grigio resta la modalità più diffusa di pagamento. Si firma il contratto ma il patto si fa sul campo. La paga oscilla tra i 4.50 e i 5.50 euro l’ora, una parte in busta, il restante in nero. La precarietà lavorativa si traduce nell’impossibilità di accedere a un alloggio dignitoso. E così negli anni si sono creati ghetti, tendopoli e insediamenti informali.
È ormai sempre più evidente che il modo in cui “produciamo” il cibo ha come conseguenza diretta lo sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente. Se è vero che questo sistema permette ai consumatori di accedere a prodotti a basso prezzo, è ormai innegabile che questo sistema ha degli enormi costi ambientali e sociali. Le logiche di mercato e della filiera agricola impongono, infatti, costi sociali altissimi che ricadono, a cascata, su tutti gli anelli, ma a pagare il prezzo più alto sono spesso i più vulnerabili, ovvero i braccianti stagionali. Ai costi sociali, si aggiungono i costi ambientali che non sono mai calcolati. Per capire perché si genera questa situazione siamo andati a parlare con alcuni imprenditori agricoli per farci raccontare quali sono le storture che si creano lungo tutta la filiera agroalimentare e cosa dovrebbe fare la politica per iniziare a risolvere il problema.
Dalla pianta al supermercato: un prodotto standardizzato
“Bisogna dire la verità: ci sono certe aziende che preferiscono trovare manodopera a basso costo per risparmiare e poi c’è il problema della Grande distribuzione organizzata, che impone i prezzi bassi, che ti spinge al ribasso e che ti impone delle condizioni folli. Perché devo cerare una mela? Perché devo buttare un frutto per una macchiolina o per una puntura di insetto? La ricerca sfrenata dell’estetica sta distruggendo l’agricoltura. Se deve essere perfetta è chiaro che ci devo mettere qualcosa sulle piante”.
Tra i lunghissimi e interminabili filari di pesco, allineati uno accanto all’altro senza discontinuità, Michele Ponso, 52 anni, imprenditore agricolo a capo dell’omonima cooperativa (10 milioni di fatturato all’anno), spiega quali sono i meccanismi di produzione della frutta che finisce sulle nostre tavole. Tutto dipende dal mercato, dalla domanda e dall’offerta, dalla destinazione finale del nostro prodotto e dalle regole imposte dalla Grande distribuzione organizzata (GDO). Prendiamo l’esempio della mela. A settembre il bracciante la raccoglie dall’albero, la mela è pre-calibrata e conservata in enormi celle frigorifere dove si abbassa l’ossigeno e si mette in stato vegetativo. Di fatto si rallenta la maturazione. Qui resta per otto, nove o dieci mesi, fino a quando il mercato non la richiede. A questo punto la mela è divisa per dimensione e colore, quella macchiata, ammaccata o fuori dimensione scartata, infine confezionata e caricata sui camion o sulle navi. La mela viaggia per migliaia di chilometri, a seconda della destinazione e finisce in un centro di distribuzione. Da lì arriva poi nei supermercati e sulle nostre tavole. È tutto normale e fa parte del sistema alimentare e distributivo di oggi. Per avere, però, un prodotto standardizzato, uguale a tutti gli altri, come se fosse un qualsiasi pezzo di un’automobile, gli imprenditori agricoli devono aumentare la produzione e “pompare” sempre di più le piante. “I prodotti standardizzati vanno a discapito della qualità e dell’ambiente”, spiega Ponso, “Non si può produrre frutta uguale senza fare trattamenti, anche il biologico fa trattamenti con lo zolfo e il rame ma più usi prodotti meno impattanti, più costano. Noi vorremmo avvicinarci al residuo zero ma è difficile restare sul mercato se la GDO ti paga le pesche o le mele meno del prezzo di produzione”.
Fabio Ciconte, giornalista e direttore dell’associazione ambientalista Terra! spiega perché questo meccanismo mette in ginocchio i produttori agricoli: “Noi ci siamo abituati all’idea indotta che la mela della GDO debba essere intatta, non debba avere deformazioni di colore o ammaccature. Questo mette in difficoltà tutta la parte produttiva perché quando arriva la grandinata o la mosca che ti devasta il raccolto, la GDO non mette sullo scaffale i prodotti non standardizzati. In una situazione di crisi climatica, queste situazioni aumenteranno sempre di più, quindi la GDO deve rieducarci e tornare ad avere prodotti di stagione, anche con le ammaccature”.
All’esasperazione dell’estetica, richiesta dalla Grande distribuzione organizzata, si aggiungono le numerose pratiche sleali: le politiche del sottocosto, le aste al doppio ribasso – come hanno denunciato in questi anni i giornalisti Fabio Ciconte e Stefano Liberti – il calendario dei fitofarmaci, gli imballaggi e i contributi imposti sulle aperture dei negozi (in pratica per ogni punto vendita aperto dalla GDO, i fornitori agricoli sono obbligati a pagare una quota che oscilla tra i 4000 e i 6000 euro). Infine, la concorrenza del mercato globale. Così, nell’estate 2019, nei supermercati di Cuneo si vendevano le pesche spagnole, nonostante l’annata abbondante di pesche e nettarine italiane. “Il supermercato italiano dovrebbe privilegiare il prodotto italiano, in Francia la politica ha imposto alle catene francesi di farlo. Anche in Italia la politica dovrebbe intervenire per regolare l’enorme potere della GDO”, spiega Ponso, che aggiunge “bisogna riabituare i consumatori a seguire le stagioni. Per avere le fragole dodici mesi all’anno o i kiwi anche a giugno, è ovvio che sei costretto a importarli dall’Australia. Ma il costo ambientale non è calcolato”. E a proposito di costi ambientali e esasperazione dell’estetica, succede che un camion parta da Saluzzo carico di mele, viaggi per 1500 km, arrivi in Germania, al controllo campione si trova il 2% di ammaccature, quindi il camion viene rimandato indietro, mele e imballaggi sono buttati e un altro camion riparte per la Germania.
Se è vero che la Grande distribuzione organizzata schiaccia le Organizzazioni dei produttori (OP) e i fornitori, è anche vero che questi schiacciano, a loro volta, i produttori agricoli. Leggendo il rapporto “Frutta e Legalità” della Coldiretti del 2019, si osserva immediatamente che le grandi OP (dove gli agricoltori conferiscono il prodotto) liquidano il saldo finale ai piccoli produttori e alle cooperative fino a 300 giorni dopo dal conferimento delle mele. Così i grandi gruppi si rafforzano sempre di più e i piccoli si impoveriscono o addirittura spariscono, vendendo le aziende agricole e i terreni per l’impossibilità a restare sul mercato. Una catena dello sfruttamento che ricade sempre sui piccoli.
In natura non c’è niente di uguale
“Per mantenere la produzione ad alti livelli, l’agro-industria si basa sullo sfruttamento della manodopera e del terreno. La nostra terra è stanca, sfibrata. È un territorio fortemente inquinato dove vi è un uso immenso di acqua e di diserbanti. Senza gli anticrittogamici la frutta non esce più. Però non possiamo dirlo perché l’economia locale si basa su questo”. A parlare è Lele Odiardo, educatore e membro del comitato antirazzista di Saluzzo. È lui ad accompagnarci a Bagnolo, nell’azienda agricola di Danilo Boaglio, un piccolo contadino-apicoltore ed ex operaio che, dodici anni fa, ha deciso di mollare la fabbrica e dedicarsi all’agricoltura. Una scelta di cui un po’ si pente perché “la politica in tutti questi anni ha imposto ai piccoli contadini le stesse regole dei grandi imprenditori agricoli”, non riconoscendo in loro una funzione sociale importante, ovvero quella di guardiani del territorio e protettori della biodiversità. Boaglio coltiva mirtilli, pratica l’apicoltura e grazie alle sue api monitora l’inquinamento della zona. “La logica del mercato è al di sopra della salute e del rispetto dell’ambiente. La cosa assurda è che l’agricoltore non si rende conto che senza insetti non produce più la frutta. I diserbanti e i fitofarmaci, pur essendo consentiti, hanno effetti letali o sub-letali: l’ape non muore subito ma porta il polline avvelenato e questo fa sì che la famiglia muore o si spopola. In più, in questi anni sono state selezionate piante che producono di più ma hanno un ciclo breve e sono più deboli, quindi sono attaccate dai parassiti. Di fatto è stata uccisa la biodiversità”, spiega. Nonostante le difficoltà economiche “quest’anno i mirtilli me li hanno pagati 3 € al chilo anche se poi al supermercato li trovi fino a 30€ al chilo”, Boaglio ci tiene a ribadire che lui non sfrutta né l’ambiente, né le persone. “Anche se la GDO schiaccia i produttori agricoli, questo non è un buon motivo per sfruttare i braccianti”.
I braccianti, appunto. Rientrando a Saluzzo, l’ultima tappa di questo viaggio è il presidio “Saluzzo Migrante” della Caritas, un punto di riferimento fondamentale per i braccianti stagionali che giungono in questa zona all’inizio della stagione. “Questo sportello non è solo assistenza, è uno spazio dove i lavoratori chiedono informazioni sul contratto, sui documenti e sul lavoro. Serve a capire la storia delle persone e le loro fragilità”, dice Virginia Sabbatini, 30 anni, coordinatrice del presidio Caritas di Saluzzo. Tra un colloquio e un altro, distribuisce mascherine chirurgiche, raccomanda di non dare soldi a nessuno per la regolarizzazione e chiede ai braccianti se hanno un contratto e un posto dove dormire.
“Saluzzo non è Rosarno ma se si nasconde che la problematica è strutturale non si riuscirà mai ad affrontare il problema. Lo sfruttamento e il lavoro grigio esistono perché consentono a molti imprenditori agricoli di sopravvivere ma ormai è diventata la norma. In tanti anni che lavoro io non ho mai visto buste paga integre. Nei migliori dei casi sono segnate 18 giornate. Se questi lavoratori avessero un lavoro decente e un salario decente, si potrebbero affittare una casa e fermare sul territorio. Sicuramente c’è stato un impoverimento dei produttori di frutta ma io in questi anni ho visto tanti braccianti dormire per terra. E sono sempre i più vulnerabili e ricattabili a pagare”.
In copertina: Piasco, La Milpa; orto collettivo. Foto di Arianna Pagani.