“Agadez? Non ci va più nessuno, ora il passaggio obbligato è qui, a Ingall”. Mohammed Aya lo sentenzia agitando le mani. È un quarantenne scavato in volto, e si presenta come il presidente del “bureau des migrants”, il rappresentante dei passeurs di questa cittadina nel centro del Niger, a 70 chilometri da Agadez. Poco lontano, adolescenti in maglietta si tuffano in una pozza d’acqua piovana nel letto di un torrente gridando “vive toumast!”: viva la patria dei Tuareg.
“Agadez oggi è bloccata, così i passeggeri arrivano da Tahoua, da Tchintabaraden, da Aderbissenat, da Abalak”, prosegue Aya. “Passano qui vicino, non posso dirvi esattamente dove, e proseguono verso l’Algeria o la Libia”. Gli fa eco Biahou Maidaiji, un altro passeur: “d’altronde il dipartimento di Ingall è grande come il Togo, e confina con Mali e Algeria, controllarlo è impossibile”.
La frase torna, pressoché identica, nelle altre città della zona, dove durante la stagione delle piogge il verde timido del Sahel si infila fra le sabbie sahariane. Yahaya Mohamed, consigliere comunale di Abalak, spiega che “da un po’ di tempo, con la crescita dei controlli ad Agadez, i trafficanti hanno aperto nuove rotte, e la nostra città è diventata un punto di smistamento”. Poco a nord di Abalak, prosegue, “le piste che arrivano dal Mali si incrociano con quelle dirette in Algeria, e di notte i migranti vengono trasbordati da un pickup all’altro: fino al confine non ci sono controlli”.
Lanciate in modo sistematico nell’estate del 2016, le misure repressive del governo del Niger nei confronti dei passeurs hanno cambiato le strategie e le rotte della fluida e articolata “agenzia viaggi” che negli ultimi anni ha trasportato centinaia di migliaia di persone dall’Africa occidentale fino a Libia e Algeria. Creando più di una preoccupazione per le autorità locali e mettendo a rischio, secondo molti, la vita di chi transita per il paese.
Il lunedì che cambiò tutto
Per capirne di più, bisogna percorrere la strada nazionale 1 fino ad Agadez, lasciandosi alle spalle i mercati affollati di Abalak. La striscia d’asfalto si assottiglia sempre più, fino a costringere autobus e jeep ad abbandonare il selciato per avventurarsi sulla sabbia. La “strada dell’uranio” – come viene chiamata quest’arteria, che dopo Agadez punta a nord, fino alla città mineraria di Arlit – è percorsa ogni giorno da decine di bus. Utilizzati, fino al 2016, da tutti quei migranti che raggiungevano Agadez per contrattare il passaggio attraverso il Sahara.
“È successo all’improvviso, un lunedì di settembre del 2016”, racconta Bachir Amma, animandosi ancora a distanza di un anno. “Prima, il lunedì era un giorno di festa per Agadez… I commercianti facevano affari e i migranti partivano sui pickup, accodandosi al convoglio militare che ogni settimana scorta i veicoli fino a Dirkou, in direzione della Libia”. Decine e decine di Toyota Hilux sfrecciavano sulla sabbia, i cassoni carichi di persone. Da allora, sottolinea, “dopo che diversi autisti sono stati arrestati e moltissime jeep confiscate, il lunedì mi mette tristezza”.
Oggi Amma si dedica a tempo pieno ad allenare il Nassara Football Club, la squadra di calcio di Agadez che, proprio ingaggiando dei migranti e pagandoli con i profitti del transito, ha risalito le classifiche nazionali. Fino al 2016 però, l’ampio cortile della sua casa in terra battuta funzionava da “ghetto” per chi passava dalla città. Migliaia di persone si sono fermate fra queste mura, prima di affidarsi agli autisti, con cui lo stesso Amma li metteva in contatto.
“Dopo che hanno arrestato alcuni conoscenti, io e una parte dei duemila lavoratori della migrazione di Agadez, abbiamo deciso di smettere”, continua Amma. “Ma le partenze non sono finite, si sono solo ridotte o spostate: oggi i migranti vengono mescolati ai nostri concittadini per viaggiare verso Ingall o verso le montagne dell’Aïr, oppure fatti arrivare in moto o a piedi da Agadez ai villaggi vicini, da dove partono di notte”.
I “ghetti”
Anche i ghetti, un tempo nel centro storico, sopravvivono nelle periferie delle città, “o sono diventati diffusi: i migranti sono distribuiti nelle case di famiglie povere, che ricevono un compenso, in modo da non dare nell’occhio”. Misrata, un quartiere all’estremo ovest di Agadez, è una scacchiera di spogli cortili quadrati che solo i muri in banco, l’impasto di terra rossa tradizionale, separano dai larghi viali esterni. Qui, dietro porte di metallo tutte uguali, continuano a funzionare molti ghetti. Ahmed, un autista che chiede di rimanere anonimo, ci porta in uno di quelli che gli forniscono clientela, gestito da un guineano. Cinquanta giovani, quasi tutti senegalesi e gambiani, condividono una stanza di 30 metri quadri. Il tetto in lamiera rende il calore ancora più insopportabile. Per molti di loro, Agadez equivale a quello spazio e a un tempo indefinito di attesa, sempre uguale.
Il primo a farsi avanti è Lamin, un ventenne gambiano, che mostra una cicatrice sopra il labbro, e segni di percosse sui fianchi. “Sono stati degli uomini armati in Burkina Faso, ci hanno rapiti e derubati verso il confine con il Niger, obbligandoci a chiamare le famiglie per un riscatto”. Il fratello minore, spiega aggrottando la fronte, non è stato liberato “perché i rapitori hanno giudicato insufficiente il riscatto per tutti e due”. Da quando è fuggito, arrivando ad Agadez, non ha più sue notizie. Ora, dice, “farò di tutto per proseguire verso la Libia e l’Italia, e denunciare questi criminali”.
A meno di cento metri di distanza dal ghetto di Lamin, Ahmed negozia l’ingresso in un altro cortile. “Possiamo stare poco”, spiega sottovoce. Lo scenario è completamente diverso: centinaia di persone sono ammassate lungo il muro di cinta, riparate dal sole con teli improvvisati. In un angolo, una tenda delimita il bagno. Due giovani donne fanno a turno per lavarsi, mentre una terza insapona la figlia di cinque anni, innaffiandola con una teiera. Sono tutti nigeriani, moltissime le donne. Non facciamo in tempo a parlare con una di loro, che il gestore del ghetto inizia a picchiare un uomo con la cintura. Ahmed fa segno di andarsene.
“L’applicazione della legge contro la migrazione”, spiega Ahmed, appena raggiungiamo la casa di un parente, “ha reso il lavoro sempre più difficile”. In carcere, dice, sono finiti gli autisti come lui, mentre i passeurs stranieri, “nigeriani, burkinabé, gambiani… Hanno sempre più potere e hanno semplicemente lasciato Agadez, arretrando a Niamey o addirittura nei paesi di origine e controllando i clienti da lì attraverso degli agenti”. C’è anche un fenomeno nuovo, qualcosa che in un decennio nel business della migrazione, non gli era mai successo: “in più di un caso, ho dovuto pagare per avere i passeggeri: 10-15mila franchi per ognuno, il che mi obbliga a rivenderli una volta arrivati a Sebha, in Libia”.
Che si siano aperte nuove rotte lo sa anche la Ue
Che le misure repressive adottate dal governo abbiano portato a cambiamenti nelle rotte, è indicato anche da un documento interno dell’Unione Europea dell’agosto 2017, ottenuto da Open Migration, secondo cui “si conferma che il cambiamento delle rotte migratorie ha causato un significativo aumento sia dei prezzi del trasporto, che dei rischi connessi all’attraversamento delle frontiere”.
Il rapporto cita a sua volta un documento del Ministero dell’Interno del Niger, secondo cui, nel primo semestre del 2017, 101 persone sono state arrestate e portate a giudizio, 66 veicoli confiscati, 7861 persone respinte ai confini e 1726 scortate fuori dal paese. Sarebbero almeno 12 le organizzazione internazionali attive nel traffico di persone smantellate, anche grazie all’Equipe Investigativa Congiunta, formata da poliziotti spagnoli, francesi e nigerini e finanziata dalla Ue.
L’applicazione della legge, secondo Feltou, ha favorito “il passaggio da un sistema di economia al dettaglio a un sistema mafioso, perché oggi solo chi ha capitale e conoscenze può continuare a trasportare migranti, legandosi ai grandi traffici di droga che attraversano la regione”. Una critica condivisa da Nana Ekoye, responsabile dell’ufficio di Agadez della Ong Alternatives Espace Citoyens, nata da un gruppo di giornalisti. Per Ekoye, che da anni promuove incontri sulla migrazione nei quartieri della città, “la legge, che sulla carta dovrebbe tutelare i migranti, ha favorito in realtà un sistema di vera e propria tratta”.
“Oggi succede che i migranti siano chiusi a chiave dentro i ghetti, mentre gli intermediari ritirano in banca i soldi mandati dalle famiglie: fino a 500 mila franchi [760 euro] per il viaggio verso la Libia, che prima poteva costare la metà”, continua la donna. Con il pattugliamento militare delle rotte principali verso il confine libico, “sono poi sempre più frequenti i casi di migranti abbandonati nel Sahara da autisti che temono di essere incarcerati”. Sono circa 150 i migranti morti nel deserto nel 2017, segnalati dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni; ma, come indica il rapporto interno Ue, “il numero dei migranti morti nella traversata potrebbe essere molto più elevato”.
Nonostante le partenze da Agadez siano sempre più nascoste, “alle 2, 3 di notte, a fari spenti, con una serie di sentinelle lungo il cammino”, dice Ahmed, “se hai i contatti giusti, è ancora possibile vederle”. Ma i giorni passano e i rinvii sono continui. “Partiamo domani, oggi c’è troppa polizia”, spiega. Il suo informatore è “un militare che sta a Séguedine, nel nord, e ha contatti ad Agadez”. Notizie di pickup fermati appena fuori città rimbalzano fra ghetti, caserme e uffici, a descrivere un gioco a nascondino fra i passeurs ancora attivi e le forze dell’ordine. Una sfida che prosegue sulle piste verso Libia e Algeria, dove si gioca la vita dei migranti in viaggio.
In copertina: Sow Ammar, migrante guineano, assiste una giovane nigeriana disidrata dopo giorni nel Sahara (fotografia di Giacomo Zandonini, come tutte le immagini e il video in questo articolo)