Ad aprile, in pieno lockdown, il Regno Unito ha organizzato dei voli charter per portare i lavoratori agricoli dell’est Europa nei campi in tempo per il raccolto di frutta e verdura. Non è stato il solo paese europeo a farlo. Ce ne sono stati anche altri, tra cui Germania e Austria. La prima sempre nel settore primario, con 40mila arrivi solo in aprile da Romania, Bulgaria e Polonia; la seconda nella cura degli anziani, coinvolgendo soprattutto cittadine romene e bulgare.
Il caso britannico però rimane il più significativo: a pochi mesi dall’aver portato a compimento la Brexit, il governo conservatore di Boris Johnson non si è opposto al richiamare proprio quei lavoratori stranieri che, negli ultimi anni, sono stati indicati come una delle principali motivazioni per uscire dall’UE. Un episodio emblematico di una delle tante realtà che il Coronavirus ha fatto emergere con forza: per funzionare, le economie europee hanno bisogno dei lavoratori stranieri. In quale misura lo hanno calcolato due ricercatori italiani, in uno studio per il JRC della Commissione UE pubblicato ad aprile.
Lavoratori essenziali
“Per i paesi UE, i lavoratori stranieri sono vitali, soprattutto quelli con un basso livello di istruzione”, spiega Francesco Fasani, professore associato alla Queen Mary University di Londra e autore dello studio insieme a Jacopo Mazza. “In media, negli stati UE, il 13 per cento dei lavoratori essenziali sono stranieri e, in alcune professioni – ad esempio, gli addetti alle pulizie, le colf, gli operai nel settore minerario e nell’edilizia – si arriva a percentuali ben più alte, fino a un terzo degli impiegati”.
I dati variano molto da paese a paese. Quelli dell’est, per esempio, hanno percentuali bassissime, perché sono sostanzialmente luoghi di emigrazione più che di immigrazione. Nell’Europa occidentale, invece, sono mediamente più alte, come accade in Italia, sopra la media UE. Nel nostro paese i lavoratori stranieri essenziali sono il 18 per cento, maggiormente concentrati in quelle occupazioni che richiedono meno qualifiche e competenze.
Lavoratori vulnerabili
Dopo aver stabilito quanto sono essenziali questi lavoratori, Fasani e Mazza sono andati oltre. In un nuovo studio hanno cercato di capire quanto i cittadini stranieri che hanno dato un grande contributo durante la fase più acuta dell’emergenza sanitaria rischino di diventare le prime vittime della conseguente crisi economica. E il rischio c’è.
“Queste persone, in media, hanno contratti più precari, salari più bassi e occupazioni che raramente possono essere svolte da remoto”, riprende Fasani. La precarietà colpisce soprattutto i lavoratori extra-UE, che hanno il 48 per cento di probabilità in più di essere impiegati con contratti temporanei rispetto agli autoctoni. Per gli stipendi, invece, la situazione è simile: oltre la metà sia dei lavoratori UE sia degli extra-UE rientra nei quattro ultimi decili della distribuzione complessiva del reddito.
Infine, c’è la questione telelavoro. Un’ampia fetta di lavoratori stranieri non può usufruirne e, quindi, le opzioni diventano due. Se si è considerati essenziali, si continua a lavorare, anche a rischio della salute. Se non lo si è, si rimane a casa, spesso senza tutele e con pochi risparmi da parte, considerati i livelli di precarietà e retribuzione appena descritti. “Partendo dai lavoratori stranieri essenziali, ci siamo accorti che, in realtà, i lavoratori stranieri considerati non essenziali sono ancora più vulnerabili, forse i più vulnerabili in questo momento”, riflette Fasani.
Può sembrare paradossale, ma il ricercatore sottolinea come la domanda per lavori come infermieri o riders in questo momento sia cresciuta e si mantenga elevata. Questo pone dei problemi sanitari importanti, ma al tempo stesso garantisce ai lavoratori stranieri essenziali di poter contare su delle entrate. Quelle che, per fare solo alcuni esempi, gli impiegati nel turismo o nella ristorazione, hanno visto svanire. Un ragionamento europeo, quello di Fasani, che vale ancora di più per l’Italia.
Stranieri poveri
Secondo i più recenti dati ISTAT, i cittadini stranieri in povertà assoluta sono quasi un milione e 400 mila, con un’incidenza sul totale del 26,9 per cento. Tra gli italiani, non arriva al sei. Il fenomeno è più marcato nei piccoli comuni, riguarda maggiormente le famiglie con figli e, ovviamente, i nuclei in cui la persona di riferimento è in cerca di lavoro. Ma c’è anche un significativo 23,1 per cento di famiglie in povertà assoluta nonostante la presenza di un componente occupato.
“È su questo scenario di criticità che si andrà ad innestare la crisi economica attesa”, spiega la responsabile statistica dell’ISMU Livia Ortensi. “L’impatto della crisi su alcuni settori chiave dell’impiego straniero come la ristorazione e il turismo rischia di gravare in modo preoccupante sulle famiglie straniere”. Non solo. La rilevazione ISTAT riguarda solo le famiglie residenti e, quindi, per sua natura, non prende in considerazione gli irregolari o chi, pur in possesso di un valido titolo di soggiorno, non è residente. “Le persone escluse dalla fotografia di ISTAT sono le più fragili e, quindi, le più a rischio. È un quadro preoccupante”, aggiunge la ricercatrice.
Per Ortensi, servirebbero innanzitutto sostegni per le fasce deboli in generale. Non necessariamente provvedimenti specifici per gli stranieri, ma misure ampie e facilmente accessibili da tutti, a prescindere dalla nazionalità o dalla permanenza in Italia. Da un lato, il Governo ha provato ad andare in questa direzione con il Reddito di Emergenza, accogliendo in parte la proposta di ASVIS e Forum Disuguaglianze Diversità. Dall’altro, però, ha mantenuto inalterati i requisiti anagrafici per l’assegnazione del Reddito di Cittadinanza che, secondo l’Alleanza contro la povertà, “discriminano gli stranieri” e andrebbero modificati per poter davvero “raggiungere tutte le persone in condizione di povertà assoluta”.
Secondo Fasani, al tempo stesso, sono importanti anche misure specifiche per migranti e rifugiati, nell’ambito dei permessi di soggiorno o delle rimesse, per esempio. “In tal senso, fino ad ora, in Europa, non ho visto iniziative eclatanti né di lungo periodo. Ci sono stati soprattutto dei tentativi di allargare l’accesso al welfare per alcune categorie di persone, come avvenuto in Portogallo”. E poi c’è anche la regolarizzazione voluta dal Governo italiano per gli impiegati irregolari in agricoltura e allevamento, assistenza agli anziani e cura della casa.
Per il professore della Queen Mary University, è un provvedimento “che va nella giusta direzione, ma non tocca le radici del problema”. “La decisione di restringere il provvedimento solo ad alcuni settori economici, inoltre, è ingiustificata e discriminatoria”. Per sapere se sarà almeno efficace, bisognerà aspettare ancora alcune settimane. A inizio luglio, il Viminale ha comunicato di aver ricevuto circa 80mila domande, soprattutto per assistenza e cura, e di aver deciso di prorogare la scadenza per presentarle al 15 agosto.