Si chiamava Alì, aveva 30 anni e veniva dalla Tunisia. Il 5 gennaio scorso si è tolto la vita. Una tragedia che è nata e cresciuta nell’hotspot di Lampedusa. Se il suo suicidio non ha fatto rumore, l’hotspot è però tornato di nuovo al centro dell’attenzione a causa della presunta “rivolta” – nei fatti ridimensionata a rissa fra trattenuti nel centro – che ha fatto dichiarare al sindaco dell’isola, Totò Martello, conosciuto per le sue posizioni non proprio attente ad accoglienza e integrazione, “Lampedusa è ormai un grande hotspot a cielo aperto”.
Sull’hotspot di Lampedusa sono arrivate anche le critiche del Garante dei detenuti, che il 24 gennaio scorso ha visitato il centro. Dove, nonostante le raccomandazioni dell’anno scorso, nulla è cambiato: “la situazione più preoccupante che ho trovato”, ha detto il garante, “è che le condizioni riscontrate nel centro sono le stesse di un anno fa: quelle che già avevamo denunciato al Ministero dell’Interno. Tutte le indicazioni di miglioramento non sono state colte”.
Quella dell’hotspot è davvero un’emergenza?
Bagni alla turca senza porte, materassi sporchi e nessuna stanza per la socialità o per il culto. Nell’hotspot di Lampedusa non c’è nemmeno una mensa, perchè negli spazi una volta adibiti ad area pasti sono ora stipati materassi per i 194 migranti attualmente ospitati.
Niente di nuovo per l’hotspot, quelli rilevati sono problemi già largamente denunciati dallo stesso Garante nel suo rapporto del 2017. A sorprendere invece è l’approccio emergenziale con cui a Lampedusa si continua, ancora oggi, ad affrontare l’accoglienza. Come commentato da Mauro Palma, presidente del Garante, durante la conferenza stampa sulla visita: “mi dispiace che ogni volta si affronti la questione di Lampedusa come un’emergenza improvvisa. Dobbiamo invece trattarla in maniera più strutturale. Colpisce che nel 2018 mi si dica che a distanza di sette anni dall’incendio scoppiato all’hotspot di Lampedusa si stanno ancora presentando i progetti per il recupero degli spazi”.
Unica via d’uscita: il buco nella recinzione
Gli hotspot sono strutture pensate per identificare rapidamente, registrare, fotosegnalare e raccogliere le impronte digitali dei migranti, che qui dovrebbero essere trattenuti solo per il tempo necessario, e comunque non più di un paio di giorni. A Lampedusa, però, i giovani vi restano rinchiusi per settimane. Come è successo appunto ad Alì, che si trovava lì già da mesi – per la precisione, da ottobre 2017 – quando è arrivato a togliersi la vita.
Che posto è, allora, Lampedusa? Un luogo di passaggio, dove i migranti sono identificati prima di essere trasferiti in strutture idonee alla loro accoglienza o rimpatriati come prevede la legge (i rimpatri stanno avvenendo con costanza anche in queste settimane), o un buco nero legale, dove i migranti sono trattenuti in condizioni deplorevoli fino a data da destinarsi? “La criticità maggiore di Lampedusa è la sua ambiguità. Dovrebbe essere un posto dove i migranti sono identificati e poi trasferiti. E invece si viene trattenuti per tanto tempo… Più che un hotspot, quello di Lampedusa assomiglia a un centro stabile di detenzione”, ha commentato Palma.
A Lampedusa, l’hotspot è annidato dietro un cancello sorvegliato che chiude la Contrada Imbriacola, nel cuore più remoto dell’isola, una strada asfaltata fra le rocce e le agavi, costeggiata da una rete metallica e da una fila di alti lampioni. Da anni, i migranti più giovani a volte riescono a uscire la sera da un buco nella rete di cui tutti sono al corrente – chi per raggiungere a piedi il centro, lontanissimo, e poi fare tutta la strada per rientrare, chi per andare a protestare davanti alla chiesa del paese proprio contro le condizioni dell’hotspot. E adesso l’obiezione con cui si è sentito rispondere il Garante è che non si possa parlare di centro di detenzione proprio perché si sa che si può uscire attraverso il buco nella recinzione. Evidentemente, saperlo non è bastato ad Alì per non togliersi la vita a qualche centinaio di metri dal luogo da cui non vedeva via d’uscita.
In copertina: la strada chiusa che porta all’hotspot, nell’interno di Lampedusa (fotografia di Marina Petrillo)