Le candele illuminano la distesa di sabbia che separa la terraferma dal mare, lo stesso mare che un anno fa restituì alla spiaggia di Steccato di Cutro 94 corpi senza vita. Poco distante la secca in cui il caicco Summer Love si arenò nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023. Gli sguardi di chi a quel naufragio è sopravvissuto s’incrociano con quelli dei familiari delle vittime e dei pescatori che estrassero dall’acqua i primi corpi. A distanza di un anno sono di nuovo tutti qui sulla spiaggia. Tutti insieme raccolti in preghiera. Tutti tranne chi, invece, questa notte la trascorre in prigione. Gun Ufuk, ventinove anni, è nel carcere di Catanzaro.
“Nessuna attenuante possibile per Gun Ufuk, il 29enne turco condannato a 20 anni di reclusione come scafista della Summer Love, il caicco naufragato a Steccato di Cutro il 26 febbraio 2023”, scrive la giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Crotone, Elisa Marchetto, nelle motivazioni della sentenza di condanna, emessa al termine del processo con rito abbreviato. Nella stessa udienza è stata aumentata la multa a carico di Ufuk, che passa così da 2,1 milioni (cifra precedentemente sollecitata dalla pubblica accusa) a 3 milioni di euro. Ufuk dovrà inoltre risarcire i parenti delle vittime ma anche il Ministero dell’Interno, la Presidenza del Consiglio e la Regione Calabria, costituitisi parte civile lo scorso 28 novembre.
Insieme a Gun Ufuk altri tre uomini sono stati accusati di scafismo in seguito al naufragio di Cutro, per loro è ancora in corso il processo. Si tratta di Fuat Sami di 51 anni, di nazionalità turca, Arslan Khalid e Hassnan Ishaq, entrambi di origine pakistana e rispettivamente di 26 e 19 anni. Per loro le accuse sono di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, naufragio colposo e morte come conseguenza di altro delitto. Un quinto nome è stato aggiunto lo scorso dicembre, è quello di Mohammed Abdessalem, 26enne di origine siriana, detenuto attualmente nel carcere di Lecce.
Subito dopo il naufragio Ufuk era fuggito in Austria dove era stato rintracciato ed arrestato pochi giorni dopo. In seguito all’estradizione in Italia, è stato processato e condannato il 7 febbraio 2024. Tre i capi d’imputazione: favoreggiamento dell’immigrazione, naufragio colposo e morte in seguito al reato di favoreggiamento. Secondo l’avvocato di Ufuk, Salvatore Falcone, l’accusa di favoreggiamento sarebbe insussistente. “Le persone sul caicco – ha spiegato il legale durante il processo – avevano tutte diritto alla protezione. Su un barcone fatiscente ci sono finite perché non avevano mezzi alternativi per fuggire da paesi in cui rischiavano la vita”. Anche per quanto riguarda il reato di naufragio, per l’avvocato Falcone, non ci sarebbe alcun elemento a carico del suo assistito. “Tutti i testimoni concordano nel dire che Ufuk non ha mai guidato la barca”, ha dichiarato.
Durante l’interrogatorio, Ufuk ha affermato di non essere mai stato al timone della Summer Love, e di aver pagato il viaggio accettando di fare il meccanico a bordo. Il ventinovenne ha dichiarato di essere un perseguitato politico nel suo paese, in quanto accusato di avere contatti con il movimento dei gulenisti che organizzò nel 2016 il tentativo di colpo di stato contro il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Motivo per cui, secondo i suoi racconti, nel 2019 era stato in carcere per otto mesi. “La barca – ha detto Ufuk durante il processo – la conduceva il mio amico Gulem Byram, che aveva già fatto altri viaggi. Io stavo vicino a lui ma non ho mai guidato”.
Per il suo avvocato Ufuk non è altro che “un capro espiatorio di chi doveva intervenire per impedire il naufragio”, e la costituzione di parte civile da parte del Governo è, quindi, “fuori luogo”. “Ritengo – ha aggiunto il legale in tribunale – che la morte di quelle persone non sia avvenuta a causa di una manovra sbagliata o del naufragio perché, se in quel momento ci fosse stata una qualsiasi unità di soccorso, non ci sarebbero stati tutti questi morti”.
Un buco temporale separa, infatti, le morti di quella notte dall’arrivo dei soccorsi. Frontex, Guardia di Finanza e Guardia Costiera sono i protagonisti di un lungo rimpallo di responsabilità, che ha portato all’iscrizione di sei ufficiali e sottufficiali della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera sul registro degli indagati, nell’ambito dell’inchiesta parallela sul naufragio. Le foto della barca in difficoltà, secondo il direttore di Frontex, Hans Leijtens, sarebbero state inviate alle autorità italiane insieme alla segnalazioni intorno alle 23:03 della sera del 25 febbraio 2023, ben cinque ore prima dell’impatto con la secca avvenuto tra le 4.05 e le 4.35 del 26. La decisione su come intervenire, se chiamare la Guardia di Finanza o istituire un’operazione SAR, era di competenza delle autorità italiane. Al momento della segnalazione, da parte dell’aereo di ricognizione Eagle 1 di Frontex, al quartier generale di Varsavia dell’agenzia europea erano presenti anche due rappresentanti italiani. Erano incaricati di collegarsi rispettivamente con il Centro di coordinamento internazionale di Roma e con il Centro italiano di coordinamento del soccorso marittimo. Nessuno dei due rappresentanti ha comunicato al team leader della sala di monitoraggio europea che il caso richiedeva un’attenzione particolare. Da una telefonata registrata dal server della capitaneria del porto di Reggio Calabria emerge, inoltre, che per le autorità italiane “non era sicuro che sulla barca segnalata da Frontex ci fossero stipati dei migranti”. Eppure Giorgia Meloni, all’indomani del naufragio, aveva dichiarato che l’Italia non aveva ricevuto nessuna comunicazione d’emergenza da parte di Frontex.
Tra le 3.25 e le 3.40 tornano in porto due mezzi della Guardia di Finanza di Taranto e Crotone usciti per un controllo, perché – dicono – le condizioni del mare non rendevano possibile la navigazione. I militari appena rientrati scrivono che “è stato attivato il meccanismo di ricerca, lungo le direttrici di probabile sbarco, coinvolgendo anche le altre forze di polizia nelle ricerche lungo la costa”. Ma sulla spiaggia di Steccato di Cutro fino alle cinque del mattino ci saranno solo i pescatori. I primi avvistano il caicco alle quattro. Tra loro Ivan Paone, che durante l’udienza dello scorso 14 febbraio ha dichiarato: “Ho riferito che c’era una barca in difficoltà a causa del mare mosso, dalla quale provenivano grida. La Guardia costiera mi ha risposto che ne erano al corrente. Però sulla spiaggia, nel momento del naufragio, c’eravamo soltanto noi”. La prima ricerca a terra la fa un’automobile dei carabinieri mandata a Steccato di Cutro qualche minuto dopo le 4:15, quando un numero turco agganciato su una cella in località “le Castella”, a Isola Capo Rizzuto, chiama i carabinieri di Crotone. Il vicebrigadiere Tievoli e il carabiniere Fazio arrivano in spiaggia verso le cinque. Ci sono già i primi corpi sbattuti dalle onde sulla battigia, gli altri ancora in mare. I rinforzi, dichiarano i due, sono arrivati 40 minuti dopo. Fino alle 7 del mattino, secondo i superstiti, c’erano ancora persone in acqua.
Le indagini preliminari dovrebbero concludersi a breve, intanto però l’avvocato di Ufuk aveva chiesto durante il processo che venisse acquisito agli atti il documento con cui Frontex ricostruisce l’incidente, che evidenzia la negligenza delle autorità italiane, riducendo le responsabilità di Ufuk. Non è stato ascoltato.
“Quella inflitta a Gun Ufuk da un lato è una condanna pesantissima, gli hanno dato il massimo della pena che potevano dargli con rito abbreviato, dall’altro evidenzia come i processi agli scafisti siano processi politici. Sono processi che vengono fatti per tutelare le frontiere, non le persone. La condanna di Ufuk cerca di nascondere le responsabilità dell’Italia nel naufragio di Cutro”, spiega Richard Braude ricercatore e operatore sociale del circolo Arci Porco Rosso di Palermo. “Quello di trovare un capro espiatorio per cancellare le responsabilità governative però, è una strategia utilizzata da tutti i governi italiani degli ultimi dieci anni. L’anno con il più alto numero di arresti di cosiddetti scafisti è stato il 2016, con il governo Renzi. Dopo il decreto Cutro non sono aumentati gli arresti, bensì le pene da scontare”, continua il ricercatore.
Secondo il rapporto “dal mare al carcere” pubblicato dall’Arci Porco Rosso e Borderline Europe, infatti, nel 2013, i fermi di presunti scafisti – in termini assoluti – sono stati 200; nel 2014 ammontano a 503; nel 2015 a 517; fino a toccare la vetta massima nel 2016 con 770 arresti. Dal 2017 al 2022 i numeri sono rimasti costanti con un picco di 331 arresti nel 2017 e un minimo di 100 arresti nel 2019. Il numero complessivo di fermati negli ultimi 8 anni è di 2.559 persone. Quello di Ufuk non è, quindi, un caso giudiziario isolato: l’Italia utilizza la pratica di criminalizzazione dei presunti scafisti, trasformandoli in capri espiatori, da almeno dieci anni. Il tentativo di giustificare l’accanimento giudiziario nei confronti degli scafisti si basa sull’assunto che questi sarebbero responsabili di aver messo in pericolo le persone migranti durante il viaggio. Questa giustificazione suona quanto mai retorica se si considera che invece di tutelare le persone migranti la criminalizzazione degli scafisti aumenta il pericolo a cui sono sottoposte. Dal report emerge infatti che spesso i migranti più esperti a guidare non vogliono farlo per paura di essere arrestati e si ritrova così a guidare la barca chi magari non l’aveva mai fatto prima. Durante il viaggio, per evitare di essere identificati, i capitani adottano delle prassi che mettono a rischio i migranti, come obbligarli a non uscire dalla stiva cosi che l’imbarcazione possa sembrare un qualsiasi peschereccio; nel momento dell’intercettazione della barca succede spesso che i capitani si allontanino dal motore per non essere identificati come scafisti smettendo di fatto di controllare la navigazione. Come nel naufragio del 3 ottobre 2013, spesso il capitano getta in acqua il telefono satellitare per evitare di essere individuato, perdendo così la possibilità di mettersi in contatto con i soccorritori.
Secondo lo studio, inoltre, gli effetti della criminalizzazione sui presunti scafisti proseguono anche dopo la conclusione della vicenda penale, dal momento che la condanna impedisce il riconoscimento della protezione internazionale. “Il diritto fondamentale di essere tutelato in quanto rifugiato viene meno a causa di una colpevolezza accertata senza le dovute garanzie processuali”, si legge nel rapporto. Per chi esce dal carcere dopo aver scontato la pena da scafista in Italia è molto difficile integrarsi e ottenere la documentazione necessaria a restare nel paese regolarmente, c’è il rischio di finire nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) e essere rimpatriati, inoltre la multa imposta spesso diventa una tassa a vita. Per l’avvocato di Ufuk è impensabile che il suo assistito possa pagare la multa che gli è stata imposta, né tanto meno che possa risarcire Governo, Regione e familiari delle vittime. “La cosa più spaventosa – conclude Braude – è che queste multe non sono simboliche, ma reali. Se i cosiddetti scafisti non riescono a pagarle, una volta usciti dal carcere, viene prelevata parte del loro stipendio. Questa è una forma di schiavitù, una condanna a vita”.
Ma se il governo italiano punta il dito su Gun Ufuk, rivendicando giustizia per se stesso e per le vittime, chi le persone morte nel naufragio di Cutro le amava, non chiede nessun risarcimento. Giustizia per loro significa che chi è rimasto nei paesi di provenienza possa arrivare in Italia per vie legali così com’era stato promesso da Giorgia Meloni un anno fa. Per i familiari delle vittime e i superstiti del naufragio di Cutro giustizia è diritto alla libertà di movimento, diritto al ricongiungimento con le persone care che attendono ancora di poter piangere su una tomba.
[Immagine di copertina di Lidia Ginestra Giuffrida]