Se le città sono la prima frontiera per l’integrazione delle persone migranti, allora una delle necessità fondamentali è quella di mettere in contatto fra di loro le esperienze locali. Ha provato a farlo il 16 dicembre a Milano Cities for All, un convegno internazionale organizzato dalla Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (CILD) [che ha creato e gestisce Open Migration, NdR] e Humans on the Move in collaborazione con il Comune di Milano e Impact Hub Milano. Tre tavoli e tre keynote speech hanno provato a rispondere ad alcune domande chiave. Come ha spiegato il direttore di CILD Andrea Menapace aprendo i lavori, tre mesi dopo il summit delle Nazioni Unite sui Grandi Movimenti di Profughi e Migranti resta molto da fare per innovare e creare ambienti sostenibili per le persone in movimento; bisogna uscire dalla “comfort zone” delle ONG, e Milano è stata in questi ultimi tre anni un esempio di sinergia fra pubblico e privato. Per Christine Mendonça di Humans On the Move, che cerca soluzioni etiche d’impresa per i migranti, si tratta di tradurre idee e principi in misure concrete, e anche di decidere a chi spetta adottare queste misure.
Il primo keynote speech della giornata è quello di Emma Bonino – tra i fondatori della Corte Penale Internazionale, leader nelle battaglie per i diritti civili e i diritti umani ed esperta di diritto dell’immigrazione. “Non voglio citarvi le solite statistiche,” dice, “ma sui migranti si stanno diffondendo come un’epidemia molte bugie, e noi abbiamo la responsabilità di contrastarle”. I fatti che contano, dice, sono piuttosto i minori non accompagnati che scompaiono, scivolando fuori dalla rete documentata del Viminale – “non sappiamo dove vanno ma possiamo immaginarlo, finiscono nella rete della criminalità e sono a rischio di radicalizzazione”; o il traffico di donne nigeriane e il loro stato di schiavitù – “vengono loro sottratti i documenti, e anche quando entrano in progetti di recupero, poi spesso tornano alla prostituzione perché non guadagnano abbastanza da ripagare il debito [con i trafficanti, NdA] o mandare soldi alle famiglie”; e ancora, “su 8.000 sindaci in Italia, solo 2.500 accettano di far parte della rete di accoglienza; è ancora troppo poco.” Per Bonino, il movimento di persone non si fermerà, e quindi le soluzioni devono essere lungimiranti. “In Italia si è deciso che si tratta di un’invasione, e noi quando ribattiamo alle bugie di Salvini siamo troppo educati, e troppo disponibili a soluzioni che tengano gli immigrati lontani, come l’accordo per i rimpatri stipulato col Sudan.”
Per Bonino ci sono solo due strade: la prima è cambiare la legislazione, e la seconda è rovesciare la narrazione anti-immigrati, smettendo di “predicare ai convertiti”. Per lei, prima di tutto, il movimento migratorio non è un’invasione: “perché l’economia italiana possa funzionare abbiamo bisogno di circa 60.000 nuovi immigrati ogni anno; lo stesso vale per la Germania, la Spagna, il Portogallo, la Bulgaria, cioè una parte importante dell’Unione Europea. Parlando con un collega norvegese, mi congratulavo con lui perché avevano appena trovato un deposito di gas, e lui mi ha detto grazie, ma avrei fatto volentieri cambio con 50.000 infermieri”. Gli italiani credono che gli immigrati di religione musulmana siano una percentuale altissima, mentre sono soltanto il 4%, e “hanno a malapena idea che la maggior parte degli immigrati sono di religione cristiana o animista”. Per Bonino, non si cambiano le false narrazioni se non si scende per le strade a incontrare le persone.
Intanto però, va fatta una battaglia legislativa, anche perché dal 2015 l’Italia non è più prevalentemente un paese di transito: “siamo noi stessi che stiamo costruendo un esercito di irregolari, creandoci un nuovo problema. I sindaci fanno miracoli, ma non possono violare la legge, e la legge va cambiata. Da transitanti, con la chiusura delle frontiere i migranti sono diventati richiedenti asilo. Però meno del 50% delle loro richieste viene accolto, e questo per via di quella che secondo me”, dice Bonino, “è un’interpretazione illegale del concetto di ‘safe state’, perché il diritto internazionale si basa sul concetto che l’asilo va garantito su base individuale, non sulla base dello stato di provenienza. Dopo essersi visti respingere la richiesta di asilo, gli irregolari rifiutati restano, sia perché pensare di rimpatriarli tutti è troppo costoso, sia perché a volte i loro paesi non li rivogliono, e così finiscono preda del mercato nero e dei ricatti – come gli affitti triplicati. Lavorano soprattutto nell’assistenza, nell’agricoltura e nell’edilizia. Non hanno alcun documento o base legale per rivendicare i loro diritti, non possono chiedere il ricongiungimento familiare.” Bonino dice che sta studiando la legge e mettendo a punto una proposta per la regolarizzazione che non vuole finisca in un cassetto del ministero, ma che vuole diventi invece una legge di iniziativa popolare. “Basta essere d’accordo su pochi principi condivisi – che in Italia non vige la sharia, che non possiamo accettare il velo totale perché la nostra legislazione si basa sulla responsabilità individuale negli spazi pubblici, che andremo per le strade a contrastare in modo non violento la propaganda anti-immigrati, e che abbiamo bisogno di idee nuove, creative e tecnologiche.”
A confrontarsi su modelli riusciti di integrazione sono Manuela Brienza dell’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Milano, Fleur Bakker del gruppo olandese di imprenditoria per i rifugiati Refugee Company, Csilla Toth di Open Society Foundations e Nadina Christopolou del Melissa Network. Brienza ricorda le cifre dell’accoglienza a Milano, il grande cambiamento avvenuto nel 2015 con la chiusura di alcune frontiere europee, e gli obiettivi del Comune per un’accoglienza diffusa, a cominciare dal progetto pilota di accoglienza in famiglie e case private, con tutoraggio mirato e 350 euro di rimborso mensile per ogni famiglia. In tre anni, da Milano sono passate 118.000 persone, di cui 25.000 minori compresi più di 5.000 non accompagnati. Il 12 dicembre a Milano, racconta Brienza, erano presenti 3755 persone fra transitanti e richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale; di queste 422 accolte nel sistema della rete SPRAR, quasi 1500 accolti dalla prefettura di Milano con il terzo settore, inclusi i 300 accolti nella Caserma Montello; i restanti 1839, ormai per lo più richiedenti asilo, sono accolti in convenzione fra Comune e terzo settore. Brienza racconta anche del coinvolgimento dei richiedenti asilo (per ora su base volontaria ma che potrebbe diventare un programma di tirocinio professionale) nei progetti di riqualificazione ambientale, di lotta al degrado e di pulizia dei parchi di Milano.
Fleur Bakker racconta l’esperienza di Refugee Company in Olanda: “In Olanda abbiamo rifugi per migranti soprattutto nelle periferie, ci lavoro da 17 anni e di rado ho incontrato ingegneri o bancari; per questo noi ci concentriamo sulla formazione professionale e sul lavoro come modo per sbarazzarsi dell’etichetta di rifugiato. Addestriamo elettricisti siriani bravissimi, che installano pannelli solari. Se conoscete un po’ l’Olanda, sapete che abbiamo un sistema molto strutturato, così cerchiamo soluzioni creative per aggirarlo un po’, per esempio portando gli elettricisti con noi a lavorare sui tetti per una settimana in modo che abbiano quell’esperienza in curriculum prima di entrare nella rete professionale olandese.” Un video di Refugee Company mostra il lavoro di Mr Khaled, che pur abitando ancora in rifugio e senza documenti definitivi, è diventato un sarto specializzato in abiti maschili da cerimonia su misura. “Facciamo in modo che le persone vengano adeguatamente retribuite e che possano mostrare un’esperienza spendibile nel loro curriculum”.
Csilla Toth racconta di un progetto di Open Society dedicato all’integrazione dei migranti musulmani, a cui lei ha partecipato fin dall’inizio: “funzionava bene finché, dopo tanti attentati di matrice islamica, l’argomento è diventato molto controverso. La narrazione populista contro l’integrazione delle comunità musulmane è in aumento, e la situazione è peggiore di quanto non fosse nel 2007. Gli standard dell’accoglienza si stanno abbassando, anche negli Stati Uniti. Una delle nostre esperienze più riuscite è l’insegnamento professionale peer-to-peer. Una delle chiavi per l’integrazione, però, è risolvere l’eccessiva brevità dei permessi di soggiorno temporanei, che non consentono alcun progetto o radicamento”. È d’accordo Brienza, che ricorda che secondo il decreto legislativo [n. 142 del 18 agosto 2015, che recepisce due direttive europee in materia, NdR] entrato in vigore il 30 settembre, oggi si può cominciare a lavorare dopo due mesi dal primo permesso di soggiorno semestrale.
Uno dei punti che emergono dalla discussione fra Brienza, Toth e Bakker è che le città sono il laboratorio da monitorare perché è lì che vengono testate le politiche nazionali sul territorio. L’altro passaggio mentale da fare, racconta in collegamento Skype da Atene l’antropologa Nadina Christopoulou, è trasmettere l’idea che “i profughi di oggi sono i nostri vicini di casa di domani,” e spostare lì tutte le energie. Nadine ci parla da una vecchia casa nel cuore di Atene, dalla cui finestra si vede una delle sedi del partito xenofobo di estrema destra Alba Dorata, una vicinanza che il Melissa Newtork ha scelto apposta. Il programma a cui Nadine lavora da due anni mette in rete fra di loro 24 gruppi di donne rifugiate per creare un mutuo sostegno: “le donne sono quelle che patiscono di più la mancanza di sostegno sociale, e se dai loro qualcosa di buono, sono delle moltiplicatrici. Il nostro nome in greco vuol dire ‘miele’, perché noi siamo questo – un alveare”.
Al panel su innovazione e impresa partecipano Omid Habibi, afgano e membro di Shared Studios, organizzazione che ha creato la tecnologia audiovisiva immersiva dei Portals, Jihad Asad di Refugee Company, la professoressa Kiran Trehan della Enterprise and Diversity Alliance dell’Università of Birmingham, e Mark Latonero di Data & Society. Asad, rifugiato siriano, dice “è tutta la vita che faccio l’imprenditore, mi sembrava utile insegnare quello che so ad altri rifugiati; conoscevo l’industria che esisteva in Siria, e sapevo che in Olanda ce n’era una altrettanto fiorente, perciò metterle in collegamento sembrava una buona idea. Un’altra cosa che facciamo è creare spazi co-gestiti, in modo che i lavoratori possano abbattere le spese”. Per Habibi, è necessario creare spazi pubblici che siano gratuiti e che servano da incubatori, mentre Trehan racconta l’esperienza di Birmingham nel mettere in collegamento fra di loro realtà professionali, banche, imprese e minoranze che prima lavoravano in assoluto isolamento. Mark Latonero mette in guardia: la stessa tecnologia che usiamo per connettere e aiutare, come i money transfer di Western Union, può anche essere usata per sfruttare e schiavizzare: “dobbiamo parlare dei costi, dei danni, e dei rischi dell’uso di questa tecnologia quando interviene negli spazi dedicati ai rifugiati”. Per Asad, per comunicare con i politici (o con quello che Trehan definisce “il mainstream”) bisogna dar loro degli incentivi comprensibili: “se pensano che sia un piatto che scotta, si terranno il più lontano possibile”. Trehan però non è convinta che la vera leadership a cui guardare sia quella dei politici o degli amministratori delegati: “invito con forza a scoprire invece la leadership già esistente sul territorio, perché è quella che muove le cose”.
Don Virgilio Colmegna della Casa della Carità comincia il suo intervento raccontando di una visita in una scuola della periferia di Milano: “sono giovani tecnologicamente connessi, eppure quando ho chiesto loro quanti immigrati sono arrivati in Italia quest’anno – cioè 170.000 – mi hanno risposto sparando una cifra dieci volte più grande. È comodo scaricare sull’immigrazione tutte le paure del villaggio globale”. Per don Colmegna, il fenomeno migratorio ha bisogno di una narrazione vera, che ne racconti la complessità, compresi diritti e sentimenti. Riallacciandosi a quanto detto da Emma Bonino, individua uno dei maggiori problemi nella prossimità con le questure a cui i migranti sono ancora costretti, oltre all’esistenza del reato di clandestinità e alla gestione degli immigrati come un problema di ordine pubblico. Per don Colmegna è fondamentale compiere il salto dalle soluzioni emergenziali e assistenzialiste a quelle strutturali. Alla Casa della Carità, dice, “abbiamo individuato nella necessità di un domicilio una delle esigenze fondamentali: per questo assegnamo decine di migliaia di domicili, perché da lì vengono le uniche possibilità – se perdono il domicilio, perdono il lavoro”. A chi protesta che si tratta di una questione di sicurezza, continua, “bisogna spiegare che stiamo proprio lavorando per la sicurezza di tutti, che il nostro sistema produttivo non sta nemmeno in piedi senza immigrati e che non dobbiamo lasciarlo in mano all’affarismo criminale”.
A chiudere la giornata, un panel sull’investimento privato e l’impresa a cui prendono parte Jeremy Gorelick di PwC, il professor Monder Ram del Centre for Research and Minority Entrepreneurship ed Emiliano Giovine di R&P Legal, che comincia raccontando l’esperienza di mettere in collegamento i rifugiati con le camere di commercio sul territorio. Per Jeremy Gorelick, la reazione all’idea di Obama di accogliere 10.000 siriani negli Stati Uniti ha suscitato reazioni pessime. A New York e Los Angeles, dice, “il costo della vita è troppo alto perché i programmi federali possano coprire i costi, non esiste aiuto federale a lungo termine, i politici locali dicono che non ce la fanno”.
Monder Ram, che lavora da 15 anni a una serie di progetti a Birmingham, dice:”in Inghilterra le statistiche dimostrano facilmente che senza immigrazione non ci sarebbe crescita economica, eppure guardate dove ci ritroviamo, con Brexit alle porte e tutto quello che implica.” La ricerca accademica, dice Ram, è necessaria ma non basta; a giocare una parte dev’essere un insieme di soggetti, istituzioni, politici locali, comunità. “Noi sappiamo per certo che i migranti contribuiscono alla vita delle città e degli spazi pubblici, come la cambiamo questa narrazione? Soprattutto quando per necessità i migranti creano i loro ecosistemi separati dal mainstream. Adesso stiamo lavorando a un progetto nazionale con la Royal Bank of Scotland, in cui gli imprenditori leader delle comunità migranti ricevono mentoring e assistenza dalle banche.” In questo l’Italia è sicuramente in ritardo, nota Andrea Menapace, ma a maggior ragione le opportunità sono enormi. Per Gorelick, il segreto per far andare di pari passo la vita delle popolazioni locali e quella dei migranti è di anticipare con grande margine la crescita delle città e il bisogno di infrastrutture e di alloggi a prezzi accessibili. Emiliano Giovine, facendo l’esempio di Torino, dice: “quando ci si siede a discutere con gli esperti legali e le camere di commercio, l’obiezione su cui ci si arena sempre è: come facciamo ad allocare fondi, sviluppare capacità e collegare fra di loro i soggetti interessati quando non riusciamo a farlo nemmeno per gli italiani?”
Nei tavoli pomeridiani del convegno si individua nel lavoro l’ingrediente principe dell’integrazione, insieme a cultura, accesso ai servizi, autonomia, lingua, sostenibilità, senso di protezione, incentivi economici, coinvolgimento di chiese, scuole, donatori, sindacati, attività commerciali e industriali. Per uno dei partecipanti, bisogna anche stabilire regole universali di mutuo soccorso, in cui i paesi facciano a turno ad aiutarsi: “lo dico perché da siriano non avrei mai, mai potuto immaginare che avremmo avuto tanto bisogno, che un giorno sarebbe potuto toccare a noi.” E se Emma Bonino ci ricordava che Viktor Orban ha basato un’intera politica di rifiuto sulla richiesta UE di accogliere 1.300 persone migranti quando ogni anno 6.000 ungheresi lasciano il loro paese, l’ultima parola sull’integrazione la lasciamo proprio a una partecipante ungherese: “se si guarda la mappa del mio paese, il paradosso è che le comunità più spaventate dai migranti sono quelle che non ne hanno mai visto uno.”
Copertina: Sonia Folin, Manuela Brienza, Fleur Bakker, Csilla Toth e Andrea Menapace. Foto: Fabrizio Albertini.