Ogni sera, quando stacca dal lavoro in cantiere, Emanuel indossa una pettorina gialla catarifrangente e si dirige verso Siret, sul confine tra Ucraina e Romania. Aspetta con calma che arrivino le persone, poi quando il pullman si riempie, fa la spola tra la frontiera e Dumbraveni di Suceava, la sua città, dove il sindaco ha attrezzato un palazzetto dello sport per l’accoglienza dei rifugiati. “Da quando è scoppiata la guerra sono venuto qui al confine con la mia macchina. Volevo fare qualcosa. A casa ho un bambino di quattro anni e non potevo restare a guardare quello che succedeva solo davanti alla tv” spiega. Le prime sere, a fine febbraio, le temperature arrivavano sotto lo zero: “Parlando con altri ragazzi ci siamo chiesti cosa poteva essere davvero utile per le centinaia di persone che incontravamo ogni sera. E siccome la notte nelle tende faceva troppo freddo, abbiamo pensato di trovare un posto dove farle stare. Il Comune ci ha messo a disposizione una struttura con 300 posti e così abbiamo cominciato a trasportare i profughi lì”.
Dall’inizio dell’offensiva russa in Ucraina (il 24 febbraio scorso) al 20 aprile sono oltre cinque milioni i profughi in fuga dal paese. Con più di 710 mila presenze la Romania è il secondo paese di accoglienza in Europa, dopo la Polonia (che ne ospita 2,8 milioni). Mai prima d’ora il governo di Bucarest aveva dovuto far fronte un flusso così ingente di rifugiati. Per la maggior parte si tratta di donne con bambini, ma ci sono anche molti anziani e disabili. Quasi tutti transitano nel paese con l’intento di raggiungere amici e familiari in altri stati europei: si fermano uno o due giorni e poi proseguono il viaggio. Altri restano più a lungo nei centri sparsi sul territorio per non allontanarsi troppo dal confine, con l’idea di tornare in patria il prima possibile. Se non nella propria città almeno nelle zone limitrofe alla Romania risparmiate dai bombardamenti.
Per tutti la primissima accoglienza inizia già a ridosso della frontiera: un the caldo, un po’ di chorba, una bottiglia d’acqua. I tanti volontari presenti sul confine si dividono all’interno dei tendoni dove c’è di tutto: biscotti, bevande, pannolini per bambini, medicinali. “Ci sono persone che arrivano anche con gravi problemi medici – spiega Grigore, operatore della Croce Rossa -. Ho visto persone con patologie varie, che necessitavano di andare all’ospedale per fare la dialisi o per altri problemi, persino per un trapianto. Anche i bambini sono tanti e spesso presentano patologie, sono quasi tutti raffreddati e vanno curati perché non peggiorino col freddo”. Mentre parliamo l’operatore continua a sistemare le medicine nella tenda. Ogni tanto arriva qualcuno che chiede un po’ d’acqua, del cibo o delle indicazioni per sapere dove poter dormire la notte. Una tenda è riservata agli animali domestici, che in tanti hanno deciso di portare con sé scappando dalla guerra. C’è di tutto, dai croccantini allo spray alle medicine veterinarie.
Lungo la strada che porta verso il confine sono sistemate le tensostrutture per i profughi: quelle arancioni sono riservate alle donne con bambini, quelle blu hanno affissa all’esterno un’etichetta col nome del paese di destinazione, dentro si può attendere che arrivi qualcuno ad offrire un passaggio. “All’inizio qui veniva chiunque, anche qualche malintenzionato che voleva approfittare della situazione” spiega ancora Emmanuel. “Noi che siamo del posto ci siamo coalizzati e abbiamo mandato via i trafficanti. È stato anche deciso di registrare qualsiasi passaggio: chi viene qui in auto o pullman per offrire un passaggio deve lasciare i suoi riferimenti, così che non si perdano le tracce. Ai profughi diciamo di stare attenti e di non fidarsi di chiunque, soprattutto di dare notizie ai parenti dei loro spostamenti e di chiamare la polizia se si sentono in pericolo”.
Quando il bus è pieno si parte. Emmanuel con la sua divisa gialla si mette alla guida. Racconta in un italiano perfetto del suo passato a Villalba di Guidonia, una cittadina vicino Roma. Dopo anni di lavoro come muratore ha deciso di tornare in Romania: “All’Italia devo tanto, ma arriva sempre il momento in cui si deve tornare a casa – dice – capisco queste persone costrette a lasciare tutto, io mi sono mosso per lavorare, loro sono costrette per la guerra. Ma non è mai facile lasciare il proprio paese”. La distanza dal confine al palazzetto dello sport è di circa quindici chilometri. All’arrivo i volontari aiutano le persone a scendere dal pullman, in particolare gli anziani con problemi di mobilità. Poi si fa la registrazione: nome, cognome, documento, città di destinazione. Nel perimetro di quello che fino a due mesi fa era un campo da basket sono allineati i materassi, stesi a terra vicino ai bagagli, i giocattoli dei bambini, i vestiti. Fuori, nel campetto da calcio, alcuni bambini tirano calci a un pallone. Una donna si avvicina chiedendo informazioni per la sua amica: ha un tumore, ha interrotto le chemioterapie per fuggire dal suo paese ma ora necessita di cure. i volontari prendono nota, le dicono che le faranno sapere a breve come fare per avere un’adeguata assistenza medica.
“Quando abbiamo visto queste persone arrivare ai nostri confini ci siamo subito organizzati. Avevano bisogno innanzitutto di un pasto caldo e di un posto dove dormire riparati – racconta il sindaco della città Ioan Paval -. Così non ho chiesto nulla a nessuno, mi sono organizzato da solo, facendo affidamento sui miei cittadini. Ho creato un semplice gruppo Whatsapp, ho chiesto aiuto e scritto la lista di quello di cui avevamo bisogno. Il resto è venuto da solo: si sono mobilitati tutti subito, è stato davvero straordinario”.
Nelle ultime settimane gli arrivi dall’Ucraina sono diminuiti, si registrano anche flussi inversi, di ritorno, soprattutto verso le città del paese non coinvolte dal conflitto. Ma in questi mesi l’accoglienza è stata davvero “straordinaria” in Romania: privati cittadini, piccoli comuni, alberghi, scuole, palestre: tutti si sono attivati dal basso per aiutare i migranti forzati. I centri, anche quelli governativi, sono stati attrezzati in tempi record, non solo per l’accoglienza ma anche come hub di transito. Un’esperienza che potrebbe essere presa a modello anche per la gestione delle crisi migratorie in altri paesi di primo approdo. Come spiega Alexander, uno dei funzionari dell’ufficio immigrazione, incontrato nello stadio di Siret, trasformato in centro per la primissima accoglienza al confine, ad aiutare nella gestione è stata una linea politica del tutto nuova nei confronti dei profughi. Anche prima dell’attivazione della direttiva 55/2001 che ha dato il via libera all’accoglienza immediata e temporanea per gli ucraini, le persone sono state libere di muoversi, come mai successo prima, anche in forza di un’esenzione dall’obbligo di visto attiva dal 2014. “Così come negli altri paesi di primo ingresso offriamo alle persone la possibilità di chiedere asilo, per chi vuole accedere alla protezione facciamo il fotosegnalamento e poi si segue la procedura, dopo 15 giorni c’è la prima intervista poi nel giro di 30 giorni la decisione. Ma la maggior parte degli ucraini, il 90 per cento, vuole andare via, in Germania, Francia, Italia – spiega il funzionario-. Non è obbligatorio restare, possono scegliere. Se hanno il passaporto biometrico possono stare 90 giorni in Romania o in altri paesi dell’Ue legalmente, senza chiedere asilo. In ogni caso i confini per loro sono aperti, sono libere di spostarsi. Nei fatti, per loro non valgono i paletti del Regolamento di Dublino”. Quanto questo inciderà nel futuro delle politiche europee sull’immigrazione è ancora difficile da immaginare. Il doppio standard di protezione e accoglienza che ad oggi si verifica nei confronti dei richiedenti asilo provenienti da altri contesti è una triste realtà ancora evidente sulla rotta balcanica, a Lesbo, al confine tra Polonia e Bielorussia. Di certo, quanto accaduto in questi mesi, in Romania e non solo, è stato un laboratorio di pratiche replicabili e una dimostrazione di quello che da tempo molti esperti di migrazioni sostengono: una politica basata su vie di ingresso regolari, liberalizzazione dei visti e accoglienza diffusa permette di evitare il verificarsi di crisi migratorie ai confini dell’Unione. Più spesso create da scelte sbagliate che dal movimento delle persone costrette alla fuga.
In copertina: Siret, frontiera Romania Ucraina, bus in attesa della partenza. Foto di Daniele Napolitano.