La storia, e il suo racconto, si nutre di pietre miliari, momenti, immagini. Nell’immaginario collettivo, trent’anni dopo, l’8 agosto 1991 avrà sempre un posto speciale. Nel porto di Bari, a bordo della nave Vlora, arrivarono circa 20mila persone provenienti dall’Albania. Il regime era ormai collassato, dopo aver tenuto il potere dal 1944 in una delle realtà più chiuse e dure del blocco orientale. Dell’Albania, in fondo, in Italia si sapeva poco o nulla. Gli albanesi, invece, per anni, si erano nutriti delle immagini delle televisioni italiane, alimentando un sogno di benessere e opulenza che in fondo era lontano dalla realtà. Due visioni, due incomprensioni di fondo, che quel giorno, a Bari, si incontrarono senza preliminari.
In realtà gli sbarchi dall’Albania erano iniziati molto prima, soprattutto nella zona di Brindisi, ma sempre in piccoli gruppi, su imbarcazioni di fortuna. E proprio a Brindisi, in un primo momento, la nave tentò l’attracco, ma venne respinta. L’allora vice prefetto della città, Bruno Pezzuto, informato da imbarcazioni di pescatori brindisini del numero di persone a bordo, fu preso dallo sgomento e ordinò che la nave venisse dirottata a Bari, che almeno sulla carta aveva più strumenti. Con un carico eccessivo, ormai quasi a secco di benzina, con migliaia di persone stremate, la Vlora giunse a Bari e venne fatta attraccare al molo Carboni, il più lontano possibile. Quelle immagini, immortalate dagli scatti dello storico fotografo Luca Turi, dalle riprese video degli operatori Rai accorsi sul posto, hanno segnato un archetipo: l’invasione.
Al tempo, vista la distanza dalle narrazioni tossiche odierne, è probabile che nessuno degli operatori dell’informazione e dei testimoni se ne rendesse conto, ma si segnava anche un cambio di linguaggio che avrebbe molto influenzato il futuro. Una marea umana, ammassata, sudicia e sfinita dal caldo e dal viaggio, veniva presentata come un’orda senza storia, senza volti, senza nomi. L’impatto di quelle immagini è quello della massa senza nome, che preme alle porte della quotidianità, che spaventa perché è massa, appunto, non individui. Le migrazioni non abitano mai spazi vuoti. Come reagì la città di Bari?
“Quello che ricordo, più di tutto, è stata la straordinaria reazione della gente comune, in particolare nella città vecchia e nella zona del porto, che ha mostrato subito tanta solidarietà. Le realtà associative della città, quelle della chiesa e anche gente comune si sono subito attivate per dare una mano a chi era arrivato dal mare. E non dimentichiamo che in quegli anni Bari non viveva un periodo facile”. Così ricorda quel 8 agosto 1991 don Angelo Cassano, all’epoca giovane seminarista, che oggi è sempre in prima linea in città sui temi del rispetto e dell’accoglienza ed è referente della Rete Libera.
“Ricordo bene come nei primi anni Novanta le mafie imperversassero in città: omicidi e sparatorie, in particolare a Bari Vecchia. Per capire il clima, basti ricordare che è proprio nel 1991 che viene dato dolosamente alla fiamme il Teatro Petruzzelli – ricorda don Angelo – Nonostante questo, la città rispose in modo incredibile ai bisogni degli albanesi sbarcati in città, anche se mancavano gli strumenti della politica e dell’accoglienza, perché non esisteva ancora una capacità dello Stato e delle istituzioni di prevedere e di organizzare la comunità rispetto a un esodo così massiccio, che fa sorridere se paragonato alla retorica dell’invasione che si ascolta in questi anni. Con i pochi strumenti del tempo, il Comune di Bari fece quello che poteva, senza una politica nazionale pronta a dare una risposta. Anzi, lo scenario delle persone portate allo Stadio della Vittoria rievocò in molti le immagini terribili delle dittature dell’America Latina del passato”.
Dopo le prime ore sul molo, al porto, le persone vennero spostate allo stadio. Una scena che ancora oggi è una ferita: persone disperate, cibo e acqua che veniva lanciato dall’alto, come se si trattasse di una folla disumana, donne e bambini che nelle prime ore vennero tenuti chiusi dentro.
Cosa resta oggi di quelle giornate a Bari?
“Resta un momento storico, che ha cambiato il modo di vedere le cose e di impegnarsi nel sociale di una generazione intera di cittadini di Bari. Solidarietà, accoglienza, confronto con il mondo: furono temi che esplosero in quel tempo e che arrivarono fino al 2001 e ai dibattiti sulla globalizzazione. E anche il nostro modo di essere chiesa, in qualche modo, è cambiato. Non dimentichiamo la figura di don Tonino Bello, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, uno dei pochi a entrare in quello stadio. La sua sensibilità e la sua idea di andare incontro all’altro, diventarono messaggio e pratica, prima in Puglia poi in Italia. Oggi Bari è cambiata, quelli erano tempi bui, contraddittori, con la città sotto scacco delle mafie, che non riusciva a esprimere le sue risorse, le sue capacità. Quelle energie, dalla paura si riversarono sull’accoglienza e la città cambiò, anche grazie all’arrivo degli albanesi, che furono parte di un processo di risveglio civile. Quella Bari, oggi, è cresciuta molto”.
Molto si è scritto e detto su come l’idea stessa delle migrazioni di massa fosse una novità assoluta nell’Italia dell’estate del 1991. Di sicuro, un numero così elevato di arrivi, nella stessa giornata, erano una cosa mai vista, ma in realtà, a Bari, c’era una comunità di persone che da anni animavano la cultura cittadina e un melting pot fatto di palestinesi e greci, rifugiati politici e studenti. Uno di loro, che ha poi fondato il sodalizio musicale Radioderwish e che vive ancora a Bari, è Nabil Salameh, palestinese che arrivò a Bari negli anni Ottanta dal Libano. Come guardò a quell’arrivo la comunità straniera della città, abituata a essere integrata e rispettata, perché nata da una migrazione ‘politica’ e di alto livello culturale?
“Un giorno apocalittico. Era una cosa inimmaginabile. Una nave, carica di esseri umani, che come in un film di fantascienza, usciva dalle nebbie di tutto quello che non sapevamo. La reazione di Bari è stata di stupore, ma non mancò l’accoglienza – racconta Nabil – Siamo oggi come eravamo allora meridione, capace di provare empatia per altri sud del mondo, con il loro carico di povertà e dolore. A Bari ne vedo ancora traccia, pur con le trasformazioni di una metropoli mediterranea e i mutamenti del contesto. E diverse realtà culturali, da quel tempo, si sono adoperate a tenere vivo questo spirito storico di una città dell’accoglienza e dell’incontro. Quel giorno a Bari, in fondo, è arrivata un’immagine dal futuro. Le disuguaglianze economiche, la schizofrenia delle politiche occidentali, che predicano democrazia e diritti, ma depredano altri mondi. E quella nave portava visioni: l’approccio umano, rappresentato dal sindaco del tempo e dalla gente comune, e quello feroce, del governo del tempo, che ha anticipato quelle speculazioni autoritarie che hanno contribuito alla nascita di quella fabbrica della paura che è diventata la politica quando si parla di migranti.”
Il sindaco di Bari, l’8 agosto 1991, era Enrico Dalfino, un giurista, un intellettuale. Che aprì la strada della politica a molti giovani, come Vito Leccese, attualmente capo di gabinetto del sindaco Decaro a Bari. “Ho un ricordo drammatico, ma anche umano, di quelle giornate. Io ero sulla banchina, ogni giorno, con lui. Ho conosciuto tanti ragazzi albanesi, che erano là per cambiare il loro futuro. È stata un’esperienza umana e politica molto d’impatto quella al fianco del sindaco Delfino. In quell’agosto 1991, oltre alle note qualità professionali e politiche, emersero con forza le sue qualità umane e morali. Nei dieci giorni della Vlora, il sindaco per 24 ore al giorno si divise tra il molo e lo stadio, cercando sempre di capire come lui, l’amministrazione comunale e la città potessero essere utili per rendere meno dura e traumatica la permanenza di queste persone in città – racconta Leccese – Mi è capitato, in questi giorni, di rileggere le cronache di trent’anni fa e ho ritrovato una famosa intervista che il sindaco rilasciò al quotidiano il manifesto: fece infuriare il ministro degli Interni Scotti prima e il presidente della Repubblica Cossiga dopo. E le parole del sindaco sono ancora più forti se commisurate a un clima politico che vedeva ancora Andreotti primo ministro, Forlani segretario DC. Non era semplice sostenere le ragioni dell’accoglienza. In questo è stato un anticipatore, c’era un pezzo di futuro a Bari, e lui l’aveva capito”.
Nell’interivista, il sindaco si diceva sconvolto dalla decisione di chiudere queste persone nello stadio, di non capire il trattamento riservato e, soprattutto, di non cogliere il senso dell’approccio militare. “La situazione venne normalizzata, dovette anche scusarsi, per evitare il commissariamento della città, perché Cossiga – atto unico in Italia – dopo averlo anche offeso, annunciò che lo avrebbe rimosso. Il mio ricordo è l’attività frenetica di quei giorni, i valori che ci trasmetteva e come ha interpretato il ruolo di sindaco. Non dimentichiamo che nel 1991 il sindaco era eletto dal consiglio comunale, non dal popolo come oggi, all’epoca potevi essere rimosso subito. Lui è stato capace, al di là degli interessi personali e della politica, di sentire il volere popolare, in città e in Italia, che all’epoca era molto più predisposto all’accoglienza e all’aiuto, rispettando la storia di Bari città aperta, del nostro san Nicola, ponte tra mondi e protettore dei viaggiatori. I baresi dimostrarono di non capire e di non condividere il pugno duro del governo. Delfino chiedeva solo di gestire la situazione come operazione di protezione civile e non di polizia. Ed è un tema che ci accompagna da trent’anni, come quello del dibattito tra governo centrale e confini/periferie, dove alla speculazione politica si contrappone chi vive i territori. È innegabile che nessuno fosse preparato. Prima della nave Vlora nell’agenda politica non esistevano i flussi migratori. La stessa Albania era un buco nero, anche per me che sono figlio di militare in Albania che dopo il ’43 si unì ai partigiani a Scutari. Conoscevamo solo la musica delle onde corte di Radio Tirana, che si intercettavano a Bari. È stato un impatto enorme e c’era la curiosità, reciproca. Invece lo Stato era pressato anche dall’idea che arrivavano da Est, che erano comunisti. Ricordo ancora il titolo della Gazzetta del Mezzogiorno del giorno dopo: ‘Invasione!? Oggi le cose sono cambiate, il dibattito è più complesso, ma quel senso errato di invasione, di masse senza nome, ce lo portiamo ancora dietro.”
In molti, ancora oggi, collegano la retorica dell’invasione di questi trent’anni a quelle immagini: migliaia di persone, sfinite, senza volto, senza nome. Colpa forse anche dei media. Uno dei giornalisti che era sul molo, all’arrivo della nave Vlora, era Tany Tiberino, all’epoca collaboratore dell’Agenzia Italia – AGI. “Non si può capire l’intensità di quelle giornate e le difficoltà del nostro lavoro. Basta pensare che non c’era internet, non c’erano i cellulari o le foto digitali. Tutto è andato in modo folle. Tre giorni prima dell’arrivo della Vlora, con la mia agenzia abbiamo dato la notizia: sta arrivando una nave enorme e, pur non sapendo quante persone ci fossero a bordo, avevamo la percezione di un evento epocale. E pensare che la dritta ci era arrivata da una fonte controversa: i contrabbandieri baresi – racconta il cronista – Quello che era enorme era la natura della nave, un mercantile e non le robe di fortuna che eravamo abituati a vedere negli sbarchi precedenti, nel brindisino e nel Salento, a febbraio e marzo 1991, e quindi il numero di persone. Dopo due giorni nel canale d’Otranto, saggiamente, a Roma si decise che Brindisi non riusciva a gestire una roba del genere e venne dirottata a Bari. Ma tutti, compresa la stampa nazionale, all’inizio sottovalutò la notizia, come le istituzioni. Ricordo una Bari svuotata dalle ferie. Ad aspettare oltre 20mila persone, sul molo, c’erano solo 200 agenti delle forze dell’ordine, impauriti e senza ordini chiari, che non sapevano cosa aspettarsi, perché nessuno sapeva se a bordo ci fossero persone armate o violente.
Tenerli su quel molo era una bomba a orologeria: ancora oggi mi sembra un miracolo che non ci siano state vittime, se si esclude la persona morta nella stiva a causa di una caduta, almeno così si disse all’epoca. La tensione era alle stelle, a un poliziotto partì un lacrimogeno, controvento, e le persone tentarono di forzare il blocco per fuggire, e ricordo le botte che sono documentate. In fondo, ancora oggi, penso che lo stadio fu l’unica soluzione possibile – racconta Tiberino – anche se non era stato preparato nulla e nello stadio c’erano addirittura il custode e la sua famiglia – che poi ebbero la casa devastata – ancora dentro, c’era un’armeria militare, c’erano gli archivi del Comune, le caravelle del corteo di San Nicola. Quello che non era sano era tenere quelle persone distrutte dal viaggio, che erano partite come capitava, per tre giorni nello stadio. Ricordo che quelli che parlavano italiano mi chiedevano disperati: “Perché ci chiudete dentro?”. Arrivò il capo della polizia in persona, Vincenzo Parisi. Ancora oggi, senza alcuna conferma, gira voce che diedero 50mila lire a tutti, ma non è mai stato confermato. Quello che è certo però, dopo i tumulti all’interno dello stadio, venne individuata una delegazione per trattare con la polizia che li ingannò, promettendo di portali in diverse città italiane. Invece vennero quasi tutti rimpatriati”.
Dallo stadio inizia la spola verso l’aeroporto di Bari: 11 aerei militari e tre mezzi di Alitalia, mentre dal porto le motonavi Tiepolo, Palladio e Tiziano rimpatriano 17400 persone in pochi giorni. Si stima che rimasero in Italia 1.500 persone, che avevano fatto domanda di asilo politico, e quelli che erano riusciti a fuggire. “Il rimpatrio non fu sereno”, ricorda Tiberino. “Appena le persone capivano che li stavano portando indietro tentavano di ribellarsi, ma non c’era niente da fare. Di quei giorni mi restano tanti ricordi, ma due in particolare non li perderò mai. Le lacrime di don Tonino Bello di fronte a quell’umanità lacera, i tanti bambini piccoli, come scugnizzi del nostro dopo guerra e un signore che mi disse che non sapeva perché era salito a bordo. Aveva visto tutti correre verso la nave e gli era andato dietro. Fu tra i primi a essere rimpatriato”.
Ma non c’è stata solo polizia a Bari in quell’agosto 1991. Ancora Vito Leccese ricorda: “Mentre la gente era nello stadio, circondato dalla polizia, non potrò mai dimenticare le signore anziane del Villaggio Trieste, che sorgeva vicino allo stadio. Erano del gruppo degli esuli dall’Istria e dalla Dalmazia, arrivati a Bari dopo la Seconda Guerra mondiale. Come in un cerchio della storia che si chiudeva, portavano acqua e pane a quei poveretti nello stadio. Nessuno le organizzava, erano semplicemente scese da casa per aiutare”.
I trasporti, dal porto allo stadio e poi all’aeroporto, vennero affidati all’AMTAB, la municipalizzata del trasporto pubblico. Ottavio Calamita, ex funzionario AMTAB e sindacalista della Cgil, ricorda così quei giorni.
“Bari è cambiata e, dal punto di vista della solidarietà, per me, non in meglio. Io quella Bari, quella dell’agosto del 1991, così umana e pronta ad aiutare, non l’ho più vista. Ero in vacanza con la mia famiglia, in Calabria. Appena ho saputo, son partito, in macchina, da solo. Arrivato la sera a Bari, mi sono messo a disposizione dell’azienda – ricorda Calamita – Le scene erano incredibili, sentivo un dolore immenso di fronte a alla sofferenza terribile di quelle persone in quelle condizioni. Le ferie non contavano più. Il Comune ci ha detto che aveva bisogno di aiuto, di mettersi a disposizione della Prefettura. Non esistevano procedure, si è improvvisato, facendo leva sui sentimenti. Ricordo persone che portavano vestiti, cibo, acqua. C’era da rendersi utili. Uno slancio che non ho mai più visto. I sindacati si sono messi la mano sul cuore, stoppando le ferie a tutti gli autisti e molti si misero a disposizione. Pensate al trasporto di decine di migliaia di persone con i nostri mezzi del servizio pubblico quotidiano, che possono portare poche persone per volta. Dodici mezzi, con autisti sfiniti, che lavorarono giorno e notte. Ricordo chi dava una mano, ma in particolare ricordo un collega, autista, Saverio. Mi raccontò di un signore, magro, piccolo, con gli occhialini. Piangeva, era ingegnere in Albania. Mi raccontò che lo implorava, che non voleva essere rimandato indietro. E Saverio l’ha nascosto tra le sue gambe, in mezzo ai pedali della postazione di guida, l’unica che non si vedeva bene dall’esterno. Sfuggito ai controlli dei poliziotti che vigilavano sulla discesa di tutte le persone, Saverio fermò il mezzo lungo la strada del ritorno e augurò buona fortuna a quell’uomo che fuggì. Chissà dove è oggi, ma questa storia non la dimentico. Tornai in Calabria a prendere la mia famiglia, perché volevo che le mie figlie, per quanto piccole, vedessero e imparassero una lezione di vita.”
Bari si appresta a celebrare la ricorrenza. Un messa nella basilica di San Nicola, una serie di iniziative culturali congiunte organizzate dal Comune di Bari con i Comuni di Durazzo e Tirana, con il sostegno di Regione Puglia, il Consolato generale albanese in Italia e l’Ambasciata italiana a Tirana.
“L’approdo della Nave Vlora, all’indomani della caduta del muro di Berlino, aprì una breccia nelle nostre coscienze e dell’Italia intera – ha commentato il sindaco di Bari, Antonio Decaro – Il carico di persone che lasciò l’Albania sfidò non solo il mare ma un’idea di confine, amministrativo, economico e culturale, che fino ad allora ci era sembrato invalicabile. La Vlora cambiò per sempre la storia di Bari aprendola al mondo, e dell’Europa intera, rappresentando il primo esodo migratorio di massa nel Mediterraneo. Da quella storia però è nata una grande amicizia tra due popoli”.