Da sette anni Kumar* si sveglia ogni mattina all’alba, prende la sua bici e pedala per 40 minuti dalla sua casa a Pontinia, in provincia di Latina, fino all’azienda agricola in cui lavora da anni, una delle 10 mila in quest’area. Ogni giorno raccoglie le verdure di stagione, lava l’insalata, carica e scarica le cassette. Se gli chiedi quanto dura la giornata di lavoro, dice “sai quando inizia, ma non sai quando finisce”. Dal lunedì al sabato lavora tra le 9 e le 12 ore, la domenica fa mezza giornata. La paga è di 4 euro e mezzo l’ora. Come tutti i lavoratori con cui abbiamo parlato in questa zona, si riferisce al suo datore di lavoro chiamandolo “padrone”: “spesso ci urla addosso”, dice, “e se gli devi rivolgere la parola devi fare un passo indietro e abbassare la testa”.
Kumar ha 27 anni e viene dal Punjab, una regione del nord dell’India. Al polso indossa un cerchio di metallo: è il kara, uno dei simboli della religione Sikh. Suo padre ha lavorato per 25 anni in Medio Oriente. Quando Kumar – che è il maggiore di quattro figli – ha compiuto 18 anni, suo padre ha deciso che toccava a lui emigrare per sostenere la famiglia. I suoi genitori hanno impegnato la casa per ottenere un prestito da 13 mila euro e pagare le spese per il visto e per il viaggio fino all’Italia. Nel febbraio del 2010, un’auto lo ha prelevato al suo arrivo a Fiumicino. Un’ora dopo si è ritrovato in provincia di Latina, nell’Agro Pontino, dove si è unito alla comunità Sikh che si è stabilita qui da oltre trent’anni.
Le dimensioni del fenomeno e i dati della Cgil
La comunità Sikh di Latina è la seconda per dimensioni in Italia, dopo quella dell’Emilia Romagna. I cittadini di nazionalità indiana regolarmente censiti nella provincia di Latina sono 10.734, ma secondo una stima di Cgil basata sulla quantità di persone che accedono a vari tipi di servizi (Caf, scuole di italiano, ecc), i Sikh che vivono effettivamente qui sarebbero più del doppio: circa 25 mila. La maggior parte, pur avendo un permesso di soggiorno per motivi di lavoro – stagionale o di lungo periodo – avrebbe la residenza altrove, in Italia o nel Lazio.
Secondo i dati di Metes, un istituto di ricerca finanziato dalla Cgil, in provincia di Latina ci sono 10.409 aziende agricole, che impiegano 10.849 lavoratori a tempo determinato. Gli assunti a tempo indeterminato sono invece 942. La maggior parte dei lavoratori sono rumeni e indiani. Anche se è vero che si tratta per lo più di aziende a gestione familiare, secondo Pino Cappucci, segretario regionale della Flai-Cgil, i numeri non fotografano la realtà: “il numero effettivo di lavoratori indiani è senza dubbio più alto”, afferma. Ma a causa delle “evasioni contrattuali”, questa realtà non troverebbe riscontro nei numeri.
Il mercato agricolo di Fondi e le infiltrazioni mafiose
L’insalata, i pomodori e le zucchine che Kumar raccoglie da sette anni, finiscono al Mof, il mercato di Fondi, uno dei poli ortofrutticoli più grandi d’Europa, che rifornisce i mercati e le catene della grande distribuzione in Italia e all’estero. Secondo il quinto rapporto “Agromafie”, di Eurispes e Coldiretti, nel 2016 le organizzazioni criminali hanno guadagnato 21,8 miliardi di euro dallo sfruttamento del mercato agroalimentare. E le infiltrazioni mafiose e camorriste riguarderebbero anche il mercato di Fondi. Secondo quanto riporta un articolo del Fatto Quotidiano, nel novembre 2016 un’indagine della Dda, la direzione distrettuale antimafia, avrebbe scoperto all’interno del Mof “l’esistenza di una spartizione degli affari da parte delle organizzazioni malavitose operanti in zona e di una monopolizzazione del settore dei trasporti su gomma del clan dei casalesi”.
I meccanismi di ingresso e di rinnovo del permesso
Lo sfruttamento dei braccianti nell’Agro Pontino si nasconde quasi sempre sotto una superficie di legalità: “non si tratta tanto di lavoro nero, quanto piuttosto di lavoro ‘grigio’”, afferma Cappucci. I lavoratori indiani senza permesso e senza un contratto sarebbero infatti una minoranza: formalmente molti hanno un contratto stagionale, ma la paga e gli orari di lavoro previsti dalla normativa nazionale (9 euro lordi e non più di sei ore al giorno) non vengono quasi mai rispettati. E così molti lavorano di fatto per 4 euro all’ora o meno.
Questa apparente legalità riguarda anche i meccanismi di ingresso in Italia: la maggior parte dei lavoratori indiani è arrivata con un permesso di lavoro stagionale, che quasi sempre però è stato pagato migliaia di euro. L’attuale normativa sull’immigrazione, la legge Bossi-Fini, regola l’ingresso dei lavoratori stranieri secondo un sistema di quote, i cosiddetti decreti-flussi. In pratica, uno straniero che vuole lavorare in Italia per poter immigrare regolarmente dovrebbe – dal suo paese di origine – trovare un datore di lavoro italiano pronto ad assumerlo. E, viceversa, questo significa che il datore di lavoro italiano dovrebbe impegnarsi ad assumere un lavoratore che teoricamente non ha mai visto.
Secondo il rapporto di Medici per i diritti umani “Terra ingiusta”, per quanto riguarda i braccianti Sikh,“il reclutamento avviene nei piccoli villaggi del Punjab da parte di connazionali che vendono a chi desidera spostarsi ‘pacchetti’ che includono il biglietto del viaggio, l’alloggio, il permesso di soggiorno e il lavoro. Il pacchetto ha costi diversi in base alle possibilità economiche della famiglia, in media dai 4 agli 8mila euro a persona”. Chi non può affrontare il costo, contrae un debito con i reclutatori che verrà pagato in Italia con i primi salari ricevuti. Questo sistema, come denuncia da anni la cooperativa In Migrazione, rende particolarmente difficile per i lavoratori denunciare le condizioni di sfruttamento: “Nell’Agro Pontino”, afferma Marco Omizzolo, di In Migrazione, “lo sfruttamento lavorativo è legato al debito contratto per arrivare in Italia e quindi a un sistema di tratta internazionale”. Omizzolo denuncia da tempo gli abusi a danno dei Sikh: denunce che negli anni gli sono costate minacce e intimidazioni. L’ultima lo scorso 3 marzo, quando gli hanno squarciato tutte e quattro le gomme dell’auto, e sfondato parabrezza e cofano a colpi di cacciavite.
Il residence di Bella Farnia è un complesso di ex villette turistiche, oggi abitate da lavoratori indiani e rumeni. È qui che alla sera abbiamo appuntamento con Dass*: è appena rientrato, in bici, da un turno di 11 ore. È in Italia dal 2011, ha 28 anni e il suo sogno era andare a lavorare in Nuova Zelanda. Quando gli chiediamo come ha fatto ad arrivare in Italia, ci dice che è stato grazie all’aiuto di uno zio. Solo dopo una lunga chiacchierata ci spiega che per aiutarlo questo “zio” si è fatto pagare 7 mila euro. Dass ci ha messo due anni a ripagare il debito, ma ci assicura di essere stato fortunato: “c’è chi ci mette anche cinque o sei anni”, dice. Omizzolo non usa mezzi termini: “la legge Bossi-Fini si traduce di fatto in uno sistema ricattatorio che aiuta la tratta internazionale”.
Ai debiti legati all’ingresso si aggiungono spesso i problemi legati al rinnovo del permesso di soggiorno e alla scarsa conoscenza della lingua italiana e delle leggi: In Migrazione e Cgil affermano di aver visionato centinaia di buste paga false in cui i datori di lavoro segnano dai 3 ai 12 giorni lavorativi al mese, quando in realtà la persona ha lavorato tutti i giorni. Il resto delle ore restano sommerse o segnate a matita su fogli di carta, i pizzini dello sfruttamento, e retribuite 3 o 4 euro in nero. “Una persona che lavora 12 ore al giorno tutti i giorni”, spiega Omizzolo, “ma che poi si ritrova una busta paga di 200 euro al mese non raggiunge, formalmente, i minimi di reddito per rinnovare il permesso di soggiorno. E allora trova le sue strade”. In pratica, questo significa pagare il datore di lavoro – o un intermediario – per emettere buste paga “false” che gli permettano di dimostrare il reddito minimo, che in realtà ha ricevuto in nero.
Doparsi per lavorare
Oltre ai mancati pagamenti, agli insulti e alle percosse, a dare la misura della gravità delle condizioni di sfruttamento in cui i braccianti indiani lavorano da anni è il crescente uso di droghe. L’assunzione di sostanze, inclusi tabacco e alcool, è proibita dalla religione Sikh. Eppure le condizioni di lavoro, specie all’interno delle serre, sono talmente pesanti da spingere alcuni lavoratori ad assumere oppio e anfetamine per sopportare la fatica. “Sono i caporali indiani o gli stessi padroni a procurare queste sostanze ai lavoratori”, afferma Harbhajan Singh, uno dei leader della comunità Sikh di Sabaudia. “A raccontarmelo sono stati gli stessi lavoratori. Quasi tutti se ne vergognano e li ho visti piangere mentre lo ammettevano”. Un’affermazione che trova conferma anche in un report pubblicato da In Migrazione nel 2014, “Doparsi per lavorare come schiavi”, in cui sono raccolte le testimonianze dei lavoratori costretti ad assumere “sostanze stupefacenti e antidolorifici che inibiscono la sensazione di fatica e stanchezza”.
Qualcuno però si rifiuta di abbassare la testa: sempre a Sabaudia, incontriamo Singh, che per paura di ritorsioni ci chiede di non essere identificato con il suo vero nome. Nel 2015 Singh ha deciso di denunciare il suo datore di lavoro: “io sono un Sikh, e quando un Sikh decide, niente può fermarlo”, afferma, spiegando come si sia convinto a denunciare. Singh, che vive in Italia da otto anni, oltre al datore di lavoro ha denunciato anche il caporale indiano che reclutava per lui i lavoratori, trattenendo una parte della loro paga. Presto ne ha pagato le conseguenze: ha dovuto lasciare il lavoro e, spaventato dalle minacce, ha lasciato la casa in cui viveva.
Lo sciopero e le denunce
Nell’aprile 2016, 2 mila lavoratori Sikh hanno manifestato a Latina contro le condizioni di lavoro a cui sono costretti e hanno chiesto un aumento della paga oraria a 5 euro. Alcuni lavoratori hanno pagato la partecipazione allo sciopero con un licenziamento. Come spiega Omizzolo, però, dopo lo sciopero c’è stato anche un aumento delle denunce da parte dei lavoratori: “nei dieci anni precedenti allo sciopero abbiamo seguito appena cinque vertenze [tra cui quella di Singh], mentre dal 2016 ne abbiamo avviate più di 80”. Ma i tempi lunghi e le incertezze legate a un eventuale processo scoraggiano la maggior parte dei lavoratori. Grazie alla testimonianza di altri colleghi, il caporale che Singh aveva denunciato nel 2015 è stato arrestato. Ma il processo nei confronti del datore di lavoro è appena iniziato: a tre anni dalla denuncia. Nel frattempo, secondo quanto afferma Omizzolo, l’azienda ha continuato a sfruttare altri lavoratori e ad affidarsi ai caporali per il reclutamento.
Nell’ottobre 2016 il Parlamento italiano ha approvato la nuova legge sul caporalato, che prevede fra l’altro pene più severe per le aziende che si avvalgono dell’intermediazione illecita. E il governo ha promesso maggiori controlli: tra giugno e luglio del 2017 in provincia di Latina sono state controllate quattro aziende agricole e arrestati tre titolari. Non molto, se si pensa alle dimensioni del fenomeno: secondo Carmine Mosca, direttore della squadra mobile di Latina, la questione è che ci sono problemi più urgenti e numerosi di cui le forze di polizia devono occuparsi, tra cui il traffico di droga e le infiltrazioni camorriste.
Singh oggi lavora per un’azienda di medie dimensioni, in cui, dice, lavorano anche diversi suoi connazionali senza documenti. Non è contento delle condizioni di lavoro: “la paga è di 4 euro e mezzo l’ora, ma il padrone e sua moglie ci urlano addosso in continuazione. A volte penso di fare qualcosa, di ribellarmi”, dice, “ma se sono da solo, rischio che mi mandino via e basta. Nessuno di noi può far niente, se è da solo”.
A differenza di Singh, Kumar e i suoi colleghi non hanno partecipato allo sciopero del 2016, perché avevano paura di perdere il posto. Ma alcune settimane dopo, convinti dal successo dei lavoratori che con lo sciopero hanno effettivamente ottenuto l’aumento chiesto, hanno deciso di chiederlo anche loro: da 4 euro e mezzo a 5 euro l’ora. Il datore di lavoro ha rifiutato e ha deciso di mandare via Kumar, che in quel periodo era senza documenti. Ma più che con il “padrone”, Kumar si è arrabbiato soprattutto con i colleghi, che, a suo avviso, non lo hanno difeso. Pochi mesi dopo, quando ha recuperato il permesso di lavoro, Kumar è tornato a lavorare per la stessa azienda. Le condizioni di lavoro sono sempre le stesse.
Quando gli chiediamo perché lui e i suoi colleghi non abbiano più provato a chiedere un aumento, Kumar risponde: “abbiamo un detto in India: se vedendo un serpente ti spaventi, quando di notte vedrai un pezzo di corda, avrai ugualmente paura”. Kumar non pensa che la situazione migliorerà, ma è certo di una cosa: non vuole “morire lavorando nei campi”. In questi anni ha imparato l’italiano, vuole provare a spostarsi altrove: “l’unica cosa che posso fare ora è pensare per me stesso”.
*I nomi dei lavoratori sono stati cambiati su loro richiesta, per timore di ripercussioni da parte dei datori di lavoro.
In copertina: Pontinia (Lt), 2015, Parminder tiene lo specchio a un amico mentre indossa il turbante, uno dei simboli tradizionale del sikhismo (fotografia di Marco Valle, come tutte le immagini di questo articolo)