La situazione di stallo “no peace no war” di un confine instabile e conteso come quello del Nagorno Karabakh si è interrotta ancora una volta lo scorso 27 settembre, quando sono ripresi gli scontri fra l’esercito azero e le forze armene dell’Artsakh, sfociati in operazioni di guerra, dirette anche contro la popolazione civile nella capitale Stephanakert e nei villaggi di quella che per gli azeri è una regione del proprio territorio, per gli armeni del Karabakh una repubblica indipendente dal 1991. Dopo due settimane di combattimenti, Azerbaijan e Armenia hanno raggiunto un cessate il fuoco umanitario, mediato dal Comitato internazionale della Croce Rossa, per lo scambio dei prigionieri e il recupero dei corpi delle vittime, a seguito di due giorni di colloqui a Mosca; uno stop alle operazioni militari fin troppo fragile e già rapidamente violato.
Una lunga storia
La questione del Nagorno Karabakh è una delle eredità sospese dell’ex Unione Sovietica: collocata per volere di Stalin all’interno della Repubblica d’Azerbaijan nel 1921, con l’avvio del processo di disgregazione dell’Urss negli anni Ottanta e la crescita delle spinte nazionaliste in tutta l’area, la regione comincia a mobilitarsi per l’unificazione con l’Armenia, lamentando il tentativo del governo della Repubblica socialista sovietica azera di estirpare ogni traccia della cultura armena, anche attraverso l’immissione forzata di cittadini azeri sul territorio. È il 1988 e l’allora soviet del Karabakh vota una mozione per chiedere la secessione, ma le proteste che ne seguiranno, in Armenia come in Azerbaijan, sfoceranno in una serie di massacri con espulsioni di massa di entrambe le minoranze dall’uno e dall’altro paese.
Tra il mese di febbraio del 1988 e il mese di maggio del 1994, il Nagorno Karabakh resta al centro di una contesa che sfocerà in guerra e costerà la vita a oltre 30 mila persone, oltre a ridurre l’intera regione ad un grave stato di isolamento e povertà. Nel 1991 il soviet dell’Azerbaijan vota l’indipendenza da Mosca, e tre giorni dopo il Karabakh promuove la secessione e proclama la repubblica indipendente, richiamandosi alla legge del 3 aprile1990, approvata dal Congresso dei deputati del popolo dell’Urss sulle norme di distacco delle repubbliche dell’Unione. L’articolo 3 della legge disciplina in particolare i casi in cui una repubblica ex sovietica abbia al suo interno delle regioni autonome, alle quali è concessa la facoltà di valutare se seguire la nazione secessionista o scegliere un’altra strada.
Nessuno stato del mondo riconosce la Repubblica del Karabakh, nemmeno la stessa Armenia che pure si adopera per sostenerla durante il conflitto e dopo il cessate il fuoco del 1994, che non ha portato la pace, ma solo il “congelamento” dello status quo, con una linea di contatto militarizzata di circa 250 km, dove decine e decine di soldati, per la maggior parte giovanissimi, hanno continuato a perdere la vita su entrambi i fronti al ricorrente riaccendersi delle ostilità, come nella guerra dei quattro giorni del 2016, negli scontri avvenuti fra il 12 e il 14 luglio scorso, e come sta accadendo, in modo ancora più violento e tragico, in queste settimane.
Sfollati e profughi negli anni Novanta
Secondo i dati raccolti nel primo rapporto di Human Rights Watch post conflitto, nel 1994, durante la guerra ci sono state ripetute violazioni sulla popolazione da entrambe le parti. I trasferimenti forzati di civili sono all’ordine del giorno in quegli anni: si stima che almeno 350 mila armeni abbiano lasciato l’Azerbaijan a causa dei pogrom scatenati contro di loro fra il 1988 e il 1990. Gran parte dell’esodo armeno avviene dunque quando l’Azerbaijan conquista l’indipendenza riconosciuta dalla comunità internazionale.
Dal 1988 al 1994, fra i 750 e gli 800 mila azeri abbandonano il Karabakh e l’Armenia, oltre alle altre sette province azere poi occupate dagli armeni. Le più grandi ondate di sfollati interni avvengono nel 1992, quando 40 mila azeri residenti nel Karabakh vengono forzati a lasciare le loro case, e del 1993, con l’occupazione delle province di Lachin, Kelbajar, Agdam, Fizuli, Jebrayil, Qubatku e Zangelan da parte delle truppe armene del Karabakh, supportate dall’esercito armeno, che provoca l’allontanamento di circa 450 mila azeri solo in quell’anno.
La presa in carico degli sfollati azeri si traduce, secondo Hrw, in un fallimento per il governo azero: la Commissione che avrebbe dovuto gestire la crisi umanitaria è completamente sopraffatta dal numero di persone che soprattutto nel 1993 si ritrovano senza casa e in condizioni di necessità fuori dal proprio territorio. Inizialmente i primi sfollati ricevono ospitalità nelle case dei parenti, nelle scuole, negli hotel messi a disposizione da altri civili, ma dopo il 1993 saranno gli iraniani, i turchi e i sauditi a finanziare la realizzazione di tendopoli in diverse città come Imishli, Saatli e Barda. Nel 1994 le Nazioni Unite dichiarano che Armenia e Azerbaijan sono fra le ex repubbliche sovietiche in condizioni di maggiore bisogno.
Nuove vittime
Sono passati 26 anni da quel cessate il fuoco, e il conflitto al quale stiamo assistendo oggi rappresenta un’altra tragedia umanitaria, prima che una partita internazionale per gli equilibri nel Caucaso. Secondo quanto riferito dal garante per i diritti umani del Karabakh Artak Beglaryan, circa la metà della popolazione, fra le 70 e i 75 mila persone su un totale di poco meno di 150 mila, è stata evacuata, e per il 90% si tratta di donne e bambini. Chi è rimasto è costretto a riparare negli scantinati non appena una sirena precede l’ennesimo attacco. Gli esperti di Crisis response di Amnesty international hanno identificato nell’uso di bombe a grappolo di fabbricazione israeliana l’ennesima violazione del diritto internazionale umanitario. Secondo gli analisti si tratterebbe di ordigni sparati dalle forze azere nell’area urbana di Stepanakert.
Da entrambi i fronti si parla di decine di vittime civili, di centinaia di case distrutte e di quasi 200 soldati morti solo tra le forze armene del Karabakh (dati del 3 ottobre), mentre fino ad oggi non sono stati diffusi numeri ufficiali sulle vittime militari azere.
Negoziati e giochi di potere
Dal 1988 la questione del Karabakh è stata uno dei fattori chiave della politica interna in Armenia come in Azerbaijan, anche per la capacità di catalizzare l’attenzione delle rispettive popolazioni. Nel luglio scorso, a seguito degli scontri di Tavush che avevano causato diverse vittime fra le quali un generale azero, si è svolta a Baku una manifestazione a favore della ripresa delle ostilità contro Yerevan, e nei giorni successivi si sono verificati nuovi disordini anche fra armeni e azeri della diaspora, negli Usa come in Russia. In meno di una settimana si sono spente definitivamente le deboli speranze alimentate da una tregua di fatto che stava reggendo dal 2018, dopo l’incontro informale fra il nuovo primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev che avevano espresso la volontà di creare una linea di contatto.
L’apporto alla pace della comunità internazionale non si è mai rivelato decisivo: i negoziati fra armeni e azeri (senza la partecipazione del governo di Stepanakert, rifiutato dall’Azerbaijan che insiste sul conflitto fra stati) sono organizzati sin dal 1992 con il sostegno del gruppo di Minsk dell’Osce, che ha impostato l’azione mediatrice sui cosiddetti principi di Madrid, dove furono concordati nel 2007, e che prevedono un processo di normalizzazione a tappe, a partire dal ritiro armeno dalle province azere occupate al di fuori dell’Alto Karabakh, fatta eccezione per il corridoio di Lachin che garantisce l’unico collegamento via terra con l’Armenia alla piccola repubblica autoproclamata. L’assenza di progressi reali ha gradualmente svuotato di senso questo piano, mentre il conflitto è finito nelle retrovie delle priorità internazionali. Eppure questo territorio grande meno di 5 mila km quadrati convoglia non solo gli interessi di Russia e Turchia, storiche alleate rispettivamente dell’Armenia e dell’Azerbaijan (pur registrando l’ambivalenza di Mosca sul fronte del rifornimento armi ad entrambi i contendenti), ma è al centro di una serie di crisi irrisolte, dal Caucaso del Nord al Medio Oriente, in grado di internazionalizzare il conflitto, come già accaduto altrove, e come sta accadendo con l’invio, da parte della Turchia, di combattenti provenienti dalla Siria al fianco delle truppe azere. Secondo quanto rivelato dall’Osservatorio siriano per i diritti umani sarebbero 107 le vittime accertate fra questi miliziani mercenari, un tempo parte della coalizione del Free Syrian Army ed oggi in Nagorno Karabakh, dopo il Kurdistan e la Libia.
Foto di copertina via Ilaria Romano