Il 23 giugno 2016 il Regno Unito si è recato alle urne per uno storico referendum che avrebbe deciso l’abbandono dell’Unione Europea o la permanenza al suo interno. Il giorno dopo, il paese si è svegliato scoprendo che il 52 percento dei suoi oltre trenta milioni di elettori aveva scelto di uscire dalla comunità di cui faceva parte da quarantatré anni.
La decisione del Regno Unito di abbandonare l’Unione Europea, comunemente nota come «Brexit», ha sorpreso molti in patria e irradiato per l’Europa un’onda d’urto la cui eco si è sentita in tutto il mondo. Le settimane e i mesi successivi sono trascorsi all’insegna della confusione e dell’incertezza sulla fisionomia che assumerà la Brexit nei fatti, sui tempi necessari perché diventi effettiva e sulle sue ricadute su questioni come quella della migrazione.
Gli ultimi mesi hanno inoltre visto l’intensa lotta per la leadership del partito conservatore britannico, seguita alle dimissioni del primo ministro (pro-Remain) David Cameron, poi sostituito da Theresa May (a sua volta pro-Remain), la nomina di un nuovo governo e l’abolizione del [cosiddetto, NdR] ministero per i rifugiati siriani.
Leave contro Remain
Il referendum dello scorso giugno ha spaccato il governo britannico e i principali partiti politici. La campagna ufficiale per il «Leave», che aveva fra i suoi promotori l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, aspirava a eliminare la cosiddetta «supremazia delle leggi europee», sostenendo che i 350 milioni di sterline inviati ogni settimana a Bruxelles (cifra assai contestata dallo schieramento avversario) andassero invece investiti nel sistema sanitario e nella ricerca scientifica.
Il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP), pro-Leave, ha impugnato l’immigrazione come principale arma di campagna referendaria, esortando gli elettori a «riprendere il controllo dei confini» in un criticatissimo manifesto lanciato dal leader dell’UKIP Nigel Farage, che aveva come slogan «Breaking Point», punto di rottura, sovrapposto alla fotografia di un lunga fila di migranti e rifugiati al confine fra la Croazia e la Slovenia; entrambi i paesi fanno parte dell’area europea di Schengen, per spostarsi all’interno della quale non è necessario il passaporto.
Prima della Brexit, il premier David Cameron era stato una delle principali voci della campagna per il «Remain», secondo la quale l’appartenenza all’Unione Europea rendeva il Regno Unito più forte, alimentava la crescita economica attraverso l’immigrazione e proteggeva i diritti dei lavoratori.
Il paesaggio post-Brexit
Molti osservatori hanno sottolineato l’incapacità del governo britannico di elaborare un piano di contingenza contro il «Leave». Ma Theresa May, assumendo il suo nuovo incarico, ha affermato che «Brexit significa Brexit, e noi la trasformeremo in un successo».
Al fine di uscire dall’Unione Europea, il Regno Unito deve invocare una clausola contenuta nell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, nella quale si concedono due anni alle parti in causa per concordare i termini della separazione. May ha dichiarato che non avvierà il processo prima della fine del 2016, il che significa che per avere una visione chiara del tipo di accordo che il Regno Unito cercherà con l’Europa sui fronti del commercio e dell’immigrazione bisognerà aspettare perlomeno l’anno prossimo.
Se è vero che il Regno Unito detiene la sovranità sulla migrazione extraeuropea, la Brexit ha tuttavia ricadute dirette anche sulla migrazione intraeuropea, che interesseranno i circa tre milioni di cittadini UE residenti nel Regno Unito e il milione e trecentomila cittadini del Regno Unito residenti in altri paesi dell’Unione.
Il governo britannico ha dichiarato che qualsiasi decisione sul futuro dei primi dipenderà dall’evolversi della posizione dei secondi nei negoziati per la Brexit. Tra i modelli che il Regno Unito potrebbe seguire si citano la Norvegia e la Svizzera, paesi entrambi esterni all’Unione Europea.
La Norvegia fa parte dello Spazio economico europeo (EEA), cosa che le impone di applicare le stesse regole sulla libera circolazione degli altri stati UE, senza però poterle votare. Al tempo stesso, il Trattato bilaterale di libera circolazione delle persone elimina le restrizioni per i cittadini UE che vogliono vivere o lavorare in Svizzera. Come modelli di residenza e diritto dei lavoratori per i cittadini europei, sono dunque pressoché identici a quelli degli stati membri. Anche nell’eventualità che la Brexit produca una stretta sul controllo della migrazione di cittadini EU, l’adozione da parte del Regno Unito di un simile modello perlopiù non intaccherebbe la libera circolazione.
Il principale timore, per molti, è che la Brexit dia l’impressione di legittimare il sentimento anti-migratorio espresso dall’UKIP durante la campagna referendaria.
Dalle urne, sostiene il direttore dell’organizzazione benefica Refugee Action, Stephen Hale, esce «una Gran Bretagna molto divisa e dal futuro incerto». «Ora i cittadini hanno bisogno di veder affermare con chiarezza che lo scopo di questo voto non era blindare le frontiere», dice, «né alimentare la fiamma del pregiudizio verso i tre milioni di europei che vivono e lavorano nel Regno Unito, e che oggi sono giustamente in apprensione».
Il Regno Unito e il diritto d’asilo
Dall’osservatorio sulle migrazioni dell’università di Oxford sottolineano che, fatte salve le questioni di cittadinanza e di mercato interno, il Regno Unito partecipa alle politiche europee in materia di asilo e immigrazione in modo selettivo. Il Sistema europeo comune di asilo (CEAS) dell’Unione punta a garantire che negli stati membri vengano protetti i diritti internazionali dei rifugiati, stabilendo standard e procedure di base per l’elaborazione e la valutazione delle richieste di asilo, nonché per il trattamento dei richiedenti asilo come di coloro che ottengono lo status di rifugiati.
Il Regno Unito ha deciso di non partecipare appieno alla recente riforma del CEAS affermando di non ritenere «giusta per la Gran Bretagna» l’adozione di una politica d’asilo comunitaria. Il Regno Unito ha inoltre deciso di non accettare le quote di rifugiati previste dalla riforma del Regolamento di Dublino, che stabilisce che i richiedenti asilo debbano essere registrati nel primo paese dell’Unione che raggiungono, e che chiunque si sposti ulteriormente possa essere rimandato indietro.
Le proposte elaborate per reagire al collasso di questo sistema, coinciso con il picco della crisi-rifugiati in Europa, vedrebbero Bruxelles stabilire il numero dei richiedenti asilo che ciascun paese dell’UE può accogliere in base alle sue dimensioni e alla sua ricchezza. Qualora il numero di arrivi dovesse superare tale soglia del 50 percento, i richiedenti asilo verrebbero automaticamente inviati verso altri stati dell’Unione.
Il Regno Unito non fa parte dell’area Schengen, che non prevede controlli alle frontiere. Il Trattato di Le Touquet, firmato dal Regno Unito e dalla Francia nel 2003, permette ai due paesi di effettuare il controllo dei passaporti sul territorio dell’altro. Chi lo critica sostiene che sia stato proprio questo ad accelerare la crescita della «giungla» in cui attualmente vivono quasi 5000 rifugiati.
Il sindaco di Calais Natacha Bouchart pensa che la Francia debba ridiscutere l’accordo — che pure è stato firmato al di fuori dell’Unione Europea e non è quindi interessato dalla Brexit — in modo che la gestione delle richieste d’asilo avvenga nel Kent anziché a Calais.
Ma un rapporto pubblicato ad agosto dall’Home Affairs Select Committee indica il mantenimento del Trattato di Le Touquet come una delle «priorità» del governo britannico. Dal rapporto emergono inoltre le difficoltà del Regno Unito nel rispettare il suo impegno ad accogliere 20.000 siriani entro il 2020.
Tra il settembre del 2015 e il marzo del 2016, i siriani ricollocati in base al piano di relocation delle persone vulnerabili pensato per quelle presenti nei campi lungo i confini della Siria sono stati 1602. Il Regno Unito ha ricevuto appena il 3,1 percento del milione e duecentocinquantamila richieste di asilo inoltrate nel 2015 agli stati membri dell’Unione Europea, e provenienti soprattutto da Siria, Afghanistan e Iraq.
La paura del contagio
La Brexit potrebbe quindi essere il primo segnale di uno tsunami politico europeo? Un recente studio dello European Council on Foreign Relations ha individuato 34 proposte di referendum antieuropei in 18 paesi. L’EFCR ha sondato 45 partiti«ribelli» europei — dall’estrema sinistra all’estrema destra — su temi che andavano dall’appartenenza del proprio paese all’Unione Europea a specifiche questioni specifiche come le quote di ricollocazione dei rifugiati.
Dei partiti presi in esame, 36 sono contrari all’accordo UE-Turchia sulla crisi dei rifugiati, e molti si dicono preoccupati perché comporterà una collaborazione più stretta fra l’Unione Europea e la Turchia. A detta del direttore dell’ECFR Mark Leonard, i partiti di protesta rappresentano una «rivoluzione» nella politica estera europea: «Anche dove non governano direttamente, il loro peso politico è tale da costringere i grandi partiti ad adottarne le posizioni».
La leader del Front National (FN) Marine Le Pen chiede da tre anni un referendum francese sull’Unione Europea, e se l’anno prossimo verrà eletta promette di portare la Francia alle urne per decidere se rimanere o andarsene. Ha inoltre salutato il voto di giugno sulla Brexit come «una vittoria per la libertà».
Gli euroscettici italiani del Movimento Cinque Stelle, il partito anti-establishment fondato dal comico Beppe Grillo che nel 2013 ha conquistato un quarto dei voti nazionali, il mese scorso si sono aggiudicati le poltrone di sindaco sia a Roma che a Torino. Pur mantenendo l’impegno nei confronti dell’Unione Europa, il M5S chiede un referendum nazionale sull’euro.
Anatole Kaletsky, capo economista e co-direttore dell’istituto di ricerca Gavekal Dragonomics, ritiene che il risultato del referendum sulla Brexit abbia trasformato le politiche della frammentazione europea, e di recente ha scritto che «Prima, davanti a chi chiedeva l’abbandono della UE o dell’euro si poteva ridere, dandogli del visionario o bollandolo come fascista (o estremista di sinistra). Adesso non si può più».
(Traduzione di Matteo Colombo)
Foto di copertina: Duncan C /Flickr Creative Commons