A prima vista sembra un carcere. Un muro di filo spinato, sorvegliato da telecamere, delimita tutto il perimetro del campo di prima accoglienza di Conetta. Dietro l’ingresso, rigidamente controllato da addetti alla sicurezza che verificano le tessere identificative di chi entra e di chi esce, sventolano beffarde le bandiere dell’Italia e dell’Europa. I richiedenti asilo chiamano i guardiani Kapò, ma, ironia della sorte, anche i guardiani sono migranti, in fuga dalle persecuzioni di Saddam Hussein o in cerca di una vita migliore, al servizio, per una manciata di euro, della cooperativa Edeco, l’ente gestore della struttura.
“Vedi, è come una prigione, soffriamo molto”, dice Diop M., vent’anni, della Guinea, in bicicletta e ciabatte con una temperatura che sfiora i cinque gradi. “Cona non va bene, Cona non va bene”, ripete scuotendo la testa.
Il campo di Conetta è una vecchia base missilistica abbandonata, trasformata in struttura di prima accoglienza per i richiedenti asilo. In questa punta dell’estremo sud ovest della provincia di Venezia, terra di latifondo e di lotte dei braccianti, dove gli abitanti delle cinque frazioni (Cona, Conetta, Cantarana, Monsole e Pegolotte) non superano i 3 mila abitanti, sono ospitate circa 850 persone, che fino a poche settimane fa erano 1400, in uno stato di completo isolamento ed esclusione sociale. A queste si aggiungono i 400 richiedenti asilo all’interno dell’ex base militare a San Siro di Bagnoli, a circa sei chilometri da Conetta.
C’è chi aspetta da un anno e quattro mesi, chi da due anni o da sei mesi, all’interno di tendoni, caldi d’estate e freddi d’inverno, in condizioni igieniche precarie, ammassati su brandine. Sempre in questo campo, lo scorso 2 gennaio, è morta una ragazza ivoriana di 25 anni, Sandrine Bakayoko, per una trombosi polmonare acuta. Molte le proteste dei migranti, sia dopo la morte della donna, sia nei mesi scorsi, per contestare le condizioni del centro di prima accoglienza e per chiederne la chiusura. L’ultima, poche settimane fa: un corteo di 260 persone, sostenuto dal sindacato di base Usb, da attivisti e cittadini, ha marciato pacificamente per tre giorni dall’ex base militare di Conetta verso Mira, a 20 chilometri dal capoluogo veneto, per domandare dignità e diritti direttamente alla Prefettura di Venezia.”Non vogliamo né un castello, né una villa ma delle condizioni dignitose per ogni essere umano”, ha detto Kaba A., giornalista trentenne della Guinea, che è stato rinchiuso nel campo di Cona per un anno e due mesi prima di essere trasferito in un altro centro.
Fabbrica di soldi e di asocialità
L’accesso al campo di Conetta è interdetto a chi non ha il permesso della prefettura di Venezia. Abbiamo formalmente inviato una richiesta per Open Migration, ma non abbiamo mai ricevuto risposta. A tre parlamentari di Sinistra Italiana, Mdp e Possibile in visita ispettiva non è stato consentito di essere accompagnati da un’assistente. All’uscita dall’ispezione, Giulio Marcon, capogruppo della Camera dei Deputati di Sinistra Italiana, ha detto: “le condizioni di vita all’interno sono inumane. È evidente che l’obiettivo di questo sistema di accoglienza è il business, non l’integrazione”.
La cooperativa che gestisce l’ex base militare di Cona è la Ecofficina-Edeco di Padova, attiva nel settore dell’accoglienza in Veneto dal 2011, con un passato negli affari dello smaltimento dei rifiuti. Oltre al campo di Cona, l’Edeco gestisce la caserma Zanusso di Oderzo (dove stanno circa 400 persone) e l’ex base militare a San Siro di Bagnoli (dove ce ne sono altre 400), affidate dalla Prefettura con il criterio del massimo ribasso. Con un fatturato di quasi 10 milioni di euro, per la sola accoglienza dei migranti in Veneto, la cooperativa è al centro di tre indagini delle procure di Rovigo e Padova con l’accusa di falso, maltrattamenti e truffa ed è stata sospesa da Confcooperative perché, secondo il presidente Campagnaro, “fa troppo business”.
“Ma ti rendi conto che questi sono soldi pubblici che dovrebbero essere spesi per offrire dei servizi, previsti dai bandi, come l’insegnamento dell’italiano e corsi di formazione?”, dice Antonio Ci, attivista del centro sociale Catai di Padova.”Si tratta del più grande trasferimento di soldi pubblici in tasche private, sulla pelle e la vita delle persone”. Davanti al bar di Oriano, sulla strada che collega Conetta a San Siro di Bagnoli, incontriamo quattro ragazzi che sono ospiti dell’ex caserma di Bagnoli. È l’unico posto della zona da cui si possa accedere al servizio di trasferimento di denaro nel mondo, ma i ragazzi possono frequentare il bar solo in certe fasce orarie, perché “questi mori non piacciono ai miei clienti”, spiega Oriano stesso in dialetto veneto. Agoro, 26 anni, sta inviando 50 euro a sua moglie in Togo. “Il mio migliore amico è morto in Libia, ucciso da alcune milizie. Mi prendo cura anche della sua famiglia. Tutto quello che desidero è imparare l’italiano e ottenere i documenti”, dice il ragazzo in inglese. “Nel campo, mangiamo e dormiamo. Questo facciamo tutto il giorno. Gli insegnanti sono pochi per 400 persone e le nostre teste non riescono a concentrarsi in posti come questi. È come vivere in una fattoria di esseri umani. Se fossimo in città, almeno potremmo integrarci”.
In Veneto l’accoglienza diffusa non funziona
Secondo i dati del Ministero degli Interni, aggiornati a marzo 2017, su un totale di 176.523 presenze in Italia, il Veneto ospita in tutto 13.402 persone. Un terzo di queste persone vive, però, in grandi strutture di prima accoglienza – caserme, ex basi militari, centri di accoglienza straordinari – lontane dalle città, inadeguate ad accogliere persone per lunghi periodi e gestite da cooperative che le amministrano in maniera poco trasparente. Solo 693 persone sono accolte all’interno del Sistema nazionale per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). Evitare Cona e altri esempi di sovraffollamento sarebbe stato possibile se i comuni avessero accolto la quota prevista per legge [che prevede 2.5 migranti ogni mille abitanti], invece l’accoglienza continua ad essere gestita in modo emergenziale dai prefetti, a suon di bandi e affidamenti diretti, obbligando degli esseri umani a vivere in veri e propri campi di concentramento.
Portogruaro, Bibione e Chioggia: tre strutture a confronto
In Veneto i lasciti della guerra fredda – ex basi e infrastrutture militari – sono stati direttamente ereditati dai migranti. A Portogruaro, negli alloggi fatiscenti e in rovina del Demanio, gestiti dalla cooperativa Cssa, vivono 27 persone, originarie di Benin, Gambia, Nigeria, Mali, Guinea. Non c’è il riscaldamento né l’acqua calda, e fino a poche settimane fa mancavano persino il frigorifero e la lavatrice. Per lavarsi, i ragazzi sono costretti a bollire l’acqua sul fuoco, ma nonostante tutto sono felici. “Possiamo cucinare e mangiare quello che vogliamo, essere autonomi e organizzarci”, dice Philip, 28 anni, della Nigeria, uno dei leader della marcia pacifica di Cona, che è stato recentemente trasferito a Portogruaro. “Sai perché abbiamo protestato? Perché dopo il Sahara e la morte, dopo la Libia e la morte, dopo il Mediterraneo e altra morte, ecco, ora vogliamo vivere ed essere liberi”, esclama, mostrando sorridente la carta d’identità appena ottenuta. “Non siamo qui per lamentarci del cibo, vogliamo un’integrazione, vivere con le persone, imparare la lingua e lavorare”, conclude in tono calmo e pacato.
A parlare con rabbia e agitazione invece, sono i 67 richiedenti asilo assegnati al villaggio turistico Pio XII, gestito dal Centro Italiano Femminile, Opere Assistenziali Ente Morale (Cif) a Bibione, cittadina di villeggiatura spettrale e isolata. “Da una prigione, siamo finiti in un’altra”, esclama Suleiman K., 27 anni, della Costa d’Avorio. “Perché ci mettono sempre in un ghetto separati dagli altri?” ci chiede. La maggior parte dei ragazzi che incontriamo non ha mai frequentato un corso d’italiano, né è in possesso della carta d’identità, che è responsabilità dell’ente gestore. I richiedenti asilo denunciano inoltre l’assenza di personale medico sanitario, la scarsità del cibo, il non funzionamento del riscaldamento e il totale isolamento. Chiediamo al responsabile Enrico Santinelli di spiegare la mancanza di questi servizi. Ci viene risposto che tutto verrà risolto il giorno stesso.
Se a Portogruaro e Bibione le condizioni di vita dei richiedenti asilo sono precarie, a Chioggia la situazione è preoccupante. In un vecchio casolare, trasformato in centro d’accoglienza per donne e minori, sono stipate circa 25 donne. Il primo blocco è occupato dalle donne nigeriane, il secondo da un’armena e da una cecena, mentre il terzo da una decina di donne eritree, somale ed etiopi con bambini appena nati. Vivono in minuscole stanze, costruite visibilmente in modo abusivo, senza i minimi requisiti di sicurezza. “Guarda come viviamo, qui non va per niente bene”, dice una donna che ci chiede di non rivelare la sua identità. “Una famiglia irachena è fuggita proprio per le condizioni di vita. Spero di riuscire ad andare via da qui il prima possibile con il mio bambino, perché in Italia non vedo futuro”.
In copertina: Cona, Veneto, 2017. Una seconda marcia ha visto altre persone lasciare il campo per manifestare i propri diritti e chiedere al Prefetto di Venezia migliori condizioni di vita (fotografia di Arianna Pagani come tutte le immagini di questo articolo)