Il 15 gennaio 2019 al processo Mered è stata depositata l’ennesima prova chiave. Il perito del Tribunale Michele Vitiello ha messo a confronto per la terza volta le voci intercettate dalla procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta Glauco (recuperate nel 2014 e nel 2016) con quelle del ragazzo in carcere al Pagliarelli dal giugno 2016.
Un difficile incrocio di cinque registrazioni, catturate in tempi diversi, con il saggio fonico (una registrazione della voce di un indagato o imputato ai fini della comparazione vocale con le voci sospette, oggetto di intercettazione ambientale o telefonica, nda) del detenuto preso dal carcere. Questione di vocali, di pronunce, di onde sonore.
Le prime due analisi erano state effettuate da due periti di parte e nel rigetto della domanda di scarcerazione il presidente della corte Alfredo Montalto aveva esplicitamente scritto che attendeva l’esito di questa terza prova. Infatti, nei due casi precedenti c’erano stati due esiti non soddisfacenti: quella della difesa aveva escluso categoricamente che l’intercettato e il detenuto fossero la stessa persona, quella del pm si era dimostrata inconclusiva, quindi inutilizzabile. L’esito di questa terza prova era tanto atteso quanto prevedibile: infatti Vitiello ritrova risultati o inconcludenti o che escludono che il ragazzo in carcere, Medhanie Tesfamariam Behre, sia la stessa persona di Medhanie Yehdego Mered. I risultati mostrano in sostanza che i parlanti hanno dialetti diversi: “L’analisi percettiva sulle discrepanze tra saggio fonico e la maggior parte dei progressivi, ha evidenziato differenze nella pronuncia di alcune parole”, scrive l’ingegner Vitiello.
Le voci confrontate dal perito, secondo quanto si legge nelle conclusioni, non danno mai la ragionevole sicurezza che la voce della persona in carcere sia la stessa di chi è stato ascoltato dagli investigatori negli anni dell’inchiesta “Glauco”. Come è sacrosanto che sia, il perito prende molte precauzioni, introducendo le sue conclusioni con un’analisi del margine di errore di questo genere di perizie, reso tanto più complicato dalla lingua dei parlanti: il tigrino, presente soprattutto in Eritrea e nel nord dell’Etiopia. Per quanto esistano questi chiaroscuri, però, resta un fatto. L’esito è ben lontano dal confermare che quella sia una prova di colpevolezza schiacciante. Eppure il 25 ottobre 2017 il pubblico ministero Anna Maria Picozzi, uno dei membri del pool, diceva: «Questa accusa ha basato la sua identificazione su dati […] che sono prevalentemente riferibili al traffico telefonico alla identificazione della voce dell’imputato». All’epoca l’argomento era stato utilizzato per ridimensionare la prova del Dna fornita dalla difesa. In aula era venuta a testimoniare Meaza Zerai Weldai, la madre dell’uomo in carcere, come confermato dal test. E suo figlio si chiama Medhanie Tesfamariam Behre. Da qui in avanti la procura ha ipotizzato che Mered fosse uno dei suoi tanti alias.
È evidente, però, che se ancora ci sono dubbi sull’identità del detenuto a due anni e mezzo dall’arresto qualcosa non va. Tanto più se a processo, come rivelato dal Guardian, a sostegno della procura saranno chiamati a testimoniare anche degli agenti sudanesi di Omar al-Bashir, un dittatore che con l’Italia ha in essere una accordo tra polizie per il rimpatrio dei suoi connazionali. Ma questo è un altro tema.
“Glauco” e le inchieste che ne hanno fatto seguito, è doveroso dirlo, sono le uniche che hanno provato a spingersi oltre i semplici sbarchi, andando a identificare chi sta al di sopra degli “scafisti”, solitamente presi come ultimi e unici responsabili di quello che succede in mare. Gery Ferrara, il pm a capo del pool, ha scritto molto di traffico di esseri umani a partire dal 2013. Anche a livello europeo è uno dei pochi procuratori che sta davvero provando a inseguire i principali profittatori delle tragedie nel Mediterraneo e che per studiare un metodo adeguato collabora anche con Università e analisti fuori dalla cerchia delle procure. Se esiste una condivisione delle informazioni, anche a livello di intelligence europea, che prima era impensabile, è anche grazie a lui. Questi importanti meriti però non eliminano il fatto che il principale indiziato del più grosso processo sul traffico di esseri umani è, con ogni probabilità, vittima di uno scambio di persona. Come non toglie il fatto che le condanne a “scafisti” di un certo peso siano davvero poche.
Forse il problema sta in una fascinazione collettiva, subita indistintamente da analisti, procuratori, giornalisti, governanti. Ossia che i trafficanti di uomini fossero dei mafiosi e in quanto tali avrebbero avuto bisogno dell’antimafia e delle sue peculiarità per essere presi e – un giorno – sconfitti. Lo si legge in una presentazione che lo stesso procuratore Ferrara fa a dicembre 2015 al Consiglio d’Europa a Strasburgo. Si parla del “nuovo approccio” alla lotta ai trafficanti portato grazie alle tecniche dell’antimafia italiana, senza ombra di dubbio la macchina investigativa più avanzata (e rodata) nella lotta al crimine organizzato di stampo mafioso. La Sicilia, centro del mondo della lotta alla mafia, diventa altrettanto avanguardia nella lotta ai trafficanti di uomini. Un sollievo anche per chi, in Europa, non ha mai capito nulla di organizzazioni criminali, tanto meno mafiose, visto che nemmeno è stato in grado di mutuare lo stesso articolo del codice penale che definisce cos’è e come si punisce, il famigerato 416 bis.
Ma davvero i trafficanti di esseri umani sono dei mafiosi? Davvero le loro organizzazioni sono mafia?
Anche qui il pericolo è quello di semplificare, di mettere tutti sullo stesso piano. Invece no, è scorretto. Le organizzazioni di trafficanti libici che controllano la Guardia costiera, i centri di detenzione dei migranti, che trafficano in gasolio e siedono al tavolo delle trattative con Paesi stranieri e autorità locali sono decisamente mafia. Sono organizzazioni verticistiche che hanno come scopo quello di acquistare sempre più potere. L’affiliazione è certamente almeno su base tribale. A cui spesso si assommano alleanze politiche, di convenienza e non, e militari. Sono attori che recitano una parte primaria nel caos libico, con cui sia il governo sostenuto dell’Onu di Fayed al Serraj sia il generale Khalifa Haftar sono scesi a patti. Europa e Italia, trattando con la Guardia costiera libica, hanno fatto lo stesso. Ora un’inchiesta della procura di Catania, andata a sentenza la scorsa estate ha confermato che per il sistema giudiziario italiano alcuni di questi personaggi – riferibili in particolare al clan di al Bija – sono dei criminali. Se conosciamo nomi e relazioni di questi gruppi mafiosi, è soprattutto merito del lavoro sul campo di Nancy Porsia e Francesca Mannocchi. Su Open migration, abbiamo già raccontato soprattutto del network dei fratelli Koshlaf e di Al Biya (qui e qui), che andava dal traffico di uomini a quello di gasolio, dalle alleanze con i filo-islamisti fino al governo di Serraj.
Il Generale Mered, però, appartiene a un’altra categoria. Non è un mafioso, come lo sono questi. È certamente un criminale, ma che opera al di fuori di strutture gerarchiche e appartenenze. Nella fenomenologia criminale, forse, sarebbe più il capo di una gang: violento, brutale, pieno di soldi. Non ha però un vero progetto, non incide davvero sul contesto politico. Semmai ha sfruttato una domanda crescente – lasciare il Corno d’Africa con ogni mezzo – e ha sfruttato la situazione a suo vantaggio. Ma Mered, a differenza delle mafie libiche, non è in grado di restare nel tempo. Era un importante trafficante nel 2014-2015, senza lasciare tracce o eredi. Il “comparato”, ossia l’analisi di amici e parenti (i compari) che solitamente si fa per incasellare un mafioso, tocca come personaggio di maggior rilievo Ermias Ghermay, il più duraturo tra i trafficanti “stranieri” in Libia.
Le inchieste di mafia si basano in modo consistente su pedinamenti e intercettazioni telefoniche e ambientali. Due elementi di prova che – dimostra il caso Mered – sono molto difficili da acquisire nelle indagini per traffico di esseri umani. L’importanza poi delle intercettazioni è ponderabile solo se si conosce il contesto. Per primo è stato Tommaso Buscetta, il più importante pentito di Cosa Nostra, a svelarlo negli anni Ottanta al giudice Giovanni Falcone. Non ce ne sono stati molti altri di collaboratori di giustizia di un calibro paragonabile. Buscetta conosceva a fondo quelle regole e si è dissociato perché sentiva che dentro l’organizzazione qualcuno aveva tradito quei para-valori mafiosi. Dopo di lui diverse indagini hanno subito i contraccolpi del “pentitismo”, fenomeno per il quale tra gli anni Novanta e il Duemila tanti collaboratori di giustizia si sono spacciati per quello che non erano, pur di ottenere sconti di pena. Forse, finora, i collaboratori di giustizia che sui giornali sono stati raccontati come “pentiti” in realtà rientrano tra coloro i quali avevano ruoli non di prim’ordine, oppure non avevano – davvero – una visione complessiva del fenomeno. Anche perché una “cupola” non c’è.
Invece che addossare la responsabilità di trovare una soluzione solo agli organi inquirenti, che devono reprimere e cercano di sfruttare i mezzi che hanno, si potrebbe percorrere una via diversa, indicata in una ricerca che il think tank europeo Milieu ha proposto alla Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe). Il titolo è “I costi della non-Europa nelle politiche dell’asilo”. La pubblicazione si concentra sulle storture del sistema d’asilo europeo e l’immenso costo extra che ne deriva. I ricercatori calcolano che il l’immigrazione irregolare e la tratta costano all’Europa tra 19,7 e i 33,2 miliardi di euro all’anno. Una voce che include le operazioni di polizia, il controllo delle frontiere, la cooperazione con gli Stati nordafricani per la gestione dei flussi migratori. Lo studio però sottolinea come non ci sia, a corrispettivo di questo sforzo, un’apertura di possibili vie d’immigrazione legale che tolgano mercato ai trafficanti di uomini, che sono dei fornitori di un servizio, prima di tutto, agli occhi dei migranti (diverso è per le vittime di tratta, costrette alla migrazione e in condizioni di sfruttamento).
In Europa, però, questo tema è stato sempre messo in secondo piano di fronte alla necessità di “combattere i trafficanti”. Anche la criminalizzazione delle Ong ne è in qualche modo una conseguenza: ciò che permette alle organizzazioni mafiose di prosperare è la “zona grigia”, quello spazio intermedio tra legalità e illegalità costituito soprattutto da professionisti che lavorano in combutta con l’organizzazione o che appoggiano con le loro azione l’organizzazione. Di nuovo, la distorsione del mondo dei trafficanti di uomini come un mondo mafioso identifica le Ong che salvano vite in mare con questa “zona grigia” che permetterebbe ai mafiosi del traffico di esseri umani il raggiungimento del loro scopo. Per questo le inchieste – a partire dal caso Iuventa – tentano di identificare il momento in cui l’equipaggio delle Ong si mette d’accordo con chi recupera le imbarcazioni usate per il traffico. Le archiviazioni dei processi su Aquarius e Open Arms dimostrano però che questo è stato almeno finora un teorema. Non c’è “concorso esterno” come si direbbe per i reati di mafia. Non c’è supporto delle organizzazioni criminali, né libiche, né di altre nazionalità. Lo spazio occupato dalle Ong non ha nulla in comune con le milizie libiche, a capo di tutta la filiera.
Finché non ci sarà un indirizzo nuovo e un conseguente cambio di strategia il rischio è che anche gli organi repressivi continuino ad essere poco efficaci.
Lo sbarco di un presunto scafista arrestato nell’ambito dell’Operazione Sophia (foto: Eunavfor Med)