L’Ungheria ormai da tempo si configura come uno dei luoghi in cui si concretizzano gli effetti delle sperimentazioni politiche europee in materia di immigrazione. Continua a rappresentare una tappa quasi obbligata per richiedenti asilo provenienti da Afghanistan, Iran, Siria, Bangladesh, Pakistan e Iraq che percorrono la rotta balcanica, mentre la sua situazione politica e gli spazi democratici continuano a deteriorarsi. Il famoso muro di confine, strumento di selezione per limitare gli ingressi nel territorio dell’Unione Europea, è stato completato nel settembre del 2015 rendendo così operative, grazie a un emendamento all’Act on the State Border, anche le zone di transito di Röszke e Tompa, al confine con la Serbia, costruite nella recinzione di confine all’interno del territorio ungherese e pattugliate da ufficiali di polizia e guardie di sicurezza armate.
Nel mese di marzo 2017 era in fase di completamento una nuova barriera ad alta tecnologia dotata di sensori di calore, telecamere e altoparlanti, che intimano in inglese, arabo e farsi di non tentare di attraversare il confine in maniera irregolare, e ricordano la “possibilità” di chiedere asilo nella “transit zone”, la zona di transito, costata 123 milioni di euro.
A costo della violazione dei diritti delle persone che tentano di attraversare, le misure di deterrenza attuate dal governo ungherese si sono rivelate efficaci, perché hanno ridotto drasticamente le domande di protezione internazionale nel paese, il che ci porta ad azzardare che l’Ungheria stia svolgendo in area Schengen il ruolo di guardiano delle frontiere che la Turchia ha alle porte del continente europeo.
Le modifiche legislative: la detenzione dei richiedenti asilo
Una delle forme di violenza più invasive a cui lo stato può ancora ricorrere consiste nel privare un individuo della sua libertà. Il 7 marzo dello scorso anno il Parlamento ungherese ha approvato la legge che prevede la detenzione obbligatoria per i richiedenti asilo – tutti, senza distinzione di sesso, età e condizioni fisiche, compresi soggetti vulnerabili, donne in gravidanza e minori non accompagnati, fatto salvo per i minori di 14 anni. E in caso di diniego della domanda, il richiedente è anche costretto a coprire le proprie spese di mantenimento svolgendo lavori di pubblica utilità.
In pratica, i richiedenti asilo saranno detenuti per tutta la durata della procedura per il riconoscimento della protezione, trattenuti in container nelle zone di confine con la Serbia, restando la detenzione di fatto indefinita.
Le zone di transito di Röszke e Tompa diventano così anche l’unico luogo in cui è possibile presentare domanda di protezione. Infatti, anche se le persone sono intercettate su territorio ungherese in condizione di soggiorno irregolare o nel tentativo di attraversare la recinzione sul confine, non viene data loro la possibilità di avanzare richiesta e non vengono condotte all’interno delle zone di transito, ma direttamente respinte in Serbia, senza alcuna valutazione della posizione individuale o l’opportunità di contestare questa misura. Una volta fuori dalla frontiera, per avanzare richiesta di protezione i cittadini stranieri dovranno chiedere accesso alla zona di transito.
Le autorità ungheresi, di fatto, non considerano il trattenimento nelle zone di transito come una privazione della libertà, sposando la tesi secondo cui i richiedenti resterebbero liberi di recuperare la propria libertà lasciando autonomamente il territorio dello stato attraverso la porta d’uscita della zona di transito, in pratica rientrando in Serbia, cosa che non dovrebbe essere considerata in astratto perché equivarrebbe a rinunciare alla richiesta di asilo. Così come è prevista, la detenzione non contempla nessuna garanzia. Per esempio, ad oggi, contro un provvedimento di detenzione non ci sono rimedi giuridici specifici, semplicemente perché non viene emesso alcun tipo di provvedimento formale.
Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo nel marzo del 2017 ha confermato come il confinamento dei richiedenti nelle zone di transito costituisca, a tutti gli effetti, una illegittima privazione della libertà. Intanto, però, l’espansione della detenzione dei richiedenti asilo a livello nazionale risuona nella discussione sulle proposte di riforma del Sistema europeo comune d’asilo, legittimando le tendenze degli Stati membri all’uso della detenzione amministrativa come prima risposta e non come ultima risorsa.
Ma cosa succede nella zona di transito? La procedura di confine
Le autorità ungheresi hanno progressivamente limitato l’ingresso dei richiedenti asilo alle zone di transito ufficiali, passando agli inizi del 2017 da 30 persone al giorno a solo 10 e solo nei giorni lavorativi, per poi accettarne solamente due per entrambe le zone di transito a partire dalla fine di gennaio 2018. Insomma, nemmeno l’equivalente di una famiglia – un numero talmente limitato da spingere ulteriormente le persone a tentare l’ingresso irregolare. Queste limitazioni arbitrarie non hanno alcuna base giuridica, oltre a essere in contrasto con il diritto europeo – che prevede la possibilità per gli stati, in caso di afflusso massiccio di richiedenti asilo, di accomodare le persone in zone limitrofe al confine o alla zona di transito, ma non di limitare il numero di richiedenti asilo che può accedere alla zona di transito.
Sono dunque ammesse alla procedura di asilo solamente 10 persone a settimana. All’ingresso nelle zone di transito le persone vengono identificate, e solo in seguito a una verifica di sicurezza, e dopo aver controllato che non abbiano già avanzato richiesta in altro paese europeo, vengono collocate in una delle sezioni della zona di transito.
Al 31 agosto 2017, 436 richiedenti asilo erano detenuti nelle due zone di transito, di cui 226 minori fra i 14 ei 18 anni. Le condizioni di vita nelle zone di transito sono di forte privazione della libertà personale, essendo le persone costantemente sotto sorveglianza. Secondo il rapporto del Consiglio d’Europa, relativo alla visita effettuata nel mese di giugno del 2017, a Röszke, sono accolte solo famiglie e minori anche non accompagnati. Mentre a Tompa, uomini soli e famiglie con minori sono collocati in sezioni separate.
La procedura di frontiera, che viene applicata nelle zone di transito ungheresi ai sensi dell’articolo 71A dell’Asylum Act, è un tipo specifico di procedura di ammissibilità, per cui la valutazione della richiesta di protezione internazionale è limitata a un numero esiguo di richiedenti, in particolari circostanze. Anche la proposta di Regolamento Procedure della Commissione europea prevede che una procedura di ammissibilità o una procedura accelerata possano svolgersi in stato di detenzione in una zona di transito, in alcune circostanze anche laddove si tratti di minori stranieri non accompagnati – tuttavia, quantomeno, fissando un limite temporale. Nella maggior parte dei casi, la domanda viene dichiarata inammissibile per il solo fatto che il richiedente è entrato in Ungheria da un paese terzo considerato sicuro, anche laddove vi sia solo transitato, in quanto “avrebbe potuto chiedere protezione lì” senza alcuna considerazione delle reali esigenze di protezione, sulla base di una lista di paesi stabilita dal governo.
Fra questi figura anche la Serbia, con conseguente rifiuto quasi automatico di una buona parte delle domande di asilo. Ma la Serbia, anche se paese candidato all’ingresso nell’Unione Europea, non può essere considerato Paese terzo sicuro, in quanto i requisiti previsti affinché un paese terzo possa essere considerato sicuro o di primo asilo, non possono dirsi soddisfatti, e non risultano tutelate le persone dall’eventuale respingimento a catena in un ulteriore paese non sicuro.
In caso di decisione di inammissibilità, l’autorità competente (Oin, Ufficio per l’Immigrazione e Nazionalità) espelle il richiedente asilo ed emette un divieto di ingresso e soggiorno della durata di uno o due anni. Se la richiesta d’asilo viene considerata ammissibile, può applicarsi una procedura accelerata, tra le altre cose se il richiedente ha fornito solo informazioni irrilevanti o false o in caso provenga da un paese di origine considerato sicuro. Non vi sono adeguate garanzie per proteggere le persone dal respingimento verso paesi in cui sarebbero a rischio di trattamenti contrari al diritto alla vita e alla proibizione della tortura, considerando i termini strettissimi entro i quali deve essere presa una decisione – soli 15 giorni – sia per quanto concerne la procedura di ammissibilità sia per la valutazione nel merito in caso di procedura accelerata. Anche i termini entro i quali dovrebbe svolgersi la revisione giudiziaria sono estremamente brevi, comprimendo così il diritto di difesa.
Infine, non c’è possibilità di accesso stabile alla consulenza legale professionale nella zona di transito. Questa viene fornita dall’Hungarian Helsinki Committee, quando viene loro consentito l’accesso, ma ci riferiscono che invece il livello di assistenza fornita dal servizio pubblico è inadeguato.
L’Europa cosa dice?
Nonostante molte delle normative e delle prassi adottate dall’Ungheria risultino essere in netto contrasto con il diritto internazionale ed europeo, non sempre esattamente garantista, l’Europa sembrerebbe riluttante a richiamare l’Ungheria per le sue azioni contro i richiedenti, allineando la sua posizione a quella di singoli Stati membri.
A maggio del 2017, la Commissione europea ha dato seguito alla procedura di infrazione avviata contro l’Ungheria nel dicembre 2015, attraverso l’invio di una ulteriore lettera di messa in mora. Ma l’avvio di una procedura di infrazione non significa necessariamente sanzioni, e sebbene rappresenti uno spiraglio, si tratta della stessa Europa che nelle riforme del Sistema europeo comune d’asilo sembra intenda avviarsi a seguire la politica ungherese, mettendo seriamente in discussione il diritto d’asilo.
In copertina: rifugiati siriani alla stazione di Keleti, Budapest, nel 2015 (fotografia di Tomoko Snyder, su licenza CC BY 2.0)