I fotogrammi del video del pestaggio di Ventimiglia ci mostrano un ragazzo di 23 anni preso a sprangate con una violenza inaudita. Si sente una voce di una donna che ripete “Lo ammazza, lo ammazza”. Musa Balde non ha però perso la vita per l’aggressione xenofoba subita, ma mentre era affidato allo stato italiano. A 23 anni, mentre era in isolamento al Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) Brunelleschi di Torino dove si è suicidato impiccandosi con un lenzuolo. Rinchiuso perchè irregolare sul territorio nazionale.
Viene da domandarsi perché una persona che ha subito un reato violento debba meritarsi di finire in un centro di detenzione per stranieri. Viene da domandarsi se la prognosi e le condizioni fisiche e psichiche del ragazzo consentissero la detenzione. Al momento dell’ingresso in un CPR è infatti imposta dalla legge una verifica della compatibilità con la vita detentiva. Una verifica che dovrebbe fare un medico dell’ASL ma che spesso viene espletata dal medico dell’ente gestore del centro. Perché, tra le tante contraddizioni dei CPR, c’è anche questa: la sanità, come tutto il resto, è affidato a soggetti privati.
La privatizzazione della detenzione. Quella detenzione che viene comminata non per la commissione di un reato ma per una mera irregolarità amministrativa. Quella detenzione che a mente della nostra Costituzione deve essere disposta o comunque oggetto di una convalida di un giudice e che, per gli stranieri irregolari, è affidata ad un giudice non togato: il Giudice di Pace civile. Come se limitare la libertà personale di uno straniero fosse qualcosa da trattare con meno garanzie. Il codice di procedura civile (articolo 7) prevede che il Giudice di pace civile ha competenza “per le cause relative a beni mobili di valore non superiore a cinquemila euro, quando dalla legge non sono attribuite alla competenza di altro giudice” e per altre specifiche materie (multe et similia) tra cui anche la convalida della limitazione della libertà personale degli stranieri irregolari. Materia di serie b.
Open Migration ha pubblicato la scorsa settimana una sintesi del rapporto del Garante sui CPR. Vengono i brividi a rileggere ora, dopo la morte di Musa Balde, il passaggio sul decesso di altri due giovanissimi migranti lo scorso anno: “A.E. a Caltanissetta, ed E.V., a Gradisca d’Isonzo. In entrambi i casi i giovani erano stati colti da malori e avevano richiesto l’intervento di un sanitario. Le cure prestate all’interno dei centri non sono state sufficienti ed entrambi sono morti. Il Garante osserva saggiamente che, al di là degli esiti dei procedimenti penali relativi ai singoli casi, ciò che manca è un raccordo con il Sistema Sanitario nazionale e, all’interno degli istituti, l’assenza di locali di osservazione sanitaria adeguati, per evitare di continuare a trattenere nei settori detentivi, privi dell’assidua supervisione e assistenza sanitaria, persone che chiedono o necessitano di un intervento medico immediato.”
Vengono i brividi perché la morte del 23enne sa di marcio, era prevedibile ed annunciata e dunque doveva essere evitata. Rinchiudere un ragazzo giovanissimo dopo un pestaggio, collocarlo in isolamento senza adottare la sorveglianza sanitaria, vuol dire, se non aver contribuito, quantomeno non aver fatto nulla per evitare il verificarsi dell’evento.
Sarà la giustizia a chiarire le singole responsabilità del caso specifico ma è evidente che la detenzione amministrativa non ha, in astratto e in concreto, le caratteristiche minime per poter garantire l’incolumità degli “ospiti”, come li definisce la legge.
In carcere l’assistenza sanitaria è prestata dal Sistema sanitario nazionale e a chi è a rischio suicidario è imposta la grandissima sorveglianza, ossia, la persona è osservata a vista e continuamente sottoposta ad accertamenti medici, assistenza psicologica etc.
Perché è in isolamento che si verificano la maggior parte dei suicidi.
Tutte le garanzie (non solo in ambito sanitario) proprie dell’ordinamento penitenziario sono del tutto assenti nei CPR.
In questi centri si dovrebbe finire solo ed esclusivamente se non ci sono alternative. In realtà, nel caso di Musa, probabilmente non doveva proprio esserci l’espulsione – che è il presupposto della detenzione in CPR – proprio perché vittima di un reato violento e meritevole di avere un titolo di soggiorno. O, almeno, non doveva essere disposto il trattenimento perché le sue condizioni non consentivano di rinchiuderlo in questo luogo. Ma se non c’è chi controlla effettivamente, da un punto di vista medico e legale, la compatibilità con la vita detentiva, la morte annunciata di Musa si potrà ripetere all’infinito. Fin quando non si avrà il coraggio di rimettere in discussione la detenzione amministrativa. Per la sua inefficacia (meno del 50% delle persone trattenute negli ultimi 20anni è stata effettivamente rimpatriata) e, soprattutto, per i suoi costi in termini di non rispetto della dignità (e della vita) umana. Meglio investire sulle alternative alla irregolarità e alla detenzione, come da tempo ribadiamo come Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili. Questo significa puntare sul coinvolgimento dello straniero piuttosto che sull’imposizione dall’alto di regole e misure poco comprensibili quali il trattenimento nei CPR, con l’obiettivo di sviluppare sistemi di gestione dell’immigrazione efficaci che allo stesso tempo rispettino i diritti dei migranti. L’idea alla base dell’alternativa è quella di non detenere di default in attesa di un risultato – il rimpatrio – che probabilmente non arriverà mai, ma esplorare insieme allo straniero tutte le opzioni a sua disposizione al fine di assicurare che faccia una scelta consapevole e sostenibile. Perché il rimpatrio forzato non è l’unica opzione. Spesso le persone che finiscono nei Cpr sono persone vulnerabili che rischierebbero serie violazioni dei diritti umani se venissero rimpatriate. In altri casi ciò che ha portato le persone all’irregolarità è un insieme di complicazioni burocratiche, cambiamenti legislativi e barriere linguistiche, che però non implica che lo straniero in questione non abbia diritto a ottenere un permesso di soggiorno per rimanere regolarmente sul territorio italiano. Infine, lo straniero che non ha la possibilità di rimanere in Italia può decidere di tornare volontariamente nel proprio Paese, ricevendo supporto affinché quella del rimpatrio volontario sia una scelta sostenibile nel lungo periodo.
A differenza della detenzione e delle altre misure coercitive, le alternative basate sulla cooperazione con i migranti coinvolti favoriscono una gestione della migrazione umana, efficace e conveniente, nonché risultati più sostenibili e convenienti per l’intera collettività: stranieri, comunità ospitanti e governi.
Non prendere in considerazione questa alternativa possibile farà sì che ciò che il Garante scrive nella premessa del rapporto sui CPR, cioè che quando il migrante entra in questi non luoghi smette “di essere persona con una propria totalità umana da preservare nella sua intrinseca dignità, dimensione sociale, culturale relazionale e religiosa per essere ridotta esclusivamente a corpo da trattenere e confinare” continuerà a verificarsi.